Le alternative agli investimenti alternativi

 

La terra ha un valore, in quanto bene scarso, ed il suo valore è tanto più rilevante quanto lo sono le potenzialità di sfruttamento che offre, in relazione alla richiesta di mercato attuale o prospettica. Maggiore è la capacità di comprendere l’evoluzione della richiesta, maggiore è la possibilità di ottenere plusvalore dal terreno acquistato.

Un terreno edificabile, oggi, può avere scarsa appetibilità per il futuro, considerando l’inflazione di offerta sul mercato immobiliare e la scarsezza di domanda. Con le dovute eccezioni, perché in zone ad elevato potenziale turistico o di sviluppo economico, le prospettive di incremento, anche a breve, del valore, sono molto incoraggianti.

I terreni, in generale, contraddicono un principio rilevante per gli investimenti alternativi, la loro facilità di trasporto; un appezzamento, quindi, subisce tutte le eventuali ripercussioni di problemi sociali e  politici che dovessero insorgere nel corso del tempo. Anche perché, altra caratteristica che contraddice i principi, il terreno ha un orizzonte temporale di lungo o lunghissimo periodo. Inoltre, gravano come  spade di Damocle, gli incrementi di tassazione o la possibilità di confisca, per ragioni pubbliche o per scelte politiche, dei possedimenti in questione.

Nonostante queste contraddizioni, ritengo utile diversificare il patrimonio anche con l’acquisto di terreni, sempre che ci si faccia aiutare, nella scelta, da consulenti che debbano vendervi nulla.

Considero un valido investimento alternativo sopratutto i terreni agricoli, per diverse ragioni.

Prima di tutto, un terreno agricolo può divenire terreno edificabile, quindi aumentandone il valore in maniera esponenziale. Non credo sia una condizione che si verificherà facilmente nei prossimi anni, considerata la crisi immobiliare attuale, la enorme quantità di offerta di immobili, la contrazione di domanda e di popolazione. Con le debite eccezioni di luoghi ad elevato potere di espansione, in grado di attirare investitori stranieri.

Ma nel lungo periodo, potrebbe accadere che torni una certa “fame di immobili nazionali” e di conseguenza di terreni su cui edificare.

In secondo luogo, i diritti di sfruttamento del sottosuolo, che normalmente rimane di proprietà dello Stato, possono far lievitare il valore nel caso di scoperte di giacimenti di materie prime utili all’industria.

In terzo luogo, è plausibile che ci sarà, nei prossimi anni, un ritorno alla coltivazione della terra; se pensate alle molte persone senza un lavoro e a quelle che potrebbe perderlo, l’unica soluzione sarà quella di coltivare, in proprio o conto terzi, prodotti necessari al mantenimento della popolazione.

Ancora, sta aumentando il consumo di legno pregiato da costruzione, sia per ragioni ecologiche che di costo, ed è plausibile che la tendenza continui nei prossimi 20 anni. Potrebbe essere un ottimo investimento possedere un terreno su cui è possibile coltivare teak, ad esempio.

Un problema può essere la reperibilità di terreni agricoli interessanti e non troppo estesi, perché esistono diritti di prelazione per i coltivatori  e per i confinanti, addirittura è difficile sapere che un determinato terreno è in vendita. Ma non è impossibile, basta riferirsi a professionisti seri ed affidabili.

 

Dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

 

Le alternative agli investimenti alternativi

 

Come già detto in precedenti occasioni, è importante assecondare gli interessi che ognuno di noi ha. Quindi, se le auto e i veicoli d’epoca sono la vostra passione, possono rappresentare un valido investimento alternativo.
Alcuni problemi sono comuni agli oggetti di arte e antiquariato; lo stoccaggio può richiedere spazi molto ampi, sopratutto se si possiedono molti veicoli, e gli spazi devono essere adeguatamente protetti da “incursioni” di potenziali ladri o vandali.
Ci sono anche costi da sostenere, collegati alla circolazione dei mezzi in questione (assicurazione e bollo, anche se ridotti rispetto alle auto recenti), alla protezione (assicurazione, impianti di allarme, sorveglianza), alla manutenzione o al restauro. Questi costi possono incidere anche pesantemente sul bilancio famigliare, quindi sono da valutare a priori e con attenzione.
In generale, come per altri beni rifugio già visti in precedenza, più un veicolo è raro, più ne aumenta l’appetibilità presso i collezionisti, e quindi il suo prezzo è stabilito da chi lo possiede, non dal mercato; questo perché non esiste un mercato se siete il proprietario dell’unica Bugatti rimasta al Mondo, ma esistono dei collezionisti interessati e disposti a spendere cifre folli per averla. O disposti a compiere atti folli per sottrarvela.
Nel mondo del collezionismo, entrano in gioco anche altri fattori. Ad esempio, un’auto che è stata guidata da un personaggio famoso, assume un valore maggiore rispetto alle altre, valore direttamente collegato alla notorietà del personaggio. Oppure una moto prodotta in un periodo limitato e con un motore ma più utilizzato. Cose così.
Queste considerazioni valgono un pò per tutti gli oggetti da collezione, che siano francobolli o fucili ad avancarica.
C’è però la possibilità di commisurare l’acquisto di oggetti da collezionismo in base alle proprie finanze. E’ un discorso già affrontato in precedenza: se il vostro patrimonio è di 1 milione di euro, e vi piacerebbe comprarvi un’auto d’epoca che vale 250 mila euro, forse non fa per voi, perché significherebbe investire il 25% del patrimonio in un solo bene.
Ma magari è possibile acquistare una moto altrettanto rara che però vale “solo” 50 mila euro, cioè il 5% del patrimonio complessivo.
Se ampliamo il discorso ad altri oggetti da collezionismo, la scelta si allarga molto e ci sono collezioni, rare ed interessanti, adatte a tutte le tasche. E diversificabili, cioè ne potete comprare di diverse tipologie.
MI vengono in mente i francobolli, le armi d’epoca, i dischi, i bastoni da passeggio, e ci saranno mille altre cose che si possono prendere in considerazione. Attenzione, però: sto parlando di oggetti da collezione veri, cioè rari o unici, con un valore certificato e riconosciuto. Quindi è da escludere tutto il ciarpame che potete trovare nelle varie fiere e mercatini dell’antiquariato. Perché? Devono essere beni che proteggono il patrimonio, quindi vendibili e il cui valore, possibilmente, cresca nel tempo.
In ogni caso, sarà bene ponderare adeguatamente le scelte di investimento, con l’aiuto di un planner patrimoniale esperto ed indipendente, che non abbia nulla da vendervi.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Le alternative agli investimenti alternativi

