Videosorveglianza, i limiti sui luoghi di lavoro. Multa da 50.000 euro

È sempre difficile capire i limiti tra bisogno di sicurezza e controllo in azienda e violazione della privacy per i dipendenti e a pagarne le conseguenze è stata un’azienda di abbigliamento che ha installato sistemi di video-sorveglianza. Il Garante privacy ha infatti comminato una multa da 50.000 euro. Ecco a cosa devono stare attente le imprese.

Video-sorveglianza, serve l’accordo anche se installata per porteggere dai furti

A rendere noti i particolari della sanzione è il Garante Privacy nella newsletter n. 503 del 26 maggio 2023. L’indagine parte dalla segnalazione di un sindacato che denuncia l’installazione nei diversi punti vendita della società di sistemi di video-sorveglianza che violano il diritto alla privacy dei dipendenti.

In base all’articolo 4 della legge 300 del 1970, Statuto dei lavoratori, i sistemi di video-sorveglianza non possono essere installati senza un preventivo accordo con i rappresentanti sindacali e l’Ispettorato del lavoro.

La catena di negozi invece ha installato nei suoi 160 punti vendita presenti in Italia, tali sistemi. A sua difesa ha eccepito che in realtà le telecamere erano necessarie a prevenire le conseguenze di furti di merce da parte di potenziali clienti e a tutelare gli stessi dipendenti e non per il controllo del personale.

Le telecamere attive erano 3 in ogni esercizio commerciale e attive h24, proprio perché la funzione principale non era controllare il personale, ma evitare furti. Le telecamere erano installate anche in zone riservate allo scarico merci dei fornitori e locali a solo uso dei dipendenti.

Multa di 50.000 euro per telecamere installate senza accordo

Sottolinea il Garante privacy che il comportamento dell’azienda è stato illecito in quanto non basta avvisare con cartelli della presenza di telecamere, ma visto l’alto numero dei dipendenti era nacessario un accordo con le rappresentanza sindacali e l’Ispettorato del lavoro. Proprio per questo viene applicata la sanzione di 50.000 euro. La stessa è particolarmente elevata perché si deve tener conto di diversi fattori:

  • numero elevato di dipendenti sottoposti a controllo, circa 500;
  • la violazione riguarda diversi punti vendita;
  • assenza di qualunque autorizzazione.

Corte Costituzionale boccia la legge Fornero. Sarà più difficile licenziare

Il giorno 19 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha posto un’altra censura alla legge Fornero, rendendo di fatto più difficile per le imprese licenziare e andando ad ampliare le tutele dello Statuto dei Lavoratori. La sentenza 125 del 2022 infatti pone una maggiore tutela ai lavoratori.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La sentenza della Corte Costituzionale va ad incidere sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche conosciuti come licenziamento economico come modificato dalla Legge Fornero ( legge 92 del 2012). Si tratta del caso in cui il datore di lavoro recede unilateralmente dal rapporto di lavoro a causa di una restrizione del personale, ad esempio per esuberi, per crisi aziendale.  Siamo nell’ambito di motivazioni che esulano dal comportamento del lavoratore, quindi non siamo nel caso dei licenziamenti disciplinari, ma è necessaria una riorganizzazione aziendale.

Affinché il licenziamento per giustificati motivi oggettivi sia valido non basta che ci sia una riorganizzazione aziendale, è anche necessario che la figura professionale licenziata non sia più necessaria all’interno dell’azienda, inoltre è previsto l’obbligo di ripescaggio e quindi la possibilità di collocare il lavoratore in mansioni diverse per per le stesse ha capacità e la giusta formazione.

Per conoscere meglio i dettagli dell’obbligo di ripescaggio, leggi l’articolo Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro.

Naturalmente il lavoratore che ritiene non sussistere i giustificati motivi oggettivi per il suo licenziamento e pensa di dover essere collocato in nuova posizione, potrà impugnarlo. La legge Fornero prevedeva che affinché il licenziamento fosse giudicato illegittimo vi dovesse essere la “manifesta insussistenza del fatto” alla base delle motivazioni addotte dal datore di lavoro. Questo per i giudici è un limite perché implica di non poter andare oltre ciò che appare in modo chiaro e lapalissiano, il licenziamento può essere sanzionato solo nel caso anche senza andare oltre l’apparenza emergea immediata la sua illegittimità. Ad esempio, può ritenersi illegittimo il licenziamento se al posto del lavoratore l’azienda assume un altro soggetto impegnato nelle stesse mansioni e con le stesse qualifiche, ma per comportamento dell’azienda più “sofisticati”  è molto più difficile provare la manifesta insussistenza.

