Prestiti alle imprese, a quando la ripresa?

Anche il mese di gennaio conferma che il momento difficile per i prestiti alle imprese e famiglie non è ancora passato. Secondo il Centro studi Unimpresa, da gennaio 2014 a gennaio 2015, le sofferenze bancarie (dati Bankitalia) sono aumentate del 15% arrivando a oltre 185 miliardi di euro (+25 miliardi).

Secondo l’osservatorio di Unimpresa, la maggior parte dei finanziamenti non rimborsati arriva dai prestiti alle imprese, per un totale di 131 miliardi, e anche le cosiddette imprese familiari risultano in forte difficoltà, con un totale di insoluto che tocca i 15 miliardi.

Unimpresa rileva però che, nello stesso periodo, le banche hanno diminuito i prestiti alle imprese e alle famiglie per complessivi 30 miliardi (pari a un calo del 2%), ma i prestiti alle imprese per il medio periodo sono cresciuti di 9 miliardi.

Secondo lo studio di Unimpresa, nell’anno in esame le sofferenze sono passate dai 160,4 miliardi di gennaio 2014 ai 185,4 di gennaio 2015 (+16,6%). Di queste, la quota delle imprese è aumentata di ben il 17,3%, da 112,3 a 131,7 miliardi, mentre per le imprese familiari la crescita è stata più contenuta ma sempre preoccupante: +11,08%, da 13,6 a 15,1 miliardi.

A fronte di queste sofferenze, la stretta al credito e i tagli ai prestiti alle imprese e alle famiglie è fisiologica: nell’ultimo anno sono calati di 2,5 miliardi al mese, per un totale, da gennaio 2014 a gennaio 2015, di -30,6 miliardi (da 1.439,6 a 1.409,1).

I prestiti alle imprese sono scesi di 27,4 miliardi e del 2,13% nell’ultimo anno; sono calati quelli a breve termine per 9,8 miliardi (-3,16%) e quelli di lungo periodo di 26,5 miliardi (-6,55%). In controtendenza quelli fino a 5 anni: +8,9 miliardi (+7,50%).

Il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi, non ha mancato di commentare questa situazione: “Quella del credito resta una situazione gravissima e di fronte alla sempre maggiore difficoltà, sia delle famiglie sia delle imprese, nel pagare le rate dei finanziamenti, assistiamo a un atteggiamento di superficialità da parte delle banche e anche delle istituzioni. Ci sono le risorse del quantitative easing della Bce e non vanno sprecate”.

Quantitative easing e prestiti alle imprese

Come era facile immaginare, il cosiddetto quantitative easing, ovvero il piano della Banca Centrale Europea per stampare moneta con cui acquistare titoli di stato dei Paesi dell’Eurozona in modo da dare loro una boccata d’ossigeno, ha fatto storcere il naso a qualcuno. Specialmente a chi, nel mondo della piccola impresa, rileva troppe storture tra le agevolazioni che le banche hanno nell’acquistare denaro e quanto, di questo denaro, arriva poi a imprese e famiglie.

Nello specifico, Sergio Silvestrini, Segretario Generale della Cna ha sottolineato che “l’avvio del quantitative easing, come nelle previsioni, ha già contribuito a far calare ulteriormente le quotazioni dell’euro. Di sicuro una buona notizia per l’Italia, purtroppo oscurata dall’arretramento della produzione industriale e da una nuova fiammata della stretta creditizia”.

L’Istat – ha proseguito – rileva che a gennaio la produzione industriale è calata del 2,2% rispetto allo stesso mese del 2014. E la Banca d’Italia ci informa che, sempre a gennaio, l’erogazione dei prestiti alle imprese nell’arco di un anno è diminuita del 2,8% contro il -2,6% di dicembre. Sappiamo bene, però, che le dinamiche economiche non vanno lette a intervalli tanto brevi e che la tendenza della produzione industriale rimane rialzista e il calo potrebbe essere solo un aggiustamento tecnico relativo alle scorte dopo due mesi di crescita”.