Gli oggetti d’arte e di antiquariato sono una tra le tante possibili forme di investimento alternativo. Hanno il vantaggio di abbellire le case di chi li possiede, oltre a migliorare la qualità della vita e a coltivare il senso estetico del proprietario, cose che non guastano mai. Gli svantaggi spesso consistono nelle grandi dimensioni o il peso degli oggetti, che li rendono difficilmente trasportabili ed occultabili: vi ricordate cosa avevo detto a proposito dell’oro? In caso di necessità, l’oro è rapidamente e facilmente trasportabile ovunque. Ma un lingotto d’oro non trasmette nessun sentimento, a meno che non siate come Paperon de Paperoni che trascorre le giornate a nuotare tra le sue monete d’oro, rimirandole e compiacendosi. In sostanza, credo che vada assecondata anche la natura di ognuno di noi, coltivando le inclinazioni e le passioni. Quindi, se ci piacciono gli oggetti d’arte o d’antiquariato, bene, perché possono essere una buona forma di diversificazione degli investimenti. Ci sarebbero da definire alcune cose: arte e antiquariato sono termini generici, poiché ci sono molte declinazioni diverse per la stessa parola.

La sostanziale differenza sta nel tempo trascorso; più un oggetto è antico, più è facile che abbia un mercato di riferimento e un prezzo. Inoltre si può valutare l’evoluzione del suo valore nel tempo; quanto si è incrementato, se ha subito forti oscillazioni e diminuzioni di prezzo, qual è la richiesta nei diversi periodi storici…

Viceversa, un oggetto recente mette di fronte ad un’incognita: il prezzo che pago oggi, si manterrà nel tempo? Incrementerà? La produzione artistica è soggetta anche a mode e a quantitativi prodotti: ad esempio, le opere di un artista molto prolifico hanno un valore inferiore alle opere di un artista, dello stesso periodo e corrente, più “riservato” e restio a produrre in gran quantità. Però questa è una considerazione che si può fare solo ex post, dato che non è possibile sapere cosa accadrà.

E’ un po’ lo stesso discorso che può valere per l’acquisto di un titolo in borsa: nonostante i valori fondamentali ottimi, non siamo in grado di sapere come muterà il suo prezzo nel tempo. Quindi acquistare opere di un artista contemporaneo rappresenta un’incognita, che può regalare grandi soddisfazioni ma anche deludere. Per questo dicevo all’inizio che bisogna anche appagare il proprio senso estetico: se si acquista un’opera che piace, il suo valore estetico non avrà prezzo.

Basta essere consapevoli che l’arte moderna non sempre ripaga lo sforzo economico sostenuto per acquistarla: è una scommessa, sostenuta dal piacere di possedere qualcosa che appaga la vista e rasserena l’animo.

Discorso un pò diverso è quello degli oggetti di modernariato: alcuni sono diventati pezzi da collezione, e quindi assumono un valore riconosciuto e scambiabile, altri richiamano ricordi d’infanzia o di gioventù, ma non hanno nessun valore di mercato per i collezionisti. Occhio attento, quindi, a cosa si compra.

