Stipendi: aumento in arrivo da gennaio per 4 milioni di italiani. Chi ne beneficerà?

Il Governo Meloni con un emendamento alla manovra di bilancio ha confermato il taglio del cuneo fiscale del 2% introdotto dal governo Draghi, ma non solo, infatti lo ha aumentato di un punto percentuale e ha provveduto ad aumentare la soglia di reddito dei beneficiari. Da questa scelta consegue un aumento degli stipendi. Ecco a chi spetterà e a quanto ammonta.

Con la legge di bilancio in arrivo aumenti per 4 milioni di italiani

Con un emendamento alla legge di bilancio, il governo Meloni ha provveduto ad estendere il taglio del cuneo fiscale a carico del lavoratore del 3% ai redditi compresi tra 20 e 25.000 euro. Prima di questo intervento l’aumento del taglio del cuneo fiscale era per redditi fino a 20.000 euro. I beneficiari di questa estensione, secondo i calcoli effettuati, dovrebbero essere 4 milioni di contribuenti che dovrebbero avere dal mese di gennaio un aumento in busta paga di circa 38 euro. In totale in Italia i contribuenti che percepiscono un reddito fino a 25.000 euro sono 15,4 milioni di euro. I redditi compresi tra 25.001 e 35.000 euro potranno invece continuare a beneficiare del taglio del cuneo fiscale al 2%.

A quanto ammonta l’aumento degli stipendi?

In realtà gli aumenti reali dipenderanno molto dalla reale situazione del singolo contribuente, infatti un lavoratore con un reddito lordo di 12.000 euro, potrà avere un aumento mensile di circa 21 euro netti in più al mese. Chi ha uno stipendio lordo di 15.000 euro potrà invece ricevere 27 euro in più al mese in busta paga. Solo chi ha un reddito lordo di 35.000 euro potrà invece ricevere un aumento di 38 euro netti al mese.

Si tratta di piccole somme che vanno comunque a cumularsi al reddito ai fini Irpef e quindi sottoposte a tassazione.

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Pignoramento: come evitarlo senza commettere reati

Il pignoramento è un atto che piace a davvero poche persone, o forse a nessuno, ma può essere evitato senza cadere nell’illecito? Ecco qualche possibile soluzione da attuare prima della notifica dell’atto.

Tipologie di esecuzione forzata sui beni del debitore

Il pignoramento è una procedura messa in atto quando vi sono debiti insoluti e di conseguenza il creditore che possa dimostrare di vantare un credito, chiede all’autorità giudiziaria di emettere un atto di esecuzione sui beni del debitore. Si ha quindi il pignoramento, che può avvenire su diverse tipologie di beni (ad esempio su beni immobili quali abitazioni o terreni, oppure su beni mobili come l’auto, infine è possibile il pignoramento presso terzi, cioè avente ad oggetto i crediti che il debitore a sua volta vanta da terzi). Il creditore solitamente cerca vie brevi, ecco perché spesso si richiede il pignoramento del conto corrente oppure il pignoramento dello stipendio/pensione. Il pignoramento del conto corrente rappresenta il caso classico di pignoramento presso terzi. Vi sono però dei metodi per evitare in modo del tutto legale questa procedura.

Come evitare il pignoramento del conto corrente

I pignoramento del conto corrente e dello stipendio hanno comunque dei limiti, infatti possono essere pignorate le somme eccedenti 3 volte la misura prevista per l’assegno sociale, mentre per lo stipendio il tetto massimo è 1/5.  Per quanto riguarda la pensione, il tetto è stato portato a 1.000 euro.

Un conto corrente in rosso non può essere pignorato. Proprio per questo il primo consiglio è quello di spostare i fondi su un conto corrente intestato a un’altra persona, ad esempio un genitore o un amico fidato. Naturalmente è bene prestare attenzione perché la movimentazione di somme importanti potrebbe destare sospetti. In questi casi è importante, affiancare il trasferimento delle somme a una scrittura privata in cui le parti si accordano sulla titolarità delle somme. Lo spostamento deve avvenire prima che il provvedimento sia notificato.