Quanto al credito – ha sottolineato ancora Silvestriniva rilevato, invece, come la gelata sui prestiti alle imprese e alle famiglie sia andata in totale controtendenza rispetto all’andamento della raccolta, cresciuta in un anno del 5%. Si conferma, quindi, anche a inizio 2015 la severità della stretta creditizia che negli ultimi otto anni ha sottratto alle imprese circa 100 miliardi di crediti. I continui innalzamenti dell’asticella da parte dell’autorità di controllo europee stanno penalizzando gravemente le imprese e vanno rimossi al più presto. E’ necessario, infatti, mettere le banche nelle condizioni di ridare ossigeno alle imprese e offrire nuova liquidità per investire e creare occupazione”. In barba al quantitative easing della Bce.

Credito per le imprese? C’è ancora fame

Proprio nei giorni in cui Rete Imprese Italia mette in guardia dal rischio di una nuova stretta al credito per le imprese, ecco che, secondo i dati del Barometro Crif (società specializzata nei sistemi di informazioni creditizie, di business information e di supporto decisionale), torna a crescere proprio la domanda di credito: +7,4% nel 2014 sul 2013, con un +0,5% nel quarto trimestre sullo stesso periodo dell’anno precedente.

Secondo l’analisi di Crif relativa al 2014, è evidente un “incremento significativo anche nel confronto con le rilevazioni degli anni precedenti, a conferma del fatto che nel corso di questi difficili anni le imprese non hanno mai smesso di rivolgersi agli istituti per reperire le risorse necessarie a finanziare gli investimenti o, più frequentemente, per sostenere l’attività corrente“. Peccato, però, che il credito per le imprese non sia sempre stato erogato nel modo più consono dalle banche…

In particolare, secondo il Barometro Crif, nel corso del 2014 l’andamento aggregato ha evidenziato come le imprese individuali abbiano fatto segnare un aumento delle domande di finanziamento del +6,6% rispetto al 2013, a fronte di un +7,9% delle società di capitale. Segno che di credito per le imprese c’è sempre fame.

Dall’analisi Crif emerge anche un ridimensionamento dell’importo medio dei finanziamenti richiesti: nel 2014 nell’aggregato di imprese individuali e società, l’importo medio è stato di 69.480 euro contro i 70.633 del 2013 (-1,6%).

A guardare le tipologie di società che hanno richiesto credito per le imprese, si nota che le ditte individuali hanno fatto registrare un importo medio dei finanziamenti richiesti di 34.218 euro (-6,4% rispetto ai 36.563 del 2013), mentre per le società di capitali la cifra è stata di 93.865 euro (in calo del -0,7% rispetto ai 94.499 euro del 2013).

Artigiani, dai Confidi sempre meno finanziamenti

Secondo quanto emerge da una ricerca sullo stato del credito realizzata da Fedart Fidi (Federazione nazionale unitaria dei Confidi dell’artigianato), dal 2010 ad oggi è stato sempre meno denaro il denaro erogato dalle banche ad artigiani e Pmi, con una evidente contrazione dei finanziamenti bancari che beneficiano della garanzia dei Confidi. La stretta è stata solo in parte compensata da un impegno più elevato dei Confidi, che per la prima volta negli ultimi anni hanno aumentato la quota di garanzia rilasciata.

Secondo la ricerca, i Confidi aderenti a Fedart hanno in essere quasi 14 miliardi di finanziamenti garantiti, ma quelli erogati nel 2013 sono stati pari a soli 5 miliardi (rispetto ai 6 del 2012) e la tendenza negativa prosegue anche con l’analisi dei dati al 30 giugno 2014. Si rende quindi sempre più necessario un intervento pubblico a sostegno di un sistema che svolge, per sua natura, una funzione di natura pubblicistica.