Per l’antiquariato, invece, esiste un mercato, locale o internazionale, a seconda della rarità e dell’appetibilità del pezzo. Anche nel mondo antiquario esistono le “sole” ovviamente, più che altro copie o falsi, a cui bisogna prestare la massima attenzione. I problemi legati  agli oggetti di antiquariato come beni di investimento sono principalmente due: le dimensioni e il prezzo. Pensiamo ad un comò del 1700, ad un quadro di due metri per tre, ad una statua  neoclassica in marmo di Carrara: sono grandi, pesanti, difficili da trasportare. Il prezzo, inoltre, di questi oggetti può essere molto elevato, decine o centinaia di migliaia di euro. Quindi in un ambito di pianificazione complessiva, è bene rivolgersi sempre ad un patrimonialista, che sia in grado di distribuire il patrimonio in maniera adeguata alle vostre reali esigenze di vita. Evitare di investire troppo in un unico bene è una regola base della corretta pianificazione e diversificazione.

In linea generale, sarebbe bene acquistare beni che si possano quantomeno riporre in un caveau di sicurezza: infatti un grosso problema degli oggetti d’arte e di antiquariato è il rischio di furti, da cui ci si può tutelare con assicurazioni, impianti di allarme, caveau bancari. Le precauzioni non sono mai troppe, in funzione anche del valore e della rarità dei beni posseduti. Per le assicurazioni, va considerato un aggiornamento costante dei valori assicurati e verificato se la compagnia risarcisce per intero il valore o in maniera proporzionale al danno complessivo subito. Per gli impianti di allarmi e altri sistemi di dissuasione, è necessario mantenere i sistemi funzionanti e tecnologicamente aggiornati.

Insomma, comunque vogliate proteggere i vostri oggetti preziosi, c’è un costo da sostenere, negli anni, che va valutato in detrazione rispetto al prezzo di mercato del bene, poiché il costo per la sua protezione ne riduce il valore reale nel momento in cui volessimo realizzare (vendere).

Nel mondo dell’arte e dell’antiquariato vige poi una regola: un oggetto è tanto più prezioso quanto è raro e ben conservato. La rarità può essere in funzione sia delle quantità prodotte, sia della sua reperibilità effettiva. Più un oggetto è antico e fragile, meno sopravvive al tempo, ai traslochi, agli imprevisti che ne minacciano l’integrità. Pensiamo ad antico vaso, oggetto delicato e fragile; è un miracolo se ci imbattiamo in un pezzo con 100 anni di età, se ha 200 anni pensiamo ad un miraggio e così via.

Più un oggetto è raro, non  solo più è alto il suo valore, anzi in alcuni casi il valore viene determinato a discrezione assoluta del venditore, ma aumenta in maniera esponenziale il suo interesse collezionistico. Questa è la condizione ideale per un investimento, in quanto sarà abbastanza semplice rivenderlo e il ricavo ottenuto sarà elevato.

Ma poche sono le persone che hanno disponibilità economiche tali da potersi permettere oggetti così rari da essere quasi “mitici” e oggetto del desiderio dei collezionisti di tutto il mondo. O meglio, poche persone hanno un patrimonio così elevato che permetta loro di ricomprendere in una attenta diversificazione e pianificazione oggetti di valore così elevato. Se un dipinto antico e raro vale 10 milioni di euro, quanto dovrà essere grande la ricchezza del suo proprietario perché questo oggetto sia equamente distribuito in un complesso di investimenti? Solo chi non deve vendervi il dipinto e conosce la situazione patrimoniale presente e futura del cliente, come un planner patrimoniale indipendente, sarà in grado di valutare l’adeguatezza dell’investimento rapportata al complesso del patrimonio, alle necessità della famiglia, alla realizzazione delle aspirazioni dei figli o dei nipoti.

 

 

Dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

 

Le alternative agli investimenti alternativi

Le pietre preziose fanno parte dei gioielli, ma possono anche avere una vita autonoma, nel senso che possono essere commercializzati come oggetti a sè, senza per forza essere  incastonati in un gioiello. Sono un po’ l’equivalente del lingotto d’oro, ma solo un po’.

Per pietre preziose si intendono diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri e altri, meno conosciuti. I diamanti hanno una storia a parte, poiché sono gli unici ad avere un listino ufficiale.

I diamanti oltre i 10 carati sono fuori listino, nel senso che il prezzo è stabilito di volta in volta, tra acquirente e venditore. Che significa anche avere completo arbitrio sul prezzo, che diventa un accordo tra le due parti. Questo discorso vale in generale quando si possiede un bene unico o molto raro e che contemporaneamente sia molto ambito: infatti si si ha un bene raro ma che non vuole nessuno…non varrà nulla. Che si tratti di un immobile, di un gioiello, di un diamante o di una macchina d’epoca, più è raro e più ha compratori, più il suo valore sarà inestimabile.

Il problema, per tornare ai diamanti, è che una singola pietra da oltre 10 carati vale oltre un milione di euro, quindi, per suddividere equamente le “uova del paniere”, sarà necessario un patrimonio molto elevato. Altrimenti si rischia di investire troppo in un solo “uovo”, che sappiamo potrebbe risultare molto rischioso. Se invece ci dobbiamo accontentare di diamanti di peso inferiore ai 10 carati, esiste un listino ufficiale, il Rapaport, che classifica i diamanti in base a peso, colore, purezza e taglio. Negli ultimi anni sono anche sorti rilevanti scrupoli circa la provenienza delle pietre preziose, poichè spesso viene sfruttata manodopera infantile per l’estrazione o per le condizioni disumane in cui versano i minatori. La maggior parte dei diamanti proviene da zone fortemente sotto sviluppate e quindi la certificazione sull’eticità delle miniere è divenuta indispensabile.

