Ad Enna nasce l’Assemblea costitutiva del Sindacato provinciale dei giornalai

Il maggior sindacato dei giornalai, Snag Confcommercio Imprese per l’Italia, che raccoglie più di 30mila edicolanti italiani allarga la propria presenza territoriale  realizzando ad Enna, nella sede dell’Ascom locale, l’Assemblea costitutiva del Sindacato provinciale dei giornalai.

I lavori hanno visto la partecipazione del vicepresidente nazionale Snag Renato Russo e del componente di Giunta Rosario Puma, sono stati aperti dal responsabile dell’Ascom di Enna Mario Termine, che ha sottolineato l’importanza della costituzione dello Snag provinciale e della sua immediata adesione alla locale Confcommercio.

Presidente della nuova struttura Snag è stato eletto Francesco Monaco, edicolante dal 1995 che ha commentato: “Lavoreremo da subito, ha detto Monaco, ad organizzareaAssemblee degli edicolanti in tutto il nostro territorio e opereremo, supportati dall’esperienza e dalla competenza dello Snag nazionale, con attenzione e rigore, per tutelare la categoria dal pericolo di concessioni indiscriminate di nuove autorizzazioni, già tentate in alcuni Comuni della nostra piazza“.

Gare d’appalto buoni pasto, i sindacati contro il massimo ribasso

Franco Tumino, presidente Anseb, l’Associazione emettitori buoni pasto aderente a Fipe-Confcommercio, in relazione alla denuncia da parte dei sindacati dell’Università di Bari ha commentato: “Era ora che anche i sindacalisti si ribellassero contro le gare al massimo ribasso per l’aggiudicazione dei buoni pasto. Adesso però devono fare i nomi degli emettitori che operano in maniera scriteriata sul mercato. Anseb non può accettare che in un simile contesto non si facciano i distinguo“.

A seguito della gara Consip (società per azioni del Ministero dell’Economia che gestisce gli acquisti per conto dello Stato), l’ateneo pugliese ha assegnato alla Repas Lunch (non associata Anseb) l’emissione dei buoni pasto con uno sconto del 17,63% su un valore di spesa complessivo di 123 milioni di euro. Le percentuali richieste schizzano a cifre molto elevate infatti alla commissione dell’1,75% richiesta all’esercente va aggiunto un ulteriore 8,25% sostanzialmente richiesto agli esercizi in fase di convenzione che fa schizzare il valore reale della stessa commissione al 10%.

Tumino prosegue ricordando che in questo modo i baristi percepiscono molto meno di quanto sembra e “A Bari è successo quello che sosteniamo da sempre: le gare con ribassi insostenibili ledono i diritti dei lavoratori. Capisco che Consip sia stataa suo tempo vincolata dalla pronuncia della Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ad accettare giustificazioni sostanzialmente fantasiose dei ribassi offerti, ma questo non ci limita nel sostenere la richiesta dei sindacati a voler procedere ad una nuova gara. Crediamo che vada verificato se esistono le condizioni per rescindere il contratto per violazione degli impegni contrattualmente assunti“.

Marchionne ha vinto, viva Marchionne! Ma è sbagliato ignorare il consenso per Fiom

Solo la vicenda di Mirafiori ha conteso il primato delle prime pagine dei giornali all’ennesima puntata dello scontro fra Silvio Berlusconi e la Procura milanese per via del famoso bunga-bunga nella villa di Arcore con la minorenne Ruby e allegra compagnia. In effetti il referendum torinese è, da un certo punto di vista, più importante ed è destinato, nel lungo periodo, a incidere sulla vita del Paese più di quella cronaca francamente squallida.

Ai lavoratori dello storico stabilimento, il più grande d’Italia e fra i principali in Europa, è stato chiesto se approvavano o meno l’accordo firmato da azienda e tutti i sindacati, tranne la Fiom-Cgil, che prevede maggiore flessibilità in fabbrica, la possibilità di richiedere un numero più alto di ore di straordinario, una serie di misure contro l’assenteismo, eccetera. Insomma, un’intesa con l’obiettivo di aumentare la produttività, di rendere le catene di montaggio italiane paragonabili non a quelle cinesi o dei Paesi in via di sviluppo, ma a quelle della Germania oppure a quelle della Polonia dove, la  stessa Fiat produce, con l’identico numero di dipendenti, il doppio delle auto che riesce a sfornare a Torino.