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Un’altra soluzione sarebbe quella di chiedere alla banca di aprire una linea di credito che preveda la detenzione di una determinata somma di denaro, in questo modo l’ammontare della linea di credito non può essere aggredita dai creditori. Si tratta di una soluzione dispendiosa, consigliata soprattutto alle imprese che hanno l’esigenza primaria di avere liquidità.

Infine, è possibile chiedere alla banca di emettere in favore della persona soggetta a pignoramento assegni circolari. In questo caso le somme del conto sono disponibili su assegni, il conto risulta in rosso e gli assegni possono essere utilizzati per avere liquidità.

Naturalmente il consiglio migliore è cercare di avere un buon rapporto con i creditori e stabilire un piano di ammortamento del debito dilazionato nel tempo, oppure se si ritiene che il pignoramento non sia giustificato, si può contestare l’atto.

Nuova IRPEF: da quale stipendio vedremo gli effetti?

Con il passaggio dal 2021 al 2022 in Italia è arrivata la nuova IRPEF. E questo attraverso una riduzione delle aliquote da 5 a 4. In pratica da un lato è stata eliminata l’aliquota IRPEF al 41%, e nello stesso tempo la vecchia aliquota al 38% è stata tagliata di tre punti percentuali scendendo al 35%. Nulla è invece cambiato per l’applicazione dell’imposta per i redditi fino a 15mila euro in quanto l’aliquota al 23% è stata confermata.

Da quale stipendio vedremo gli effetti della nuova IRPEF, i vantaggi maggiori sono per il ceto medio

Quindi, per chi si chiede da quale stipendio vedremo gli effetti della nuova IRPEF, è chiaro che la revisione delle aliquote da quest’anno, in termini di risparmio di imposta, andrà ad avvantaggiare i redditi medi e quelli medio-alti. In altre parole, la nuova IRPEF da quest’anno garantirà in termini di importo maggiori risparmi fiscali al cosiddetto ceto medio.

Per quanto detto, quindi, gli effetti della nuova IRPEF dal 2022 si avranno per i redditi a partire dai 15.001 euro e fino a 28mila euro. In quanto l’aliquota è scesa dal 27% al 25%. Ma anche per i redditi tra 28.001 euro e fino 50mila euro. In quanto l’aliquota è in questo caso scesa dal 38% al 35%. Invece, sopra i 50.000 euro la tassazione progressiva dal 2022 prevede l’applicazione dell’aliquota massima che è quella al 43%.

Riforma fiscale con la clausola di salvaguardia per i redditi bassi, ecco come

Per la riforma dell’IRPEF 2022 il Governo che è guidato dal presidente del Consiglio Mario Draghi ha complessivamente stanziato 8 miliardi di euro. Con i redditi medi che, come sopra detto, sono quelli più avvantaggiati dalla revisione delle aliquote IRPEF.

Pur tuttavia, come clausola di salvaguardia al fine di non penalizzare i redditi bassi, per il 2022 è confermato l’ex bonus Renzi da 100 euro al mese proprio sul primo scaglione di imposta. Ovverosia, per i redditi fino a 15.000 euro.

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Quanto guadagna un pediatra di famiglia? Scopriamolo insieme

Per chi si laurea in Medicina la scelta della specializzazione è sempre una fase molto importante, tra le specializzazioni che possono portare una buona remunerazione sicuramente c’è quella in pediatria. Ecco quanto guadagna un pediatra di famiglia.

Come viene scelto il pediatra di famiglia

La nascita di un bambino è sempre un lieto evento e appena dopo l’attribuzione del codice fiscale al nuovo nato e quindi con l’iscrizione all’anagrafe, c’è la possibilità di scegliere il pediatra di famiglia.  In realtà si tratta di un vero obbligo, in quanto solo scegliendo il pediatra di famiglia è possibile accedere attraverso tale professionista alle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale.

