Bando per le startup innovative milanesi

Per favorire l’innovazione digitale delle startup milanesi, appartenenti a tutti i settori produttivi, attraverso la concessione di incentivi economici, è stato istituito il bando “Fare Impresa Digitale”, promosso dalla Camera di Commercio e dal Comune di Milano in collaborazione con gli Osservatori della School of Management del Politecnico di Milano e PoliHub, l’incubatore del Politecnico di Milano.

Il bando si rivolge alle imprese che hanno sede legale nella provincia di Milano ed ha come aree tematiche di riferimento:

  • Internet of Things
  • Mobile Payment
  • e-Commerce

Startup e imprese potranno beneficiare di contributi a fondo perduto fino a 30mila euro e fino al 50% dell’investimento.

Le domande per accedere al bando possono essere presentate fino al 20 Settembre 2013.

Vera MORETTI

Design Directory, il design 2.0

 

Una mappa per fotografare lo stato dell’arte del design del Belpaese, ma anche uno strumento in grado di ‘fare rete’, di stringere i fili e creare nuove relazioni tra le aziende, piccole e grandi, che danno forma a quell’eccellenza italiana chiamata ‘Design’. Si chiama Design Directory il progetto nato grazie al Dipartimento INDACO – di Industrial Design, Arti, Comunicazione e Moda – del Politecnico di Milano e   in collaborazione con Fondazione Museo del Design. Il primo e unico in Italia,  che vanta anche tanti ‘gemelli’ europei.

Ma perchè è importante ‘mappare‘ il design in Italia? Qual è la fisionomia delle imprese che da sempre costituiscono l’ossatura e la forza di un settore che sembra non conoscere crisi (o quasi)?

Infoiva a intervistato Venanzio Arquilla,designer e ricercatore del Dipartimento INDACO del Politecnico di Milano e tra i fondatori del progetto.

Com’è nato il progetto di Design Directory Italia?
Il progetto Design Directory Italia è nato qualche anno fa inizialmente come Design Directory Lombardia per un progetto della Provincia di Milano e Camera di Commercio di Milano in occasione della mostra MilanoMadeinDesign tenutasi a New York. In quell’occasione è stato realizzato il volume Milano Made in Design – Design Directory consultabile sul sito www.designfocus.it nella sezione Ricerche. L’evoluzione di quell’esperienza ha portato alla realizzazione della Design Directory Italia, un progetto del Dipartimento DESIGN del Politecnico di Milano, sviluppato in collaborazione con Fondazione Museo del Design, come contributo alla realizzazione del Triennale Design Museum.
L’obiettivo del progetto era lo sviluppo di una mappa dinamica e consultabile, attraverso l’interrogazione di apposite sezioni tematiche, che rendesse palese la dimensione sistemica del design italiano, ben consapevoli che la messa in rete, in un’unica piattaforma, di tutti gli attori del design italiani rappresentasse un importante strumento di visibilità e promozione dell’intero sistema del design italiano. Il Modello lombardo è stato poi applicato all’intero contesto nazionale; Design Directory oggi è una realtà anche se dovrà essere avviata la sua seconda fase: la mappa social, ovvero uno strumento grazie al quale le imprese di tutto il territorio possono comunicare fra loro. Si tratta di una mappa certificata ma non autonoma, uno strumento dinamico che sia in grado di mettere in contatto le aziende fra loro e diventare uno strumento importante per farsi conoscere: una sorta di vetrina del design made in Italy.

Quante sono oggi in Italia le imprese del design? Si tratta perlopiù di piccole e medie imprese?
Proprio nell’ottica sistemica del design abbiamo inserito nella directory una sezione dedicata alle imprese e ci siamo trovati di fronte al problema di definire cosa fossero le imprese di o del design. Per fare ciò abbiamo classificato come imprese di design tutte quelle imprese che hanno ricevuto premi o segnalazioni in concorsi nazionali (compasso d’oro ADI e ADI Design Index) e internazionali (ad esempio Red dot design award o altri) e/o che fossero presenti in esposizioni permanenti o mostre di design in Italia e all’estero (dalla Triennale di Milano al MOMA). Questo ci ha permesso di includere le sole imprese eccellenti di design. Il numero quindi non è elevatissimo, sono circa un migliaio. Nonostante sia diffusa l’associazione tra imprese italiane e design, quelle realmente eccellenti sono poche, le altre vivono in un’atmosfera di design ma non sono realmente innovative e per questo non ricevono riconoscimenti ufficiali. Per la maggior parte si tratta di micro, piccole e medie imprese che hanno fatto della relazione positiva con designer, spesso esterni alla realtà aziendale, un carattere distintivo: sono imprese design oriented.