Nonostante la quotazione ufficiale, va detto che il mercato mondiale dei diamanti è in mano a sole 6 aziende, di cui il 40% alla De Beers, e che ha subito incrementi costanti di prezzo dal 1993! Quindi mi viene da pensare che sia un mercato artificiale e che la quotazione è sostenuta dai produttori, più che dall’incontro tra domanda e offerta.

Questo rende abbastanza complicato capire quale sia il vero valore dei diamanti.

Discorso simile vale per le altre pietre preziose, rubini, smeraldi zaffiri per citare i più famosi, con l’aggravante che non esiste un listino ufficiale e che il colore è fondamentale per la valutazione, il che complica parecchio le cose quando si deve stimare la pietra. Inoltre le pietre di colore subiscono gli andamenti legati alle mode, per cui in alcuni periodi valgono di più e in altri meno. Il diamante, se non altro, ha maggiore costanza.

Altra differenza consiste nella perizia certificata e “imbustata” del diamante, cioè un ente riconosciuto, come la GIA, esegue la perizia e rilascia un certificato, e una parte del certificato è incluso in una bustina trasparente insieme al diamante, in modo da evitare equivoci. Per le altre pietre preziose non esiste questa forma di certificazione.

Quindi, se avete un patrimonio di 10 milioni di euro, forse un diamante da 10 carati fa al caso vostro. In tutti gli altri casi, sarà bene ponderare adeguatamente le scelte di investimento, con l’aiuto di un planner patrimoniale esperto ed indipendente, che non abbia nulla da vendervi.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

 

 

 

Le alternative agli investimenti alternativi: i gioielli

Qualcuno potrebbe sostenere che gioielli e oro sono in fondo la stessa cosa e quindi che in questo spazio l’argomento è già stato trattato, ma non è così. Il valore di un gioiello infatti sta nel materiale con cui è realizzato, che sia oro o argento o altro metallo, ma anche per esempio nelle pietre preziose incastonate in esso e nella stessa attività di realizzazione che comporta. Pertanto investire in oro o in gioielli presenta rischi e opportunità diversi.

A incidere sul valore di un gioiello sono dunque diversi fattori. Per quanto riguarda la lavorazione si deve distinguere tra lavorazioni a mano, semiindustriali e industriali, alle quali corrisponde spesso un diverso valore di mercato.

L’artigianalità in particolare porta con sé spesso il valore di esclusività, specie se il pezzo è unico. Il prezzo pagato all’acquisto del gioiello incorpora anche le ore necessarie alla sua costruzione, che incidono sensibilmente sul costo finale complessivo, talvolta più del valore delle materie prime. E’ chiaro che se questo costo non viene riconosciuto nel momento della rivendita, perdiamo quella parte di denaro relativa alla manodopera. Senza contare l’IVA, che si paga all’acquisto e non viene rimborsata alla vendita. L’oro puro, quello in lingotti o monete, invece è esente IVA.

Ricordo anche che i gioielli d’oro contengono solo il 75% di questo prezioso metallo, mentre per il 25% sono fatti di altri metalli, come argento e rame. Quindi pur contando di rivendere i gioielli a peso d’oro, non si realizza mai in base al peso totale dell’oggetto acquistato.

Per quanto riguarda le pietre preziose, è consigliabile chiedere la perizia di un gemmologo, per verificarne le caratteristiche e di conseguenza il valore. E anche la perizia comporta un esborso.

Per valutare quanto e se i gioielli possono essere un bene nel quale investire per salvare i nostri patrimoni si devono dunque considerare tutte queste variabili al fine di fissare il vero valore di rivendita, in caso di bisogno.

Diverso è il caso di gioielli pezzi unici, magari firmati da artigiani famosi o realizzati per personaggi o ricorrenze importanti, o gioielli antichi, che assumono un valore anche storico e collezionistico. In questo scenario, il gioiello può avere un costo perfino superiore a quanto pagato in origine, in relazione alla sua rarità e al valore estetico che il mercato gli riconosce.

Si presenta però un po’ lo stesso problema degli immobili: un gioiello unico, raro, di pregio costerà molto e quindi poche persone potranno utilizzarlo come efficace protezione e diversificazione (fattori che, ricordo, devono andare a braccetto). Se l’oggetto vale la metà del patrimonio complessivo, ad esempio, sbilancia troppo  e rischia di causare più danni che benefici.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Le alternative agli investimenti alternativi

Diversificare ‘cum grano salis’, questo era l’argomento dell’ultimo contributo in tema di investimenti a tutela del patrimonio, ovvero quanto è corretto diversificare i propri risparmi e come.