Come si sa, l’amministratore delegato della Fiat, il grintoso Sergio Marchionne, condizionava a quel sì un piano di investimenti che (nelle sue promesse) avrebbe consentito di mantenere in vita l’impianto. Marchionne e l’azienda l’hanno avuta vinta, ma di stretta misura. Il referendum è passato, ma le previsioni di una marcia trionfale dei sì sono state smentite. Il 54 per cento dei dipendenti di Mirafiori si è espresso favorevolmente, il 46 ha votato contro. Determinanti per il successo sono stati gli impiegati dello stabilimento, i colletti bianchi, che in massa (o quasi) si sono espressi per il sì. Senza di loro, il referendum sarebbe passato per un soffio (7 voti): praticamente un pareggio. Questo vuol dire che dopo il 14 gennaio, la Fiat può impostare una nuova fase nei rapporti industriali con vantaggio per tutto il sistema Paese. Ma la Fiom-Cgil è tuttora protagonista nelle fabbriche e riceve consensi: può piacere o no, ma sarebbe un errore ignorarlo.

L’altra considerazione da fare riguarda i piani di sviluppo della Fiat. Ha voluto il referendum, lo ha vinto. Ora deve progettare, produrre, mettere in vendita modelli di auto di successo. Da questo punto di vista la situazione non è incoraggiante. Gli ultimi dati ufficiali (quelli di novembre) sono un campanello d’allarme: la quota della Fiat sul mercato europeo è scesa sotto il 7 per cento. Marchionne, quando ha varato l’operazione Chrysler, ha detto che, per essere competitivo, un produttore di auto deve poter contare almeno su 5 milioni di modelli venduti ogni anno. Se continua a perdere terreno come sta facendo, l’obiettivo per il gruppo italo-americano non fa che allontanarsi.

Ma la politica s’è accorta della svolta epocale decisa da Marchionne?

di Gianni GAMBAROTTA

Mentre i palazzi della politica sono tutti impegnati a contare voti e a immaginare coalizioni governative, maggioranze improbabili, o ricorsi al popolo sovrano, fuori da queste segrete stanze succedono cose davvero importanti che lasceranno un segno nella storia del Paese. Il manager con il maglione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ha deciso che d’ora in poi la prima fabbrica italiana farà a meno della Confindustria. Tratterà i suoi rinnovi contrattuali in assoluta indipendenza, concluderà gli accordi con i sindacati che vorranno sottoscriverli e andrà avanti così, incurante di pressioni, suggerimenti alla prudenza, proteste di piazza.

Perché ha preso questa decisione, che del resto era nell’aria da settimane, è noto. La Fiat ha assunto il controllo della Chrysler, è diventata davvero una multinazionale impegnata su tutti i mercati mondiali. E da azienda globale qual è adesso, deve seguire le regole che si applicano appunto a livello globale. Se non fa così, non può sperare di sopravvivere alla competizione internazionale ogni giorno più dura. Che cosa vuol dire questo? Quale novità reale, sostanziale porta il nuovo corso di Marchionne?

L’Italia, dalla fine della guerra e in maniera più accentuata dall’autunno caldo del 1969 in poi, è stata pesantemente condizionata dalla presenza sindacale. Per 60 anni, la cosiddetta Triplice (Cgil, Cisl, Uil) ha avuto un potere decisivo non solo su temi retributivi e normativi relativi al mondo del lavoro, ma su tutti gli aspetti della politica che, direttamente o indirettamente, toccavano l’economia. Non c’è stata decisione che non sia stata affrontata al cosiddetto tavolo delle parti sociali, vale a dire governo, sindacati e organizzazione degli imprenditori (Confindustria).

Questo ha portato a una lentezza del processo decisionale che non ha confronti nei moderni Paesi industrializzati. Ha creato inefficienza. Ma fosse stato solo questo: ha creato una situazione che, nel tempo, ha palesato un contenuto di profonda ingiustizia politica e sociale. Con un simile sistema si è dato vita a un Paese diviso a metà: una parte più privilegiata fatta da imprese e lavoratori rappresentati sindacalmente, più protetta, più forte, con più diritti; l’altra, formata da tutti quelli che non appartengono alle suddette categorie e assai più numerosa, esclusa da privilegi e aiuti, ridotta al rango di Serie B.

La scelta di Marchionne, che ha deciso che disegnerà le future strategie Fiat senza passare sotto le force caudine della potentissima Fiom-Cgil e risparmiandosi le liturgie confindustriali, manda in pensione due elementi che sono stati determinanti nel sistema di potere nazionale. Se ne stanno accorgendo i signori del Palazzo? Riescono a vedere che fuori dall’emiciclo di Montecitorio e lontano dai riflettori dei talk show televisivi tanto amati, il Paese sta andando avanti per la sua strada? E che fa scelte storiche senza neppure interpellare la politica?