Le modalità di scelta sono uguali a quelle utilizzate per la scelta del medico di famiglia, o medico di base che dir si voglia. Occorre quindi recarsi al distretto territoriale ASL di competenza. Qui sarà proposta una lista di pediatri disponibili e in base alla fiducia, alla nomea, alla sede in cui riceve, si può scegliere il proprio pediatra di famiglia. Per il medico specializzato in pediatria il fatto di essere inserito nella lista dei pediatri di famiglia assicura un buon bacino di clienti, o meglio di pazienti, da seguire, questo vuol dire che a fine mese comunque si riceverà uno stipendio.

Quanto guadagna un pediatra di famiglia?

In media lo stipendio di un pediatra di famiglia è di 90.000 euro annui lordi, naturalmente è necessario sottrarre le imposte e di conseguenza un medico avrà un netto di circa 4.000 euro mensili. Per chi è all’inizio della carriera le somme sono più basse, circa 50.000 euro lordi annui, mentre per chi ha già una carriera ben avviata le retribuzioni sono più elevate. Le retribuzioni variano leggermente anche in base al territorio e all’anzianità di servizio.

Lo stipendio dipende da diversi fattori, in particolare dal numero di piccoli pazienti in cura, dalla zona in cui si lavora e se il lavoro di pediatra di famiglia è affiancato dal lavoro in strutture ospedaliere. Occorre sottolineare che si entra a far parte dei pediatri di famiglia di un territorio su richiesta, ma solo quando scatta la “carenza” quindi è impossibile diventare pediatra di famiglia e non avere pazienti e quindi entrate sicure.

In base alla normativa attualmente vigente un pediatra di famiglia può avere massimo 800 pazienti, anche se vi possono essere delle eccezioni, ad esempio nel caso in cui la famiglia richieda l’iscrizione di un altro figlio. Al raggiungimento del limite si parla anche di pediatra massimalista.

Secondo le stime un pediatra di famiglia al termine della carriera può raggiungere una retribuzione di oltre 200.000 euro lordi all’anno.

Cosa fa un pediatra di famiglia

Abbiamo visto quanto guadagna un pediatra di famiglia, è importante ora capire quali sono i compiti che deve svolgere.

Gli assistiti del pediatra di famiglia sono “bambini” da 0 a 14 anni, passato tale limite anagrafico, il ragazzo sarà assegnato a un medico di base, solitamente lo stesso dei genitori. In base alla normativa, un medico, sebbene massimalista, può accettare “il figlio, il coniuge e il convivente dell’assistito già in carico al medico di medicina generale possono effettuare la scelta a favore dello stesso medico anche in deroga al massimale o quota individuale, purché anagraficamente facenti parte del medesimo nucleo familiare.” Inoltre nel caso in cui il ragazzo sia affetto da patologie croniche o handicap, i genitori possono chiedere che sia seguito fino al compimento dei 16 anni dal pediatra di famiglia.

Compiti del pediatra

Il pediatra di famiglia segue il bambino fin dalla nascita ( o dal momento in cui i genitori effettuano la scelta di quel determinato medico, ad esempio in seguito a un trasferimento potrebbe essere necessario scegliere un nuovo pediatra di famiglia) e ne valuta il corretto sviluppo attraverso visite periodiche. Ha un importante ruolo di supporto nei confronti dei genitori informandoli sui piani vaccinali e sul corretto stile di vita.

Al manifestarsi di una malattia effettua visite ambulatoriali e prescrive visite specialistiche ed esami a cui sottoporre i piccoli, prescrive farmaci e terapie. In caso di necessità deve effettuare visite domiciliari. Tra i compiti c’è il rilascio delle certificazioni per l’ammissione presso asili nido, scuole materne e di ogni ordine e grado, inoltre rilascia il certificato di riammissione in caso di assenza per malattia, certificati di stato di buono salute per lo svolgimento di attività sportive a livello non agonistico.

Nei confronti dei genitori rilascia il certificato di malattia del bambino al fine di far ottenere al genitore il diritto all’astensione dal lavoro.

Lavoro straordinario: concorre alla formazione del TFR?