Qui vorrei parlarvi di un investimento alternativo molto caro agli italiani, l’immobile da reddito, altra cosa dall’immobile in cui si abita.
Per la verità, noi siamo un popolo che crede indispensabile possedere la casa di residenza e vi investiamo spesso una parte consistente del nostro patrimonio. Al contrario, in molti altri Paesi, l’immobile è visto solo come un investimento, pertanto la dimora dove si vive spesso non è di proprietà.

Escludendo dunque la casa di residenza dal calcolo del patrimonio complessivo, quanti immobili sarà saggio possedere per diversificare proficuamente I nostri investimenti?
Facciamo due conti.
Un immobile del valore di 150.000 euro rappresenta il 15% di un patrimonio complessivo di 1 milione di euro, quello che gli anglosassoni chiamano High Net Worth Individuals, somma già rispettabile e corrispondente ad una famiglia benestante. Stabilire se il 15% investito in un solo immobile sia corretto è complesso e solo un bravo life planner, che conosca molto bene la situazione del suo cliente, puo’ valutarlo. Nel caso di patrimoni molto elevati, cioè sopra ai 5 milioni di euro, i Very High Net Worth Individuals, o addirittura sopra ai 30 milioni di euro, i cosiddetti Ultra High Net Worth Individuals, potrebbe essere adeguato investire in più immobili; ad esempio, in tre immobili di 300.000 euro ciascuno, per un totale di 900.000 euro; se il patrimonio complessivo è di 10 milioni, corrisponde al 9%. E’ impossibile però fornire a priori o in generale ricette e dosi precise e metto in guardia i lettori da chi propone soluzioni “pret a porter”, che vanno bene per tutti.

Inoltre, l’immobile, per molti anni investimento per eccellenza degli italiani, sta dando sempre piu’ preoccupazioni, quali:

  • l’inquilino non paga l’affitto
  • l’immobile è sfitto da parecchio tempo
  • i costi di ristrutturazione interna: ogni inquilino lascia traccia del proprio passaggio…
  • i costi di manutenzione straordinaria sono aumentati
  • le tasse sono aumentate
  • il prezzo di vendita è diminuito
  • i tempi per la vendita si sono allungati
  • il numero di acquirenti è diminuito e il numero di immobili in vendita è aumentato

L’immobile è dunque ancora un investimento sicuro o lo è mai stato?
E’ una questione di proporzioni: certamente, se avete capitali elevati, qualche milione di euro, allora potete pensare di investirne una parte (quanta parte sarebbe da vedere in base ad altre considerazioni) in immobili da reddito. Al di sotto di certe cifre, l’immobile può essere una trappola peggiore delle sabbie mobili: il vostro capitale è immobilizzato tutto nello stesso investimento, quindi o lo realizzate per intero o niente, non potete venderne solo una parte. A meno che non possediate dei monolocali. C’è mercato pero’ per i monolocali?

Gli acquirenti sono diminuiti e gli immobili in offerta sono aumentati, ribaltando le proporzioni del passato: ora ci sono in media 5 immobili per ogni acquirente, qualche anno fa c’erano 5 acquirenti per ogni immobile in vendita. Quindi per chi vuole acquistare aumenta la possibilità di guardarsi intorno e di scegliere, chi vende deve forse cedere sul prezzo ed essere più accondiscendente sulle richieste.
E poi se l’inquilino non paga o vi causa dei danni, cosa potete fare? Chiedere lo sfratto o fargli causa? Con i tempi della nostra giustizia, è dura.

Altro settore può essere quello degli immobili per le vacanze.
Comportano comunque costi e se li volete vendere, lo scenario di prima ritorna. Ci sono, è vero, alcune località più fortunate di altre, che non conoscono ribassi ne’ di prezzi ne di richieste. Pertanto, prima di acquistare mattoni ad uso vacanza, valutate realisticamente i seguenti fattori.

  • la località: considerate le prospettive future di espansione o contrazione del mercato. Se siete in un posto esclusivo e alla moda, sarebbe bene capire da quanto tempo è di moda e per quanto tempo lo sarà. Se invece è una località che deve ancora essere scoperta, beh, rischiate che rimanga sconosciuta per sempre!
  • Quanto potrete sfruttare il bene: per meno di 30 giorni in tutto l’anno, forse non ne vale la pena;
  • i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Questi dipendono dalle condizioni generali dello stabile e dal tipo di condomini che lo abitano. Se la maggioranza decide di fare un intervento di manutenzione, non vi potete opporre, anche se non lo ritenete necessario o non potete permettervelo.

In sostanza, un investimento alternativo sicuro in immobili è solo un bene di grande pregio, in zone molto appetibili. Parliamo di soluzioni esclusive, con caratteristiche uniche o rare: un castello, una villa sul mare, un palazzo nobiliare in centro città… Questo comporta anche un prezzo molto elevato di acquisto e costi ingenti in quanto a tasse, manutenzione, gestione. E quindi ritorna nuovamente la domanda: quanto pesa sul patrimonio complessivo il valore dell’immobile, se ha queste caratteristiche esclusive e quindi un prezzo molto elevato?
Insomma, diversificare in immobili, oggi piu’ che mai, e’ difficile e per non sentirsi in un dedalo, meglio consultare un life planner di fiducia.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Le alternative agli investimenti alternativi: gli immobili da reddito

Diversificare ‘cum grano salis’, questo era l’argomento dell’ultimo contributo in tema di investimenti a tutela del patrimonio, ovvero quanto è corretto diversificare i propri risparmi e come.