Se da una parte vi è un tasso di sofferenza che per la prima volta dall’avvio della crisi ha toccato valori a due cifre anche per i Confidi, oltre che per il comparto artigiano (12,5% per i primi, 15,9% per il secondo), i bilanci delle strutture risentono di rettifiche che assorbono del tutto i ricavi generati dalla garanzia collettiva dei fidi.

Il paradosso sta quindi tutto qui. Se da una parte i Confidi sono centrali per finanziare le imprese che hanno possibilità di sviluppo, dall’altra si trovano ad avere necessità di credito per portare avanti i propri obiettivi sul mercato.

Lo stipendio? Difficile pagarlo…

Non è certo una novità il fatto che questa crisi feroce sta mettendo in ginocchio soprattutto la piccola impresa italiana. Una difficoltà crescente, che non ha solo il volto dell’imprenditore che non riesce più a fatturare ma, anche e soprattutto, quella dell’imprenditore che non riesce a onorare gli impegni con i propri dipendenti. Impegni che significano, in primo luogo, pagare gli stipendi.

Secondo un’analisi effettuata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, le imprese fanno sempre più fatica a onorare assegni bancari o postali, cambiali, vaglia o tratte e così i protesti hanno subito un aumento molto consistente. Dall’inizio della crisi i titoli di credito che alla scadenza non hanno trovato copertura sono cresciuti del 12,8%, mentre le sofferenze bancarie in capo alle aziende hanno fatto registrare un’impennata a tre cifre: + 165%. Alla fine del 2012 l’ammontare complessivo delle insolvenze ha superato i 95 miliardi di euro.

Queste tendenze, secondo l‘Ufficio studi della Cgia di Mestre, dimostrano che l’aumento dei protesti bancari ha concorso – assieme al calo del fatturato e al blocco dei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione – a mandare in rosso i conti correnti di numerosi imprenditori, non consentendo a molti di questi la possibilità di restituire nei tempi concordati i prestiti ottenuti dalle banche.

Amaro il commento del segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi: “Il disagio economico in cui versano le piccole imprese è noto a tutti, con risvolti molto preoccupanti soprattutto per i dipendenti di queste realtà aziendali che faticano, quando va bene, a ricevere lo stipendio con regolarità. Purtroppo, sono aumentate a vista d’occhio le aziende che da qualche mese stanno dilazionando il pagamento degli stipendi a causa della poca liquidità. Stimiamo che almeno una piccola impresa su due sia costretta a rateizzare le retribuzioni ai propri collaboratori“.

Federcomated: “Edilizia, il governo è il grande assente”

di Davide PASSONI

Federcomated è la Federazione Nazionale Commercianti Materiali da Costruzioni Edili. Una realtà non di secondo piano per chi lavora nel campo edile che, nel suo porsi a cavallo tra filiera produttiva e distributiva, ha una sorta di osservatorio privilegiato sull’intero settore e sulla crisi che lo sta mettendo in ginocchio. Ecco l’analisi lucida del suo presidente, Giuseppe Freri.

I numeri parlano da soli: la crisi del settore edile in Italia vale 72 Ilva. Perché c’è silenzio su questa strage? Condivide le analisi di Buzzetti?
Condivido il pensiero di Buzzetti e lo estendo a tutta la filiera delle costruzioni: dal progettista al costruttore, dal distributore all’utente finale. La situazione è molto difficile perché abbiamo zero investimenti nelle infrastrutture, zero nel nuovo, piccoli segnali per quanto riguarda il rinnovo e il restauro. Quando partecipo ai tavoli di Federcostruzioni sento tanta gente convinta che si debba fare qualcosa e anche noi, naturalmente, lo pensiamo. Tutti però parliamo da un anno senza aver trovato un’idea centrale per far muovere il governo.