Qual è l’identikit del designer oggi?
La disciplina del design sta radicalmente cambiando perchè cambia il contesto e soprattutto cambia il mondo della produzione. Oggi sono richieste nuove competenze. Il design da un lato assume un riconosciuto valore strategico integrando oltre alle competenze di sviluppo prodotto anche competenze sugli aspetti comunicativi e di servizio e dall’altro crea nuove relazioni con la produzione. In molti casi, soprattutto nel contesto italiano, il design diventa microproduzione d’eccellenza, andando a rivalutare l’artigianato tradizionale (artigianato ma anche autoproduzione) senza dimenticare le nuove potenzialità offerte dalle tecnologie come la stampa 3D ed in generale tutto il fenomeno dei Makers. Oggi i designer non sono più chiamati a fare, solo e bene, il proprio mestiere, per emergere è necessario creare nuove connessioni, estendere il dominio delle proprie competenze, cercare di integrare gli utenti nel processo, in poche parole bisogna cercare di essere impresa, anche sostituendosi all’impresa, creando nuova impresa che si può chiamare designer=impresa, dove con impresa si intende il soggetto che sta nel mercato e genera economia, un’economia non speculativa ma con un importante portato sociale e culturale.

Il design è un’eccellenza e un vanto del made in Italy. Perchè?
Ad essere vanto del Made in Italy non è il design ma quell’inscindibile combinazione tra saper fare (spesso artigianale) e design che con modalità varie e sempre molto originali ha costituito il successo del Made in Italy e del modello ad esso connesso quello dei distretti industriali. La storia del design italiano, dal secondo dopoguerra fino quasi al duemila, testimonia di un rapporto fruttuoso e virtuoso tra capacità di progetto e di visione, che molti oggi chiamano creatività e che viene anche definita capacità di dare senso e significato agli oggetti, e saper fare artigianale. Una produzione non banale, saldamente ancorata alle tradizioni, un modello di sviluppo più manifatturiero che industriale.

Federlegno ha lanciato l’allarme qualche giorno fa, definendo ‘drammaticamente negative’ le prospettive per la filiera dell’arredo e del design per il 2013 (il 60% delle imprese ha dichiarato a gennaio 2013 ordini in forte flessione): dal vostro punto di osservazione privilegiato come commentate questo dato?
Oggi anche l’utopia, per dirla alla Mari, del Made in Italy si sta esaurendo di fronte alle sfide della globalizzazione, come certificano i dati di Confindustria. Questo non vuol dire che non vi siano speranze anzi è necessario provare davvero a valorizzare quello che contraddistingue il nostro Paese a livello mondiale. Il nostro patrimonio sono la miriade di piccole eccellenze del nostro artigianato, la capillarità di un sistema di microimprese, ognuna con la propria specificità e competenza, che hanno fatto grande il Made in Italy, che ora sono in sofferenza ma che ripensate in una rete globale potrebbero riprendere valore e soprattutto potrebbero non depauperarlo sdoganando definitivamente la sapienza insita nelle professioni artigianali, magari mixandola con la nuova tecnologia e la competenza del design, un nuovo design ma anche un nuovo modello produttivo, entrambi 2.0. Questo cambiamento auspicato è essenzialmente un cambiamento culturale e di approccio dove tutti devono trovare un ruolo, sia designer che imprese.

Alessia CASIRAGHI

Il bello della Cloud Economy

Quali sono i vantaggi della Cloud Economy?

La School of Management del Politecnico di Milano ha pubblicato a proposito il rapporto “Cloud economy, ultima chiamata”, nel quale fotografa i possibili sviluppi sul mercato di un settore che, solo in Italia, vale 443 milioni di euro, inglobando il 2,5% di investimenti in IT e con tassi di crescita annua del 25%.

Il vantaggio maggiore del cloud computing è sicuramente la possibilità, da parte delle aziende, di utilizzare server remoti accessibili anche da smartphone e tablet, con tutta una serie di vantaggi ulteriori, ovvero scalabilità dei servizi che permette di pagare solo ciò di cui si usufruisce; riduzione degli investimenti a parità di offerta; maggiore adattabilità rispetto alle richieste dei clienti; sicurezza affidabilità e costante aggiornamento dei sistemi.
Una delle novità riguarda il cloud ibrido, che permette alle aziende di distinguere cosa gestire in proprio e cosa affidare al fornitore: grazie a questa flessibilità promette di soddisfare le esigenze anche di microimprese e pmi, abbinando a data center interno i vantaggi dalla Nuvola pubblica.