Qui vorrei parlarvi di un investimento alternativo molto caro agli italiani, l’immobile da reddito, altra cosa dall’immobile in cui si abita.

Per la verità, noi siamo un popolo che crede indispensabile possedere la casa di residenza e vi investiamo spesso una parte consistente del nostro patrimonio. Al contrario, in molti altri Paesi, l’immobile è visto solo come un investimento, pertanto la dimora dove si vive spesso non è di proprietà.

Escludendo dunque la casa di residenza dal calcolo del patrimonio complessivo, quanti immobili sarà saggio possedere per diversificare proficuamente I nostri investimenti? Facciamo due conti.

Un immobile del valore di 150mila euro rappresenta il 15% di un patrimonio complessivo di 1 milione di euro, quello che gli anglosassoni chiamano High Net Worth Individuals, somma già rispettabile e corrispondente ad una famiglia benestante. Stabilire se il 15% investito in un solo immobile sia corretto è complesso e solo un bravo life planner, che conosca molto bene la situazione del suo cliente, può valutarlo.

Nel caso di patrimoni molto elevati, cioè sopra ai 5 milioni di euro, i Very High Net Worth Individuals, o addirittura sopra ai 30 milioni di euro, i cosiddetti Ultra High Net Worth Individuals, potrebbe essere adeguato investire in più immobili; ad esempio, in tre immobili di 300mila euro ciascuno, per un totale di 900mila euro; se il patrimonio complessivo è di 10 milioni, corrisponde al 9%.

E’ impossibile però fornire a priori o in generale ricette e dosi precise e metto in guardia i lettori da chi propone soluzioni “pret a porter”, che vanno bene per tutti.

Inoltre, l’immobile, per molti anni investimento per eccellenza degli italiani, sta dando sempre più preoccupazioni, quali:

1)  l’inquilino non paga l’affitto
2)  l’immobile è sfitto da parecchio tempo
3)  i costi di ristrutturazione interna: ogni inquilino lascia traccia del proprio passaggio…
4)  i costi di manutenzione straordinaria sono aumentati
5)  le tasse sono aumentate
6)  il prezzo di vendita è diminuito
7)  i tempi per la vendita si sono allungati
8)  il numero di acquirenti è diminuito e il numero di immobili in vendita è aumentato

Vedremo la prossima settimana se l’immobile è ancora un investimento sicuro o se lo è mai stato.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Il Redditometro sotto la lente d’ingrandimento

Strumento principe nella lotta all’evasione, complesso modello statistico, specchio impietoso dell’Italia post crisi, “psicodramma nazionale” e nelle ultime ore pure “riccometro”. Si moltiplicano le definizioni ma il nostro grande indiziato di questa settimana è lui:  il Redditometro.

Quest’oggi abbiamo deciso di passarlo sotto la lente di ingrandimento dei veri addetti ai lavori, i commercialisti. Per cercare di fare un po’ di chiarezza tra accertamenti sistematici, parametri statistici, scostamenti marginali, beni rilevanti e beni simbolici.

Infoiva ha intervistato Alessandro Solidoro, Presidente dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano.

Redditometro 2013: criticato, temuto, passato sotto la lente di ingrandimento. Quali sono secondo lei le maggiori criticità?
Il redditometro è riconducibile agli “accertamenti sintetici”, che sono presenti nel nostro ordinamento da diverso tempo.
La principale criticità di questa tipologia di accertamenti consiste nel pericolo di cadere, in sede di verifica della singola posizione fiscale di un contribuente, in “automatismi” nell’applicazione dei parametri previsti, che potrebbero non tener conto della specifica situazione del contribuente medesimo. La Cassazione al riguardo ha ricordato a più riprese che l’accertamento fiscale non può mai essere “standardizzato” ed effettuato applicando acriticamente una metodologia matematico-statistica. Oltre a ciò, vi sono diverse criticità di natura “tecnica”, derivanti dalla scelta del Legislatore di voler considerare alcune rilevanti spese (ad esempio l’acquisto di immobili) come effettuate utilizzando il reddito di un unico periodo di imposta.

Quali invece i vantaggi?
Le modifiche recentemente apportate al redditometro hanno il pregio di coprire uno spettro più ampio di voci rispetto a quanto fosse precedentemente fatto. Ciò consente di non limitare l’analisi ad alcuni “beni rilevanti” (immobili, automezzi, barche e simili), ma di estendere l’esame del tenore di vita (e dunque della congruità del reddito dichiarato) attraverso un ampliamento delle spese, degli investimenti e dei risparmi presi in esame.