La sentenza della Corte Costituzionale: il termine “manifesta” è illegittimo!

Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato la questione di legittimità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla Legge Fornero. La sentenza della Corte Costituzionale nella sentenza del 19 maggio 2022 è andata a colpire proprio la “manifesta insussistenza del fatto”.

Secondo il giudice costituzionale il requisito della manifesta insussistenza è indeterminato e si presta a incertezze interpretative. Proprio per questo dal testo della norma si censura il termine “manifesta” prima della parola “insussistenza del fatto”, all’interno dell’articolo 18 settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori) così come modificato appunto dalla Legge Fornero. Di conseguenza il giudice nella sua analisi può andare a fondo e valutare la genuinità della scelta del datore di lavoro.

La Corte Costituzionale ribadisce che valutare la sussistenza o insussistenza di un fatto è già un atto gravoso e complesso, andare poi a valutare anche la gradualità di questa insussistenza appare un aggravio irragionevole con una conseguente complicazione sul fronte processuale. Inoltre secondo la Corte Costituzionale vi è un notevole squilibrio tra i fini che si era proposto il legislatore nel riformare la materia – una più equa distribuzione delle tutele con decisioni più rapide e prevedibili –  e i mezzi per ottenere tale risultato.

Le norme violate

La Corte Costituzionale ritiene che richiedere la manifesta insussistenza vada a violare l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza) in quanto tale manifesta insussistenza non è richiesta nel caso di licenziamento disciplinare. Inoltre per il lavoratore l’onere probatorio diventerebbe eccessivamente arduo visto che deve provare un fatto dai contorni non definiti e spesso si trova a dover provare fatti che sono fuori dalla sua sfera di conoscenza. La manifesta insussistenza andrebbe a delineare un sistema “marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore”. Tutto ciò andrebbe a pregiudicare la sua chance di successo in un eventuale giudizio. Si rileva anche la violazione dell’articolo 35 della Costituzione che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.

Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro

Tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto di buona fede e correttezza, lo stesso si esplica in diversi obblighi per il datore di lavoro e per il lavoratore. Tra questi vi è il c.d obbligo di repechage, o ripescaggio, che prevede che il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve cercare un’altra collocazione al lavoratore, solo nel caso in cui ciò sia impossibile si potrà procedere al licenziamento.

Disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’obbligo di repechage è strettamente connesso all’articolo 3 della legge 604 del 1996 che consente al datore di lavoro di licenziare i dipendenti “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Il datore di lavoro per esigenze economiche oppure di riorganizzazione dell’attività lavorativa può licenziare del personale (tra le esigenze di riorganizzazione viene riconosciuta rilevanza anche alla possibilità di esternalizzare alcune attività che prima erano gestite in modo diretto dall’azienda, ad esempio i servizi di pulizia, ma non solo), ma deve essere tutelato l’interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro.

In quest’ottica il licenziamento appare possibile nel caso in cui:

  • le ragioni del datore di lavoro siano reali e non pretestuose (ecco perché spesso i giudici esaminano i bilanci per verificare la sussistenza di ragioni eocnomiche);
  • ci sia un nesso causale tra le ragioni addotte dal datore di lavoro e il licenziamento del lavoratore;
  • non sia possibile il repechage, cioè impiegare il lavoratore in mansioni diverse per le quali abbia comunque le giuste competenze al fine di proseguire il rapporto di lavoro.

Obbligo di repechage anche con demansionamento

Occorre ricordare che in questo caso è possibile anche il demansionamento. Noi sappiamo che non è possibile in azienda collocare il lavoratore in mansioni inferiori rispetto all’inquadramento raggiunto. Vi è un unico caso in cui questo è possibile ed è proprio quello che ci interessa, cioè la necessità per l’azienda di sopprimere delle posizioni per una nuova organizzazione o per difficoltà economiche. In questo caso l’azienda può offrire al dipendente un lavoro di inquadramento diverso. Resta però la libertà del lavoratore di accettare o meno il demansionamento, l’alternativa è il licenziamento.

Il datore di lavoro per poter procedere in tal modo è tenuto a dimostrare di non poter offrire una posizione equivalente e di aver ottenuto un rifiuto al demansionamento.