Un esempio di ciò è rappresentato da CloudItalia, azienda da poco acquisita da Eutelia e con data center a Roma e Arezzo, in grado di sfruttare 14 mila kilometri di fibra ottica su tutto il territorio italiano, così da garantire spostamento e salvataggio di dati e programmi alla velocità di 40 GB al secondo.

Ma non è tutto oro quello che luccica, perché lo studio Osterman Research “The cloud advantage: increased security and lower costs for SMB” realizzato per Trendmicro, dimostra che alla diffusione del cloud corrisponde un aumento delle violazioni attraverso Internet (+35% rispetto al 2007) e posta elettronica (+12%) e dispositivi mobili (sul 4,3% dei terminali secondo una media mensile) dei quali il 52,1% nel corso dell’anno.

Da questa indagine traspare anche come sia Android il sistema operativo più in crescita presso le piccole e medie imprese (+7,1% rispetto al 2011) seguito da iOS su iPhone (+3,1%) e iPad (+1,9%).

Vera MORETTI

E’ nata Res4Med, associazione No profit dall’animo green

E’ nata una nuova associazione No Profit dal nome Res4Med, Renewable energy solutions for the Mediterranean, da un’iniziativa in comune tra Enel Green Power, Edison, Cesi, Gse, Pwc e il Politecnico di Milano, con il patrocinio dei ministeri dello Sviluppo, Ambiente, Esteri e Ricerca, e della Camera di Commercio di Milano.

Si tratta di un’iniziativa di gruppo per promuovere le energie rinnovabili nel Mediterraneo e le infrastrutture elettriche necessarie al loro trasporto, poiché questa regione si trova, oggi più che mai, al centro dell’attenzione.
In un periodo di crisi profonda come quella che stiamo vivendo, infatti, occorre garantire a tutta l’area mediterranea non solo sviluppo e stabilità, ma anche la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, la crescita della domanda di energia, l’ottimizzazione dei rapporti commerciali tra paesi produttori e paesi consumatori e la garanzia di un futuro energetico sostenibile per l’intera regione.

Come fare per trasformare in realtà questi concetti?
Paolo Andrea Colombo, presidente Enel, sottolinea che “la domanda di energia complessiva del bacino del Mediterraneo è destinata a crescere di circa il 1,5 % all’anno in media entro il 2030. In particolare la domanda di elettricità a sud del Mediterraneo aumenterà ad un tasso di crescita medio di circa il 5% all’anno e si prevede un aumento di 370 Gw della capacità installata”.

E le fonti rinnovabili potrebbero, a questo punto, entrare in gioco ed essere utilizzate per produrre una buona parte di questa energia, non solo per il fabbisogno dei Paesi che si affacciano sul mediterraneo, ma anche per accontentare il resto d’Europa.
Le stime che il Mediterranean Energy Perspectives 2011 dell’Ome ha stilato per il prossimo futuro prevedono investimenti entro il 2030 per le sole centrali solari ed eoliche per 120-160 miliardi di euro, lo stesso ordine di grandezza di quelli per le centrali tradizionali.

In questo quadro, Res4Med mira a creare le necessarie condizioni normative, infrastrutturali e finanziarie per la diffusione su larga scala di impianti e di sistemi di energia rinnovabile e per l’integrazione del mercato dell’energia elettrica nell’area del Mediterraneo.

Corrado Clini, ministro dell’Ambiente, ha commentato: “L’iniziativa mette in evidenzia quello che dovrebbe essere naturale. L’Italia è il paese che ha le maggiori possibilità di costruire e rappresentare una piattaforma di riferimento per il supporto alla creazione dei paesi del nord Africa e nell’area balcanica della rete dell’offerta di energia che utilizza le migliori tecnologie, le più efficienti e possibilmente italiane”.

Si tratta, dunque, di una grossa opportunità, considerando anche che il mercato della sponda sud del Mediterraneo e dei Balcani è in continua crescita, e che la regione intorno al Mare Nostrum è un importante snodo di relazioni tra Europa e est Europa e tra Europa e Africa.

L’associazione appena fondata, dunque, ha, tra le sue missioni, quella fondamentale di instaurare un dialogo con gli organi politici e le istituzioni per fungere da network di network con le iniziative internazionali in atto, sia istituzionali come Med Solar Plan e Medreg, sia industriali come Desertec Dii, MedGrid, Ome, Med-Tso e i Piani nazionali solari, oltre che di aiutare i principali player energetici a proporre piani di intervento condivisi per l’area del Mediterraneo, dal Nord Africa ai Balcani.