Le ore di lavoro straordinario possono concorrere a formare l’imponibile per il Trattamento di fine rapporto (TFR)? E, in analoga situazione, i premi di produttività senza la percentuale agevolata del 10% valgono per il TFR? Per rispondere a queste domande è necessario rifarsi alla natura della prestazione come disciplinata dal Codice civile e al contesto lavorativo nel quale si svolgano ore di straordinario e si percepiscano premi.

Cos’è il Trattamento di fine rapporto?

Il Trattamento di fine rapporto è definito dall’articolo 1320 del Codice civile. Nella situazione di cessazione del rapporto di lavoro, “il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola, sommando per ciascun anno di servizio, una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni”.

Come si calcola il Trattamento di fine rapporto (TFR)?

Il Codice civile dispone, dunque, anche come si calcola il TFR. Pertanto, per ogni anno di attività prestata a un datore di lavoro, è necessario dividere la retribuzione annua per 13,5. Lo stesso calcolo può essere fatto moltiplicando la retribuzione annua per il 7,41%. Il risultato costituisce l’accantonamento della quota di TFR per l’anno preso in considerazione e al quale fa riferimento la retribuzione.

Esempio di calcolo del TFR

Facendo un esempio, se la retribuzione annua è di 20.000 euro lordi, il calcolo del TFR inerente l’anno di lavoro è pari a 1.481 euro lordi. Il risultato costituisce l’accantonamento del Trattamento di fine rapporto per l’anno al quale si riferisce la retribuzione.

Retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR

Per comprendere pienamente se il lavoro straordinario rientra nel calcolo dell’imponibile utile ai fini del Trattamento di fine rapporto è necessario verificare cosa rientra nella retribuzione. Sempre l’articolo 2120 del Codice civile specifica che la retribuzione annua “comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”.

Lo straordinario rientra nel calcolo del Trattamento di fine rapporto?

Da quanto deriva dall’articolo 2120 del Codice civile, il lavoro straordinario rientra nella retribuzione utile ai fini del Trattamento di fine rapporto se viene svolto in maniera continuativa. Diversamente, lo straordinario non rientra se viene svolto in maniera occasionale.

Esempi di calcolo TFR con lavoro straordinario in busta paga

È il caso, ad esempio, di un dipendente che svolga lavori su turni, con la conseguenza di un frequente ricorso al lavoro straordinario. Le maggiorazioni che ne derivano nella busta paga concorrono a formare il TFR. Nel secondo caso, per straordinari svolti in via occasionale, figurano ore di straordinario pagate in busta paga ma queste non concorrono alla formazione dell’imponibile per il Trattamento di fine rapporto.

E i premi di produttività concorrono al calcolo del TFR?

I premi di produttività, soggetti a normale tassazione, concorrono sempre all’imponibile per il calcolo del Trattamento di fine rapporto. Si tratta, infatti, di una parte della retribuzione che non può definirsi “occasionale” e che esula dal concetto delle prestazioni meramente “a titolo non occasionale” di cui parla l’articolo 2120 del Codice civile.

Quali sono le voci della busta paga che rientrano nel calcolo del TFR?

È possibile, pertanto, fare un resoconto delle voci della busta paga che devono essere incluse nel calcolo dell’imponibile per il Trattamento di fine rapporto. Oltre allo stipendio base, rientrano:

  • il lavoro straordinario svolto in maniera non occasionale;
  • i premi di anzianità o di fedeltà;
  • le ferie non godute;
  • le festività non godute;
  • i premi di rendimento individuale;
  • la quota retributiva, pari al 50%, delle trasferte;
  • il lavoro all’estero;
  • le indennità di alloggio;
  • il lavoro svolto in maniera non occasionale di notte, nei festivi e durante le domeniche.

Cosa non rientra nel calcolo dell’imponibile per il TFR?

Dal calcolo dell’imponibile ai fini del calcolo del Trattamento di fine rapporto devono essere escluse le seguenti voci:

  • i rimborsi delle spese;
  • le liberalità che il datore di lavoro concede ma che non sono connesse al rapporto di lavoro. Si tratta, dunque, di compensi e premi relativi a occasioni particolari, che non hanno la caratteristica della continuità, come ad esempio il cinquantenario dell’azienda;
  • di conseguenza, ogni compenso corrisposto in maniera occasionale non rientra nel calcolo del TFR.