Tra l’altro vi sono ipotesi in cui il demansionamento può essere unilaterale, si tratta del caso in cui dalla riorganizzazione aziendale emergano delle posizioni con mansioni appartenenti a un livello di inquadramento inferiore che però rientrano nella medesima categoria legale di appartenenza. Negli altri casi, occorre invece un accordo tra le parti.

Non vi è obbligo di repechage se per il datore di lavoro questo rappresenta un costo

Il Tribunale di Roma nella sentenza del 24 luglio 2017 ha sottolineato che non vi è obbligo di repechage nel caso in cui il datore di lavoro per poter ottemperare a ciò debba sostenere costi di formazione eccessivi. Tale obbligo non può trasformarsi in un onere economico per il datore di lavoro. Quindi devono essere tenute in considerazione le posizioni presenti in azienda che richiedono le stesse competenze professionali del lavoratore che in teoria sarebbe in esubero. Tale orientamento è confermato dalla sentenza 31521 della Corte di Cassazione del 2019.

C’è obbligo di repechage anche tra aziende appartenenti allo stesso Gruppo?

La risposta è negativa o meglio solo in alcuni limitati casi il datore di lavoro ha l’obbligo di proporre al lavoratore il trasferimento in un’altra azienda del Gruppo. Si tratta delle ipotesi in cui vi sia un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Si verifica ciò nei casi:

  • vi sia un’unica struttura organizzativa e produttiva;
  • si verifichi integrazione tra le attività svolte dalle varie aziende del gruppo e il correlativo interesse comune;
  • sia possibile individuare un unico soggetto direttivo in virtù di un profondo collegamento tecnico e amministrativo-finanziario tra le varie parti del Gruppo;
  • infine, vi sia un’utilizzazione contemporanea delle prestazioni del lavoratore da parte delle aziende del gruppo.

In base alla sentenza 1656 del 2020 della Corte di Cassazione in questi specifici casi il repechage si applica anche tra le aziende del Gruppo. La prova della presenza di questi requisiti deve essere fornita dal lavoratore.

C’è sempre divieto del datore di lavoro di assumere altre persone?

Dalla giurisprudenza emergono note interessanti inerenti il caso in cui il datore di lavoro assuma altri dipendenti. Il primo caso è contenuto nella sentenza della Corte di Appello di Milano n° 909 del 2017, in questo caso il datore di lavoro successivamente aveva assunto con contratto a tempo determinato un altro lavoratore con le stesse mansioni/inquadramento. Tale assunzione non è stata ritenuta in violazione dell’obbligo di ripescaggio perché fatta al fine di sostituire un altro dipendente assente, ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro. Si trattava quindi di un posto di lavoro “diverso”.

Un altro caso particolare è invece trattato dall’Ordinanza del Tribunale di Roma del 27 ottobre 2014, in questo caso vi era stata prima un’assunzione a tempo determinato e in un secondo momento il licenziamento del lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Nella ordinanza si sottolinea che tale tipologia di contratto esclude l’obbligo per il datore di lavoro di proporre tale posizione come alternativa al licenziamento.

La sentenza 1508 del 2021 della Corte di Cassazione invece sottolinea che in caso di licenziamento del lavoratore per motivi economici, cioè l’azienda era nella necessità di tagliare i costi, l’obbligo di repechage viene meno proprio perché in contrasto con tale necessità.

Sanzioni per il datore di lavoro

Il datore di lavoro che attua un licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza impegnarsi nel ripescaccio può essere sanzionato in diversi modi  a seconda della data del contratto di lavoro. Naturalmente la sanzione è prevista laddove il giudice ritenga che vi fossero le condizioni per il repechage del lavoratore. Per i rapporti di lavoro nati prima del 7 marzo 2015 si applica l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori. Se vi è una manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo c’è il diritto al reintegro nel posto di lavoro, dove non vi sia tale manifesta insussistenza invece c’è solo il risarcimento nella misura massima di 12 mensilità.

Per i rapporti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 invece non è previsto il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro ma una tutela risarcitoria di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio e comunque non inferiore a 6 mensilità e non superiore a 36 mensilità.

Il datore di lavoro può controllare il computer del dipendente?