Vera MORETTI

In città si vive meglio con le onlus

di Vera MORETTI

Vivere in città? Non solo è più costoso, a cominciare dalla casa, ma la qualità della vita è peggiore rispetto alla vita di provincia, a causa di aria inquinata, strade sporche, traffico intenso e poco verde.
Nonostante il 27% degli italiani abiti in comuni con più di 250mila abitanti, dunque, la metropoli non è amica dei cittadini e, anzi, sembra a volte complicarne la vita. L’inefficienza dei servizi proposti, infatti, rende quasi impossibile amare il luogo in cui si vive.

E allora, che fare? Fuggire in campagna spesso non si può, e né lo si desidera, ma è provato che, nelle città in cui il terzo settore è più forte, la vita quotidiana è migliore.

Esempio lampante di ciò è Firenze, che grazie ad edilizia popolare e verde pubblico è diventata vivibile e a misura d’uomo, ma ricevono apprezzamenti soddisfatti da parte dei propri cittadini anche Bologna, prima per trasporti e mobilità, e Torino, che si aggiudica la medaglia d’oro per attività e strutture per il tempo libero.
Fanalini di coda sono Palermo, maglia nera per i trasporti, e Napoli, che ottiene il pollice verso per rifiuti, verde e tempo libero.

Sono questi i dati resi noti dal sesto rapporto sull’abitabilità delle città della Fondazione per la Sussidiarietà. Per conto della Fondazione, il Politecnico di Milano ha condotto lo studio Sussidiarietà e… città abitabile, che ha preso come campione dodici grandi città, tutte sopra il 250mila abitanti, che rappresentano complessivamente il 15% della popolazione italiana totale, ovvero: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia e Verona.

Pur provenendo da città diverse, i cittadini si sono trovati concordi nel bocciare la qualità dei servizi pubblici erogati. Il 60% è critico soprattutto per i pochi servizi per l’edilizia popolare, seguito, per il 56%, da trasporti e mobilità. Insufficiente anche il verde pubblico per il 51% e per il 46% la pulizia delle strade. La situazione sembra essere migliore per quanto riguarda le attività e le strutture del tempo libero, bocciate “solo” dal 44% degli intervistati.

A chi spetta il compito di risolvere questi problemi e migliorare i servizi? I cittadini non hanno dubbi: il Comune ed altri enti pubblici hanno la responsabilità dell’andamento, e quindi del miglioramento, dei servizi offerti dalla città.
Anche se, laddove sono presenti associazioni di famiglie e residenti, nonché cooperative e onlus, la qualità della vita cittadina migliora di gran lunga, soprattutto per quanto riguarda il tempo libero, 39,7% ma anche il verde pubblico, 30,6%.

Il presidente della Fondazione, Giorgio Vittadini, spiega così questa tendenza: “Da una parte si registra un ritorno di sfiducia nei confronti della dominanza della logica del mercato in questi settori. Dall’altra appare improbabile che l’intervento pubblico possa di per sé garantire l’abitabilità delle città. In questo contesto desta un rinnovato interesse l’ipotesi che la sussidiarietà, l’iniziativa libera di chi riconosce una specifica esigenza e si unisce ad altri per rispondervi, possa portare un contributo originale e insostituibile“.

Questo perché le associazioni sono più vicine alla vita di quartiere e comprendono più a fondo le sue problematiche, tanto da riuscire a risolverle in modo efficace.
Esempi concreti di ciò sono il Centro Pompeo Leoni a Milano, nato in risposta all’esigenza di trovare case a prezzi accessibili agli studenti universitari fuori sede, l’Amicobus di Torino, nato per accompagnare gli anziani invalidi. Oppure la storica Polisportiva Ponte Vecchio a Bologna e i Friarielli Ribelli a Napoli, gruppo spontaneo che ha reclutato adepti via Internet e rimesso a nuovo piazze diventate discariche. Perché la città partenopea non ci sta ad essere sempre il fanalino di coda.

Un antidoto alla crisi? Investire nell’ICT

di Manuele MORO

Mentre l’Italia attraversa una delle peggiori crisi economiche di tutti i tempi, i maggiori luminari del settore si interrogano su quali misure adottare per riuscire nell’ardua impresa di ridurre il sempre più preoccupante debito pubblico accumulato e, al tempo stesso, incentivare la crescita.

