Riforma pensioni e dopo quota 100, per l’Acli occorre più flessibilità e uscita a 63-65 anni

Un sistema previdenziale più equo, flessibile e stabile è quanto chiede l’Acli per la riforma delle pensioni e il dopo quota 100. Una misura, quest’ultima, che terminerà la sua sperimentazione il 31 dicembre 2021 senza che possa essere rinnovata. Ma, al di là dei numeri e delle modalità di uscita, è necessario anche analizzare le motivazioni che hanno spinto i contribuenti a scegliere quota 100 per andare in pensione negli ultimi anni. Interessanti sono, a tal proposito, i risultati dello studio condotto proprio dall’Osservatorio del Patronato Acli sulla quota 100.

Pensioni, quanti sono stati i pensionati con quota 100 nel 2019-2021?

Non si può parlare di un ritorno alle pensioni della riforma Fornero in quanto i requisiti della legge del 2011 sono tutt’ora in vigore e lo sono stati anche negli anni in cui è rimasta in vigore quota 100. Tuttavia, nell’analisi dell’Acli, solo una minima parte dei pensionati degli ultimi anni ha beneficiato della misura. Nel primo anno, il 2019, le domande di quota 100 accolte sono state 193 mila. Poi si il numero si è ridotto progressivamente: 74 mila circa nel 2020 e un dato ancora da calcolare per l’anno in corso. Ma molto difficilmente si arriverà all’obiettivo della misura, ovvero a un milione di pensionati in tre anni.

Pensioni, si esce prima con quota 100 per avere più tempo per la famiglia

Più dei numeri è interessante avere il polso della situazione di chi ha scelto di andare in pensione con quota 100. Nello studio dell’Osservatorio Acli, infatti, quasi la metà del campione degli intervistati ha affermato di aver aderito a quota 100 “per dedicare più tempo alla famiglia” o per “avere più tempo libero”. Molto più bassa (il 12%) è stata la percentuale dei neopensionati che hanno scelto la misura di uscita dai 62 anni di età per le preoccupazioni legate alle “prospettive occupazionali del mercato del lavoro”.

Pensioni e riforma, qual è la giusta flessibilità?

Lo studio condotto dall’Osservatorio porta, dunque, a delle riflessioni su come intendere il sistema delle pensioni. La domanda da porsi è: “Perché oggi non si può scegliere di andare liberamente in pensione?”. Il quesito è direttamente legato a quanto richiesto dalle parti sociali in merito alla flessibilità in uscita dal lavoro. Ovvero, il contribuente deve aver libertà di decidere quando andare in pensione utilizzando il montante contributivo accumulato durante gli anni di attività. Anche a costo di avere una pensione più bassa.

Pensioni, un sistema più equo e stabile

Nella scelta di andare in pensione si rivendica, dunque, la possibilità da offrire al lavoratore il giusto bilanciamento tra la diminuzione dell’assegno di pensione e le esigenze di prepensionamento. È un cambio di prospettiva che l’Acli sente di poter appoggiare in vista di una riforma delle pensioni più equa, più flessibile e più stabile.

Equità delle pensioni, perché quota 100 non è stata la misura ‘per tutti’

Nell’analisi dell’Acli, il sistema previdenziale al quale i governanti dovranno giungere dovrà assicurare l’equità che quota 100 non ha garantito. Innanzitutto perché chi ha potuto beneficiare della misura sono soprattutto gli uomini con carriere lavorative più continue, situazione non replicabile per le donne per via delle interruzioni lavorative dovute alle gravidanze e al lavoro domestico. Arrivare a delle pensioni davvero eque significa assicurare trattamenti pensionistici per tutti, senza discriminazioni o situazioni di partenza che impediscano a chiunque di poter maturare i requisiti per una determinata misura.

Pensioni anticipate: troppi circa 43 anni di contributi per uscire da lavoro

In una situazione di carriere frammentate e discontinue, perfino i requisiti attuali di prepensionamento o di futura pensione delle giovani generazioni appaiono da riformare. È impensabile richiedere requisiti di pensione anticipata con circa 43 anni di contributi divenuti ormai un traguardo quasi irraggiungibile, così come i 71 anni di età ai quali andranno incontro i giovani come requisito aggiornato dalla speranza di vita dei prossimi anni.