Che non vi ascolta?
C’è stata e c’è poca sensibilità da parte del governo Monti verso il settore delle costruzioni. Vero, ci sono stati i bonus energia e ambiente, che vanno nella direzione giusta, ma sono una goccia nel mare nel contesto generale delle costruzioni. La situazione si sta aggravando indipendentemente dal caos politico di questi giorni: manca il “motore” di una politica con la P maiuscola.

E quindi anche voi soffrite?
Ne parlavo con il presidente di Confindustria Squinzi e con il presidente di Confcommercio Sangalli: anche se la situazione è drammatica, tanto sul fronte di chi non ha lavoro, quanto sul fronte delle imprese che hanno maestranze eccellenti che oggi non hanno nulla da fare, noi come distribuzione per 3 anni abbiamo retto e fatto fronte alla crisi.

Beh, meno male…
Soffriamo meno sotto l’aspetto dei volumi, ma molto sul fronte del credito: chi opera nella distribuzione ha difficoltà a riscuotere le fatture, se va bene ci riesce a 180 giorni. Soprtattutto chi lavora per il pubblico, che mette in difficoltà gli imporenditori che, alla lunga, sono costretti a portare i libri in tribunale.

Che cifre muove il settore dei materiali da costruzione, in Italia, “al netto” della crisi?
Sono circa 8mila punti vendita, con 70mila addetti e 20 miliardi di euro di fatturato annui.

Anche all’estero i vostri omologhi non sono messi benissimo…
Come Federcomated operiamo anche all’estero e vediamo che in altri Paesi, anche se duramente colpiti dalla crisi, la situazione non è come quella italiana: uno per tutti la Polonia, dove sono stato e dove sono rimasto impressionato dal fermento che c’è nel settore edile. L’Italia sconta l’assenza della politica, in 18 anni non c’è stata attenzione per dare infrastrutture vere al Paese, per cui chi produce i vari componenti – laterizi, sabbia, cemento, acciaio – è in forte difficoltà.

Com’è l’umore dei vostri associati?
Come Federcomated e Ascom territoriali posso dire che realizziamo molto, sia come lavori che come iniziative, ma che da parte dell’associato non sempre c’è la volontà di utilizzare gli strumenti che mettiamo a disposizione e questa è la mia amarezza. Dobbiamo lavorare molto, ma penso che ce la faremo. Credo che questa crisi porterà a una selezione in tutta la filiera, dalla quale usciranno i migliori, aspettando la ripresa per la metà del 2013. Lo dicono, speriamo…

Buzzetti: “L’edilizia non può e non deve essere destinata a morire”

di Davide PASSONI

Paolo Buzzetti, presidente di Ance, è una persona abituata a parlare chiaro: pane al pane, vino al vino. E in un momento come questo, nel quale l’edilizia soffre forse più di altri settori le mazzate della crisi, dire le cose come stanno serve a non nascondersi e aiuta a trovare soluzioni. Non ci credete? Leggete l’intervista che ha rilasciato a Infoiva: capirete molte cose…

I numeri parlano da soli: la crisi del settore edile in Italia vale 72 Ilva. Perché c’è silenzio su questa strage?
Quello che sta accadendo all’edilizia è drammatico: siamo di fronte a una vera e propria deindustrializzazione del settore, con un calo vertiginoso degli investimenti e della produzione, scesa ai livelli più bassi degli ultimi 40 anni. Tutto ciò si è tradotto, purtroppo, in 360 mila persone lasciate a casa, che diventano 550 mila se si considera tutta la filiera del settore. Cifre che lasciano senza fiato. Ma ha detto bene: questa perdita, paragonabile a 72 Ilva di Taranto, 450 Alcoa o 277 Termini Imerese, avviene nel silenzio generale perché si tratta di posti che sono andati via alla spicciolata, pochi alla volta, senza visibilità e clamore mediatico. Eppure l’emergenza sociale è fortissima, tocca le famiglie sia degli operai che degli impiegati e dei professionisti che lavoravano da anni nelle nostre imprese.