Franchising: chi paga i dipendenti il franchisor o il franchisee?

Il contratto di franchising ha sicuramente molti aspetti che richiedono attenzione e tra questi vi sono le clausole inerenti il trattamento economico e pensionistico di eventuali dipendenti presenti in sede. La domanda che spesso si pongono coloro che vogliono fare un investimento in franchising è: chi paga i dipendenti?

Chi paga i dipendenti nel franchising

La risposta alla domanda su chi paga i dipendenti nel franchising è molto simile a quella che abbiamo visto per il canone di locazione, quindi il singolo contratto può prevedere disposizioni diverse, ma  in linea generale i dipendenti li paga il franchisee in qualità di imprenditore autonomo.

La legge italiana che regola questo contratto è la 129 del 2004 che, come detto, lascia ampia libertà alle parti e di conseguenza non regola nel dettaglio il contenuto che deve avere il contratto, descrive gli obblighi delle parti e stabilisce all’articolo 5 comma 2 “L’affiliato si impegna ad osservare e a far osservare ai propri collaboratori e dipendenti, anche dopo lo scioglimento del contratto, la massima riservatezza in ordine al contenuto dell’attività oggetto dell’affiliazione commerciale”. Invece l’articolo 3 comma 4  lettera f stabilisce che il contratto deve indicare “le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione”. Quindi il contratto di franchising può anche prevedere la formazione obbligatoria per i dipendenti, ma questo non vuol dire che debba sostenerne i costi. In nessuna altra parte della normativa si tratta dei collaboratori, proprio per questo si può dedurre che c’è autonomia contrattuale.

L’autonomia del franchisee: quali spazi gli vengono riconosciuti

Molti potrebbero chiedersi il perché di questa domanda inerente chi paga i dipendenti nel franchising, in realtà non è così banale, infatti le politiche commerciali di chi stipula tali contratti sono elaborate dal franchisor che spesso detta delle linee guida molto meticolose e dettagliate inerenti molti punti dell’accordo al punto che alcuni imprenditori affiliati tendono a sentirsi quasi dei dipendenti anche loro. A fronte della scarsa autonomia dell’imprenditore affiliato, ci si potrebbe aspettare un impegno economico maggiore del franchisor, in realtà spesso è esattamente il contrario.

Ad esempio, possono essere imposte delle divise, dei criteri per la scelta dei dipendenti, può essere prevista la formazione obbligatoria per loro (in alcuni casi gratuita, in altri ricadente sul franchisee). Uno dei pilastri del franchising è conformarsi  alle istruzioni e alle procedure del franchisor perché deve essere data un’ immagine uniforme della catena, questo può anche voler dire che il franchisor può imporre determinati stipendi che in linea di massima potrebbero essere anche non in linea con quelli generalmente praticati per determinate mansioni in una determinata ubicazione.

Franchising: ecco un esempio di come vengono pagati i dipendenti

Nonostante questo, appare del tutto evidente che il contratto di franchising preveda che l’affiliato, o franchisee, si obblighi a corrispondere gli stipendi, gli oneri contributivi e previdenziali per il personale e i costi delle utenze. Pur cercando tra le più importanti catene di affiliazione dati inerenti il trattamento stipendiale dei dipendenti, in nessun caso è emerso che l’affiliante o franchisor, si occupi anche di questo aspetto.

Ad esempio McDonald’s prevede una piramide del personale molto definita, ma di fatto gli stipendi sono uniformi in tutta Italia, ma il versamento per coloro che lavorano in franchising resta a carico del franchisee. La posizione base è quella del Crew che per 24 ore settimanali prende circa 900 euro, i potenziali dipendenti sono prima selezionati attraverso i curriculum online e in seguito devono affrontare un colloquio.