Il datore di lavoro può controllare il computer dei dipendenti? A fare chiarezza e a rispondere al quesito ha risposto la sentenza della Cassazione (la numero 25732 del 22 settembre 2021) che ha decretato il freno dei controlli “a tappeto” da parte dell’impresa ai dipendenti. Tuttavia, la stessa sentenza stabilisce la possibilità di controllo su un singolo lavoratore nel caso in cui emergesse il fondato sospetto sulla commissione di un illecito.

Quando è ammesso il controllo del pc di un dipendente e in che modo

Pertanto il controllo è ammesso entro determinati limiti. Innanzitutto, per il sospetto di un illecito il datore di lavoro può controllare il pc di un dipendente anche in assenza delle condizioni poste dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Ma devono sussistere anche altre due condizioni. La prima consiste nell’equilibrio tra le esigenze di protezione dei beni dell’impresa e la tutela della dignità personale. La seconda impone che il datore svolga il controllo solo sui dati acquisiti dopo che sia insorto il sospetto di illecito.

Il caso della dipendente che visitando siti privati ha causato l’introduzione di un virus informatico

Le regole, in particolare, trovano applicazione nel controllo a distanza dei lavoratori. Ma deve sussistere il sospetto della commissione di un illecito da parte del lavoratore. La Cassazione, nell’esprimere la propria sentenza, era stata chiamata a esprimersi in merito a una controversia di una Fondazione. Il ricorrente aveva licenziato una dipendente per il danno subito alla rete informatica a causa di un virus. Nel dettaglio, dopo controlli fatti sul pc della dipendente, la Fondazione aveva accertato che il virus era stato innescato nella rete dell’azienda proprio mediante un file che era stato scaricato da portali on line aperti per ragioni non lavorative. Il file era stato trovato nella cartella di “download”.

Dipendente licenziata per aver consultato siti web per finalità private sul posto di lavoro

L’azienda aveva licenziato la dipendente sia per la consultazione di portali web per finalità private, sia per aver causato un danno al patrimonio dell’impresa con il suo comportamento. La lavoratrice, invece, aveva impugnato il licenziamento ed era ricorsa al Garante par la privacy per ottenere un provvedimento che intimasse al datore di lavoro l’interruzione di ogni ulteriore trattamento dei dati personali.

Controlli individuali in azienda e a difesa del patrimonio dell’impresa

Il giudizio, dopo varie vicende giudiziarie, è spettato alla Corte di Cassazione che ha emesso la sentenza rispettando anche le novità apportate all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori dal Jobs Act nel 2015. La Cassazione ha chiarito che è necessario distinguere tra i controlli difensivi svolti per difendere il patrimonio dell’impresa e che riguardano tutti i dipendenti, dai controlli fatti verso un singolo dipendente. I primi rientrano nella disciplina dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e pertanto devono attenersi alle procedure previste dalla normativa a pena di illegittimità dei controlli stessi.

Controlli su un singolo lavoratore da parte del datore: quando sono possibili?

Nei controlli individuali deve esserci il fondato sospetto che il dipendente stia commettendo un illecito.  Il caso in questione non rientra nell’articolo 4, ma riguarda la responsabilità della lavoratrice. La situazione di fatto nasce dalla necessità del datore di lavoro di sanzionare l’illecito avendo il sospetto della commissione dello stesso. Ciò significa che il datore di lavoro, avendo dei sospetti di un fatto illecito, potrebbe fare controlli a distanza. E che tali controlli potrebbero essere eseguiti anche medianti strumenti tecnologici andando al di là, quindi, delle rigide procedure elencate dallo Statuto dei lavoratori.

I limiti dei controlli dei datori di lavoro

Nella sentenza la Cassazione ha posto, in ogni modo, dei limiti nell’azione di controllo dei datori di lavoro. Il primo consiste nel fatto che gli stessi controlli possono essere svolti solo ex post. Ovvero solo dopo che sia nato il sospetto della commissione di un illecito di uno o più lavoratori. Inoltre, i controlli possono riguardare solo il reperimento di informazioni successive alla nascita del sospetto, e non la totalità dei dati e delle informazioni riguardanti anche i momenti precedenti al sospetto dell’illecito. Al contrario, un datore di lavoro senza limitazioni finirebbe per estendere i controlli a dismisura rispetto alla commissione del singolo illecito.

Art. 18: risarcimento ‘ridotto’ anche per reintegrati

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, oltre a essere al centro di un’accesa discussione poltica, è anche materia di interpretazione giuridica e operativa. Proprio su questi aspetti interviene il parere n. 4 emesso oggi dalla Fondazione Studi consulenti del lavoro, in risposta a un quesito sul risarcimento da corrispondere al dipendente, in caso di reintegrazione sul posto di lavoro, proprio ai sensi dell’articolo 18.