Le 100 voci del redditometro analizzano praticamente ogni ambito della vita di una famiglia, gli italiani dovranno cambiare le proprie abitudini per rientrare nei parametri del redditometro, o chi non evadeva prima può semplicemente mantenere la propria routine invariata ?
No, non è necessario cambiare le proprie abitudini: al riguardo desidero infatti ricordare che il redditometro si basa sul semplice assunto per cui il tenore di vita deve essere compatibile con il reddito dichiarato al Fisco. In linea generale, chi non evadeva precedentemente non ha nulla da temere dall’applicazione di questo strumento, anche se dovranno essere adottate alcune precauzioni circa la tracciabilità delle risorse finanziarie e reddituali impiegate per il sostenimento di alcune spese rilevanti (automobili, immobili, investimenti e simili).

La franchigia di tolleranza di 12 mila euro è a vostra parere ben ponderata?
E’ opportuno premettere che il riferimento a una franchigia quantificata in 12.000 euro non è prevista dalla normativa (che invece stabilisce che il redditometro è potenzialmente applicabile a coloro che, in un dato periodo d’imposta, hanno sostenuto spese in misura superiore a 1,20 volte il reddito dichiarato). Ritengo che l’adozione di una franchigia “quantitativa” possa essere un utile ed efficace accorgimento per evitare di sottoporre a verifica quelle posizioni con scostamenti “marginali”; tuttavia non dovrà essere possibile prescindere dalla situazione specifica del singolo contribuente.

Veniamo al capitolo beni simbolici: l’allargamento dello spettro e l’analisi effettuata su dati certi dell’Agenzia delle Entrate porterà ad una maggior efficacia dello strumento di lotta all’evasione?
La motivazione sottostante l’inclusione delle spese per “beni simbolici” tra quelle da considerare ai fini del redditometro, risponde all’esigenza di meglio profilare il tenore di vita in relazione al reddito dichiarato. Dalle prime elaborazioni effettuate e apparse sulla stampa specializzata, sembra comunque di capire che questa categoria di spese non sarà di per sé “decisiva” nella valutazione di congruità del reddito di un singolo contribuente, mentre avranno una particolare significatività le spese per beni rilevanti e investimenti.

Il rischio che la presunzione di capacità di spesa delle famiglie si allontani dalla realtà è concreto o si può contenere limitando il ricorso a meccanismi statistici?
I meccanismi statistici contenuti nel decreto attuativo del redditometro dovrebbero avere l’esclusiva finalità di stabilire una “misura media” (statisticamente comprovata) per la spesa delle famiglie: in questo senso, l’inserimento di tale categoria di spese ai fini del redditometro potrebbe forse essere rivisto e meglio rimodulato (magari prevedendo ulteriori soglie di franchigia al di sotto delle quali non procedere a verifica con redditometro) , soprattutto al fine di evitare qualsiasi applicazione “automatica”.

A suo avviso il redditometro è uno strumento valido nella lotta all’evasione o si poteva fare qualcosa di più?
In linea di principio il redditometro è un valido strumento nella lotta all’evasione, in quanto è basato sull’assunto di comparare il tenore di vita rispetto alla congruità del reddito dichiarato. Tuttavia, dato l’elevato potere conoscitivo e il meccanismo di presunzione su cui esso si basa (che comporta un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente), si deve evitare che nella pratica diventi uno “studio di settore per famiglie”, censurando qualsiasi automatismo in sede di verifica che non tenga conto della specifica situazione del contribuente.

Alessia CASIRAGHI

Cassazione: valida la percentuale di ricarico

Con la sentenza 4952 del 28 marzo, la Cassazione ha stabilito che l’Amministrazione può avvalersi, nell’accertamento del reddito, di dati o notizie comunque raccolti, con la conseguenza che la percentuale di ricarico può essere legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso.

Il fatto
La vicenda giudiziale di una Srl che aveva fatto opposizione a un avviso di accertamento per Irpeg, Irap e Iva, si è risolta con l’annullamento dell’atto impositivo, trovando poi conferma anche in secondo grado.
Il ricorso proposto dalla soccombente Amministrazione finanziaria si articola in due motivi, con i quali la ricorrente lamenta, rispettivamente, violazione di legge (articolo 36 del Dlgs 546/1992) per mancata indicazione delle ragioni che sorreggono la decisione impugnata, e violazione dell’obbligo di motivazione, per motivazione insufficiente e illogica sul punto decisivo della controversia, atteso che, nella sentenza impugnata “non viene precisato quali ipotetici fattori impedirebbero di assumere per il 2003 la medesima percentuale applicata nel 2006“.

Prima di procedere oltre, ricordiamo che la percentuale di ricarico è il rapporto tra i ricavi dichiarati e gli acquisti registrati in contabilità, in relazione ai principali prodotti commercializzati, attribuendo, sovente, le medie ponderate di settore.
Normalmente, viene applicato, al costo del venduto (costo sostenuto dall’impresa per l’acquisto della merce ritenuta più rappresentativa, rivenduta durante l’anno), il coefficiente di ricarico medio ritenuto congruo sulla base spesso di medie teoriche (ricavate da quelle che pervengono da altri operatori del settore).
I valori percentuali medi del settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma soltanto il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa una regola di esperienza (Cassazione, nn. 7914/2007, 641/2006, 18038 e 26388 del 2005).