McDonald’s ha una rete di distribuzione molto ampia, alcuni locali sono gestiti direttamente dalla società McDonald’s, altri sono affidati in franchising, nei primi gli stipendi sono erogati dalla catena, nei secondi dagli affiliati. I franchisee nella selezione devono rispettare i criteri della Multinazionale che in alcuni casi partecipa anche alla selezione, come accaduto con la rete gestita da Gianni Ieraci che dal 1996 ad oggi ha aperto 6 McDonald’s in provincia di Brescia (fonte: intervista rilasciata da Gianni Ieraci nel settembre 2016 al Corriere della Sera).

In ogni caso, prima di aprire un franchising, leggi bene il contratto che ti deve essere consegnato almeno 3 mesi prima e affidati alla consulenza di esperti scelti da te.

Se vuoi maggiori informazioni sul franchising leggi la guida presente QUI

In busta paga gli effetti di nuove addizionali Irpef

Gli effetti delle nuove addizionali Irpef regionali e comunali arrivano nel cedolino. Da questo mese, infatti, “i lavoratori dipendenti e i pensionati pagheranno il loro tributo al salvataggio del Paese” e, “a parità di reddito, la differenza tra chi sborsa di più e chi di meno la fa la città in cui si pagano le tasse”, mentre “l’aumento delle addizionali regionali è per tutti dello 0,33%”.

A spiegare l’impatto in busta paga degli aumenti è il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, che ha elaborato circa 7 milioni di rapporti di lavoro riferiti al mese di marzo 2012 e messo a confronto 2012 e 2010. Si precisa, infatti, che “gli aumenti introdotti nel corso del mese di dicembre 2011 riguardano contemporaneamente il 2011 e il 2012, pertanto se si vuole vedere l’aumento rispetto al passato bisogna retroagire al 2010”.

Gli scaglioni di reddito interessati sono pari a 20.000 euro, 40.000 euro e 60.000 euro e il calcolo è effettuato sullo stipendio lordo annuo. In ciascuna provincia e per ciascuno scaglione di reddito, sono stati fatti i confronti con i singoli prelievi che sono con segno positivo (maggiore prelievo) e automaticamente è stato messo in evidenza quanto diminuisce il netto in busta (con segno negativo).

Così, si scopre che nel Lazio il netto in busta paga scende complessivamente di 86 euro su un reddito di 20mila euro l’anno, di 172 su 40mila e di 258 su 60mila. In Lombardia, il netto diminuisce di 65,48 euro per il primo scaglione, di 210,46 per il secondo e di 316,46 per il terzo. In Puglia, la perdita è, rispettivamente, di 126 euro, 276 e 442 euro. Secondo i calcoli dei consulenti del lavoro, poi, uno stesso ‘destino’ accomuna i redditi di Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Campania, Sicilia: si perdono 66 euro su 20mila annui, 132 euro su 40mila e 198 euro su 60mila.

Fonte: adnkronos.com

Acconto Irpef più leggero

Buone notizie per gli italiani. L’acconto Irpef che si dovrà versare entro mercoledì 30 novembre sarà pari all’82% e non al 99%. Lo ha satbilito il decreto del presidente del Consiglio che prevede il differimento del versamento del 17% dell’acconto Irpef dovuto per il periodo d’imposta 2011. Di conseguenza, l’acconto Irpef dovuto entro mercoledì 30 novembre ammonterà all’82% anziché al 99% e la differenza sarà versata a giugno del 2012.

Ai contribuenti che hanno già effettuato il pagamento dell’acconto pari al 99 per cento, spetta un credito d’imposta pari alla differenza pagata in eccesso, che va utilizzato in compensazione con il modello F24. A chi ha utilizzato l’assistenza fiscale, i sostituti d’imposta tratterranno l’acconto applicando la nuova percentuale dell’82%.

Se è già stato già effettuato il pagamento dello stipendio o della pensione senza considerare la riduzione, i sostituti d’imposta restituiranno nella retribuzione erogata nel mese di dicembre le maggiori somme trattenute. Nel caso in cui i sostituti d’imposta non possano riconoscere la riduzione dell’acconto sulle retribuzioni di dicembre 2011, gli stessi dovranno comunque restituire le maggiori somme trattenute nella retribuzione successiva.