“In presenza di un licenziamento inefficace, ingiustificato o nullo, il datore di lavoro -ricordano i consulenti del lavoro- oltre alla reintegrazione, è tenuto a corrispondere al dipendente una indennità risarcitoria ‘commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione’, che ‘non può essere inferiore a cinque mensilità'”.

Pertanto, si legge nel parere, “in presenza di un licenziamento illegittimo”, “il datore di lavoro deve: in ogni caso, corrispondere al lavoratore una penale forfettaria pari a cinque mensilità della retribuzione e corrispondere al lavoratore le retribuzioni dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”. La penale forfettaria non è suscettibile di ‘sconti’, mentre il risarcimento può essere ridotto in due casi: se il dipendente illegittimamente licenziato, nelle more del giudizio, ha ottenuto dei guadagni da un’altra attività lavorativa e se il dipendente non si sia adoperato per reperire una nuova occupazione, aggravando così il danno al datore di lavoro che lo ha licenziato.

Quindi, il datore di lavoro può diminuire l’importo del risarcimento, dimostrando che il dipendente, nel periodo di illegittima interruzione del rapporto, ha percepito altri redditi da lavoro subordinato o autonomo. Il reddito deve essere stato percepito direttamente dal lavoratore e non già da altri componenti del nucleo familiare. Altra ipotesi di riduzione del risarcimento si ha nel caso in cui il lavoratore, nelle more del giudizio, non si attivi “positivamente per ricercare una nuova occupazione”. In questo caso, dicono i consulenti, “il datore di lavoro può domandare la riduzione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18, legge n. 300 del 1970”.

La mancata cooperazione del lavoratore (con conseguente riduzione del risarcimento) può essere accertata in via presuntiva, tenendo conto della della qualificazione professionale del lavoratore, del tempo trascorso tra l’illegittimo licenziamento e la domanda di reintegrazione e dell’andamento del mercato del lavoro, valutando quindi le concrete probabilità di ricollocamento.

Fonte: adnkronos.com

Articolo 8: è scontro in Parlamento

C’è aria di tempesta in Parlamento dopo l’approvazione dell’articolo 8 della manovra finanziaria che prevede la possibilità di derogare con i contratti aziendali e territoriali ai contratti nazionali e alla legge.

In materia di licenziamento, eccezion fatta per quello discriminatorio, per gravidanza o matrimonio, le modifiche apportate dalla maggioranza in commissione Bilancio al Senato all’articolo 8 del decreto, prevedono la possibilità di licenziare anche tramite un accordo a livello aziendale o territoriale, raggiunto a maggioranza dai sindacati più rappresentativi.
In contrapposizione con quanto previsto dall‘articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e in particolare la legge 300 del 1970 che impone, per le aziende sopra i 15 dipendenti, il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.

Dura la replica di parlamentari e sindacati: per la Cgil si tratta di una manovra che viola la Costituzione, e la sua leader, Susanna Camusso passa all’attacco: ”il governo autoritario annulla il contratto collettivo nazionale di lavoro e cancella lo Statuto dei lavoratori, e non solo l’articolo 18, in violazione dell’articolo 39 della Costituzione e di tutti i principi di uguaglianza sul lavoro che la Costituzione stessa richiama”.

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, tiene a sottolineare, in risposta alle parole della Camusso, che ‘‘è inequivoco che tali interventi non possono modificare le norme di rango superiore come i fondamentali principi costituzionale o di carattere comunitario e internazionale’ e che quindi ”non ha senso parlare di libertà di licenziare o usare altre semplificazioni che non corrispondono, neppure lontanamente, alla oggettività della norma”.

Il confronto sull’articolo 8 del decreto in discussione in Parlamento non può trasformarsi in uno scontro continuo tra diverse concezioni sul sistema di relazioni sindacali necessario al nostro Paese“, è la nota di intervento del direttore generale di Confcommercio, Francesco Rivolta.

Cisl e Uil evidenziano infine l’importanza di una precisazione, ossia che solo i sindacati comparativamente più rappresentativi possono siglare intese a livello aziendale, come stabilito nell’accordo interconfederale, unitario, del 28 giugno scorso, evitando la costituzione di sindacati di ”comodo”.

Alessia Casiraghi