Flessibilità delle pensioni, proposta di uscita tra 63 e 65 anni

In questo scenario, la flessibilità delle pensioni potrebbe risolvere varie situazioni. Intanto perché gli strumenti che dovrebbero garantire un’uscita agevolata ai lavoratori con particolari disagi economici o sociali (come l’opzione donna, l’Ape sociale o la stessa quota 100) si sono rivelati sistemi “rigidi” oppure “troppo selettivi”. La flessibilità dovrebbe assicurarsi con la libertà per il lavoratore di andare in pensione tra i 63 e i 65 anni, con un minimo contributivo che potrebbe essere fissato a 20 anni di versamenti.

Riforma pensioni, purché sia un sistema stabile e di regole certe

Infine, la riforma delle pensioni dovrà garantire la stabilità delle norme. Non è possibile accedere al mercato del lavoro con determinate regole pensionistiche e ritrovarsi le stesse stravolte dal passare degli anni, delle leggi e dei meccanismi di uscita. In tal senso dovrà essere superata anche la logica degli interventi sperimentali. Misure frammentarie, episodiche, valide per qualche anno hanno caratterizzato la materia previdenziale per troppi anni, soprattutto negli ultimi decenni.

Pensioni integrative in soccorso dei lavoratori del contributivo

E, da ultimo, tra le proposte dell’Acli figura quella di rendere obbligatoria l’iscrizione alla previdenza complementare. Uno strumento che potrebbe risolvere molte delle situazioni penalizzanti dei contribuenti, soprattutto dei giovani. Con un sistema previdenziale che tra qualche anno sarà costituito da soli lavoratori del contributivo, costruirsi una “pensione di scorta” non potrà che rafforzare la scelta flessibile per andare in pensione prima.

Pensioni, cosa succede se la riforma parte dai coefficienti di trasformazione?

Se dovesse arrivare una vera e propria riforma delle pensioni per il dopo quota 100, quasi certamente andrebbe a modificare i criteri e i meccanismi che sono alla base del diritto alla pensione stessa. Ma non si agirebbe sui criteri di calcolo delle pensioni che possono indirizzare le scelte dei lavoratori, ovvero se uscire prima da lavoro oppure attendere ancora qualche anno.

Dalla riforma Dini alle riforme pensionistiche più recenti

Agire sul calcolo della pensione equivale a dire modificare i coefficienti di trasformazione. Ne è convinto il professor Sandro Gronchi che, in un articolo scritto per Il Sole 24 Ore, analizza il sistema italiano dei coefficienti rispetto a quelli applicati in alcuni Paesi nordici, soprattutto in Svezia. Il punto di partenza è la riforma Dini del 1995 per i pensionamenti che sarebbero maturati nel 1996, l’anno che fa da spartiacque tra sistema retributivo, misto e contributivo.

Coefficienti di trasformazione, la mancanza di una vera riforma delle pensioni

Il risultato, dalla riforma Dini a quelle più recenti, è stato di un sistema pensionistico italiano basato su criteri di uscita che creano dubbi, disparità di trattamento previdenziale e un’età pensionistica in crescita. Ma non l’età media effettiva di uscita. L’introduzione dei coefficienti di trasformazione nel 1996 in Italia è stata superficiale, “non furono legiferate né la formula, né le fonti cui attingere i molti dati contenuti nei coefficienti”. E furono trascurate riforme previdenziali che  avrebbero dovuto intervenire sull’invalidità, sul meccanismo di perequazione, sulla reversibilità e sui requisiti anagrafici stessi della pensione.

Pensioni, come funziona il coefficiente di trasformazione?

Il calcolo della pensione si basa essenzialmente sul montante contributivo e sul coefficiente di trasformazione. Quest’ultimo è un indice che va moltiplicato al montante per ottenere l’assegno di pensione. L’analisi va fatta, dunque, sui coefficienti che caratterizzano ogni anno di uscita per la pensione e la differenza tra essi. Il coefficiente è tanto più alto quanto più si ritarda la pensione. Ma di coefficienti, aggiornati ogni due anni (e sempre al ribasso), ve n’è uno per ogni anno in cui il lavoratore può accedere alla pensione. Attualmente, vi sono coefficienti corrispondenti alle età dai 57 anni ai 71 anni.

Perché più si va in pensione tardi e più è alto il coefficiente di trasformazione?

Tra i fattori che incidono sul coefficiente di trasformazione vi è la speranza di vita. Al crescere dell’età di pensionamento, la durata degli anni “da pensionato” è più bassa. Di conseguenza il coefficiente non può che aumentare. Ciò implica che, a parità di contributi versati, chi esce dopo ha una pensione più alta. In qualche modo deve essere “premiato”. Ma questo meccanismo presenta tre anomalie per il professor Gronchi. La prima è che se la pensione è reversibile, allora la speranza di vita non dovrebbe riguardare il solo pensionato, ma anche il coniuge superstite.