La decisione
La Corte suprema ha ritenuto infondata la prima censura, perché l’indicazione da parte del secondo giudice dei motivi di fatto e di diritto della decisione rendono possibile individuare sia il thema decidendum sia le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo.

Invece, coglie nel segno la seconda censura, atteso che effettivamente, nel caso concreto, la sentenza del riesame non risulta motivata in modo sufficiente e giuridicamente corretto, non essendo state esposte sufficientemente le rationes decidendi sull’argomentazione sollevata dall’ente impositore circa l’insussistenza, tra gli anni considerati, di eventi significativi che potessero avere condizionato le scelte commerciali della ditta in ordine all’ammontare del ricarico.
Riguardo all'”ultrattività” delle percentuali di ricarico nell’accertamento induttivo, sia il fondamentale principio dell’imposizione fiscale, che impone l’inerenza dei dati raccolti a un determinato e specifico periodo di imposta, attesa l’autonomia di ciascun periodo di imposta (articolo 1 del Dpr 600/1973), sia il principio della effettività della capacità contributiva, posto dall’articolo 53 della Costituzione a fondamento della legittimità di qualsiasi prelievo fiscale, escludono la validità della “supposizione della costanza del reddito” in anni diversi da quello per il quale è stata accertata la produzione di un determinato reddito, ma non escludono il potere dell’ufficio di avvalersi, nell’accertamento del reddito o del maggior reddito, di dati e notizie comunque raccolti. La percentuale di ricarico è quindi legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso come sono le rimanenze iniziali e finali di magazzino (Cassazione 5049/2011).

L’affermazione, peraltro, è una costante nella giurisprudenza di legittimità, considerato che in una similare occasione in materia di Iva, la Corte suprema ha affermato che la percentuale di incidenza di una determinata materia prima sul totale degli acquisti può essere utilizzata anche per la determinazione del volume d’affari relativo a diversi anni di imposta, tenuto conto della commercializzazione dei vari prodotti nell’anno precedente e della mancanza di mutamento delle condizioni della merce, come pure della sua tipologia (Cassazione 1647/2010).

D’altronde, è legittima la presunzione che quanto riscontrato in sede di accesso corrisponda all’andamento dell’attività anche in altri periodi solo se il contribuente non provi, in ipotesi anche per presunzioni – ovvero non risulti in punto di fatto -, che l’attività sottoposta ad accertamento va incontro a periodi disomogenei con riguardo all’andamento delle vendite e dei ricavi (Cassazione 12586/2011).

Fonte: fiscooggi.it

Niente rimborso Irpef per gli affitti non percepiti

Il proprietario-locatore di un locale commerciale non ha diritto al rimborso Irpef relativo ai canoni di locazione non percepiti, anche se ha ottenuto lo sfratto per morosità del conduttore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 651 del 18 gennaio.

La possibilità di non dichiarare i redditi da locazione non percepiti, in base all‘articolo 8 della legge 431/1998, o il diritto al rimborso Irpef, riguarda infatti i soli contratti di locazione a uso abitativo e non a fini commerciale, così come stabilito dalla sentenza 362/2000 della Corte costituzionale.

La regola generale fissata dal Tuir (articolo 23 del Dpr 917/1986, nel testo vigente ratione temporis) prevede infatti che i canoni di locazione devono essere dichiarati, a prescindere dal fatto se siano stati incassati o meno. Nonostante l’introduzione di un’eccezione al principio generale, con l’articolo 8, comma 5, della legge 431/1998, in base alla quale i canoni non percepiti non concorrono a formare il reddito complessivo del contribuente, a patto però che la morosità del locatario risulti dal provvedimento di convalida dello sfratto per morosità, il Ministero delle Finanze specifica però che tale provvedimento entra in vigore per il locatario soltanto dal periodo d’imposta in cui ottiene il provvedimento giurisdizionale, ovvero a partire dalla dichiarazione dello sfratto.

Sull’argomento si sono da sempre confrontati due opposti orientamenti giurisprudenziali:
• il primo, che fa capo alla sentenza 6911/2003, afferma che, in tema di determinazione del reddito dei fabbricati, l’articolo 35 del Dpr 597/1973, laddove stabilisce che il reddito lordo effettivo è costituito dai canoni di locazione risultanti dai relativi contratti, esso riguarda soltanto i criteri applicabili per la revisione della rendita catastale e non può essere invocato sulla tassazione del reddito effettivo di un immobile

• il secondo, propugnato dalla successiva pronuncia 12095/2007, sostiene invece che il solo fatto dell’intervenuta risoluzione consensuale del contratto di locazione, unito alla circostanza del mancato pagamento dei canoni relativi a mensilità anteriori alla risoluzione, non è idoneo, di per sé, a escludere che tali canoni concorrano a formare la base imponibile Irpef

Con la sentenza 651 del 18 gennaio 2012, la Corte di Cassazione ha stabilito invece, propugnando per il secondo orientamento, che i canoni di locazione commerciale dovranno essere dichiarati fino alla data in cui è intervenuta la risoluzione del contratto, anche se non incassati per morosità del conduttore.