Ecco, una piccola risposta in questo senso, sicuramente parziale ma non per questo meno significativa, arriva dal convegno Crisi finanziaria e rilancio dell’economia: quello che l’Ict può fare, organizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano insieme a Cefriel, con il patrocinio di Assinform, Aused e ClubTI.

Come chiaramente evidenziato dal titolo, scopo dell’iniziativa era fornire dati attendibili a sostegno di quella tesi ampiamente condivisa, ma mai supportata da numeri chiari e inequivocabili, che vede nella capillare diffusione delle tecnologie digitali in ambito business una delle chiavi per il rilancio delle imprese e dell’economia nel suo complesso.

E i risultati dell’indagine, presentati lo scorso 30 novembre al Politecnico di Milano, parlano chiaro:   maggiori investimenti nell’ICT renderebbero possibile non solo un incremento del PIL tra lo 0,4 e lo 0,9%, ma anche un notevole risparmio di risorse, fino a 43 miliardi di euro all’anno. E tutto questo solo nella Pubblica Amministrazione.

L’eProcurement, ad esempio, consentirebbe di ridurre la spesa che la PA sostiene annualmente per gli acquisti di ben 4 miliardi di euro, mentre con la digitalizzazione di alcuni processi burocratici e la semplificazione delle procedure di pagamento si recupererebbero addirittura 24 miliardi di euro. Allo stesso tempo, la maggiore produttività del personale permetterebbe di liberare altri 15 miliardi.

A stupire è soprattutto la (relativa) esiguità degli investimenti necessari nell’immediato per ottenere risultati di questa portata: poco meno di 3 miliardi di euro, da indirizzare soprattutto allo sviluppo della banda larga e ultralarga, ma anche al finanziamento delle start-up più promettenti in ambito hi-tech.

Fin qui, tutto bene. Ma i soggetti direttamente interessati, ossia le imprese italiane, sono davvero consapevoli dell’importanza strategica delle nuove tecnologie digitali? Non a sufficienza purtroppo, perlomeno a giudicare dalle risposte raccolte dai ricercatori della School of Management su un campione di oltre 170 aziende: nel 2012, infatti, la maggioranza è intenzionata a mantenere invariato il budget ICT, che viene però in larga parte assorbito dai costi di gestione.

La parte più consistente di questi fondi, in ogni caso, sarà destinata alla razionalizzazione dei sistemi informativi (sviluppo dei data center e delle soluzioni cloud) e alla digitalizzazione dei processi aziendali: una decisione che, secondo Mariano Corso, responsabile scientifico della ricerca, è indice del tentativo da parte delle divisioni ICT di “autofinanziare l’innovazione attraverso il recupero di risorse”.

d.S.

Lanfranconi nuovo presidente dei Giovani imprenditori Confapi

Trentanove anni, sposato con due figli e già presidente dei giovani imprenditori di Api di Lecco e presidente dei Giovani Imprenditori Confapindustria Lombardia: è Oriano Lanfranconi, eletto nuovo presidente dei Giovani imprenditori della Confapi.

Dopo una laurea in ingegneria meccanica conseguita al Politecnico di Milano, è divenuto socio e membro del Cda dell’azienda di famiglia, la Metallurgica Invernizzi e Mutazzi spa.

In Italia, sottolinea Lanfranconi, “l’interesse sul tema dell’imprenditoria giovanile deve restare elevato”. “E’ necessario perciò individuare percorsi innovativi per favorire la nascita di nuove imprese. Per questo abbiamo in mente di costituire un tavolo permanente per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile, con particolare riferimento ai temi: economia e finanza, lavoro e welfare, sicurezza, semplificazione e sviluppo economico.

Inoltre, prosegue il nuovo presidente, “promuoveremo momenti formativi di altissimo profilo per preparare al meglio alle sfide del futuro i giovani imprenditori e i funzionari delle associazioni territoriali aderenti a Confapi”. “Attiveremo una vera e propria scuola di politica associativa, con un moderno centro studi, operante nei settori della regolamentazione del lavoro e welfare, sviluppo economico e lobbystico, sociale e politico, management. Il nostro prossimo impegno  sarà l’appuntamento annuale del Congresso nazionale Gic a novembre, da sempre la nostra vetrina mediatica più significativa, dove discuteremo con i più importanti esponenti del mondo economico, politico, sindacale e associativo” conclude Lanfranconi.

I componenti della nuova squadra di Presidenza Gic sono: Elisa Beniero (Vicenza) in qualità di vicepresidente, Francesco Alberti (Calabria) Edoardo Corna (Sardegna) Cristiano Orlandi (Perugia) e Sonia Piumatti (Cuneo).

Marco Poggi