Come cambiano i coefficienti di trasformazione per la pensione

La seconda anomalia che presenta il coefficiente di trasformazione è che l’indice è applicato indipendentemente dall’anno di nascita. Ovvero, il coefficiente corrispondente all’età di pensione di 65 anni dell’attuale biennio, viene applicato nel 202i ai nati nel 1956 e nel 2022 sarà applicato ai nati nel 1957. Anche a distanza di un anno, l’applicazione dello stesso coefficiente potrebbe determinare elementi di obsolescenza nel calcolo della pensione.

Pensioni, il fattore obsolescenza dei coefficienti di trasformazione

La terza anomalia si riscontra nella differenza tra pensioni di vecchiaia a 67 anni e pensioni anticipate (o anzianità contributive). Le seconde possono essere raggiunte già dai 57 anni di età e maturare lungo un lasso di tempo ampio. Ad esempio, una lavoratrice nata nel 1964 potrebbe andare in pensione dai 57 anni ai 67 anni (dal 2021 al 2031). Nel frattempo cambieranno 6 volte i coefficienti di trasformazione, una volta per biennio.

Coefficienti di trasformazione e speranza di vita

Con la speranza di vita in aumento, la rinuncia a uscire a un’età più bassa determina l’erosione della pensione, dal momento che l’assegno dovrà essere spalmato su un numero di anni superiore. Questo meccanismo di obsolescenza dei coefficienti può essere più chiaro confrontandosi con un collega che, a parità di contributi, ha deciso di andare in pensione prima.

Il modello Svezia per i coefficienti di trasformazione

La Svezia ha adottato un sistema di coefficienti di trasformazione diverso da quello italiano. Innanzitutto per il diverso meccanismo di pensionamento riconosciuto dai 65 ai 68 anni. La scelta all’interno della fascia è libera e flessibile, e non sono richiesti anni minimi di contribuzione. E, di conseguenza, gli indici sono calcolati per i soli 4 anni di uscita per limitare l’obsolescenza. A ciascuna età è assegnato un coefficiente di trasformazione legato all’anno di nascita. Dunque, vi è un coefficiente fisso per il 2021 assegnato al 65enne nato nel 1956 che voglia andare in pensione. Coefficiente che è stato ricalcolato rispetto a quello applicato al 65enne che è andato in pensione nel 2020 essendo nato nel 1955.

Come si potrebbero calcolare le pensioni con pochi anni di coefficienti di trasformazione?

Un sistema come quello svedese in Italia rivoluzionerebbe tutto il meccanismo dei coefficienti, proprio per l’ampia fascia di età (dai 57 ai 71 anni) in cui è possibile andare in pensione. Applicare il modello svedese vorrebbe dire avere fin da subito un coefficiente da assegnare al lavoratore nato nel 1964 che volesse andare in pensione con l’anzianità contributiva nel 2021. Diversamente lo stesso lavoratore dovrebbe attendere il 2031 per avere il coefficiente della pensione di vecchiaia dei 67 anni. Ciò spiega perché l’adozione di pochi coefficienti di trasformazione richiedere un numero di anni di calcolo (e di uscita) contenuto. In Italia una riforma ragionevole potrebbe essere dai 64 ai 67 anni, in linea con i requisiti della Fornero.

Pensioni anticipate in Svezia: l’anticipo viene scalato dal montante dei contributi

Ma un meccanismo del genere comporterebbe anche l’abbandono di varie formule di pensionamento anticipato vigenti in Italia. Nel modello pensionistico svedese esiste una possibilità di uscita anticipata dai 62 anni. Si tratta di assegni mensili configurati come “prestiti” garantiti dal montante contributivo maturato. Alla maturazione della vecchiaia il debito viene rimborsato a valere sul montante stesso.

Previsioni di riforma delle pensioni in Italia: novità in arrivo sui requisiti di accesso

E dunque, la pensione si calcola moltiplicando il montante residuo con il coefficiente di trasformazione corrispondente ai 65, 66, 67 o 68 anni. Ma la formula anticipata è piuttosto snobbata dai lavoratori. Vi ricorre un terzo dei pensionati, molti dei quali rimasti senza lavoro. L’esempio svedese potrebbe essere un ottimo sistema per il riordino delle pensioni italiane e per il ricalcolo dei coefficienti di trasformazione. Tuttavia, le indiscrezioni sulla riforma italiana anticipano provvedimenti che si limiteranno ad agire sui requisiti di accesso alla pensione.