Come è potuto accadere che un settore anticiclico per eccellenza come il vostro sia diventato così pesantemente prociclico?
E’ vero, sono lontani i tempi in cui si poteva dire “quando l’edilizia va, tutto va”, quando, cioè, era evidente il ruolo di sostegno alla domanda prodotto dagli investimenti in costruzioni che, vale la pena ricordarlo, possono vantare il maggior effetto moltiplicativo sull’intera economia rispetto a qualsiasi altro settore. Ora non è più così, perché invece di immettere liquidità nel sistema delle costruzioni ed osservare l’effetto positivo sul reddito si è preferito togliere le risorse al settore, ad esempio ritardando i pagamenti alle imprese, dimezzando le risorse per nuove infrastrutture o, infine, favorendo il credit crunch praticato dalle banche nei confronti delle imprese e delle famiglie italiane.

Non è un caso che nel 2012 si siano dimezzate le richieste di mutui per la casa: che cosa pensa di questo crollo?
Indubbiamente, soprattutto nell’ultimo anno, si è verificato un forte ridimensionamento delle compravendite, ma non si tratta di un problema di domanda. Il fabbisogno di casa in Italia è ancora forte, pari a circa 600 mila unità se mettiamo a confronto il numero di abitazioni costruite e quello di nuovi nuclei familiari. Quello che si è inceppato è, invece, soprattutto il circuito del credito, che rende estremamente difficile alle famiglie accedere ai finanziamenti per la casa. Per questo motivo i mutui erogati si sono quasi dimezzati e, tra inasprimento del carico fiscale derivante dall’Imu e forte incertezza legata alla crisi economica, la casa, bene primario per gli italiani, rischia di apparire come un lusso. Ma le soluzioni esistono. Noi, come Ance, abbiamo avanzato una proposta concreta, un “piano salva-casa” che si rifà all’esperienza virtuosa delle cartelle fondiarie del dopoguerra,  con le quali sono stati compiuti i maggiori investimenti immobiliari del nostro Paese.

Banche, pubblica amministrazione, politica, burocrazia: chi ha più colpe in tutto questo? Ci siamo dimenticati di qualcuno?
La colpa è di tutti e di nessuno. In realtà la crisi non solo ha colpito duramente tutto il funzionamento del sistema economico, ma ha reso ancora più evidenti lentezze e difficoltà della nostra macchina Paese. In particolare la burocrazia opprimente, che dilata e rende inaccettabili i tempi di realizzazione delle opere, ostacolando l’attività degli imprenditori corretti che si trovano ad operare tra mille difficoltà e soffocati da una giungla di norme spesso ridondanti e contraddittorie.

Trovare colpevoli non basta, bisogna trovare soluzioni: che cosa serve per uscire dalla palude?
Per prima cosa ridare fiato alle imprese e restituire alle famiglie serenità e fiducia nel futuro. Come Ance abbiamo individuato una serie di proposte concrete con le quali vogliamo contribuire alla ripresa dell’economia e all’avvio di una crescita duratura. Innanzitutto crediamo  che sia necessario mettere mano a un piano di messa in sicurezza del territorio, che significa anche e soprattutto adeguare il patrimonio edilizio esistente, a partire da scuole e ospedali. Fondamentale, in questo momento così difficile, è anche dare concretezza al Piano città, che l’Ance ha proposto e che ha trovato corpo nel primo decreto sviluppo. Non ultimi i pagamenti dovuti alle imprese da parte della p.a. Se guardiamo fuori dall’Italia ci accorgiamo che i nostri partner europei, come Francia e Germania, ad esempio, stanno già sperimentando con successo politiche e incentivi mirati per la crescita degli investimenti in costruzioni, soprattutto nel mercato residenziale e della riqualificazione urbana.

Un messaggio di speranza – se le riesce… – per i suoi associati in vista dell’anno nuovo.
Continuare a credere con forza e dignità nel proprio lavoro, non arrendersi. L’edilizia non può e non deve essere destinata a morire perché è stata per anni la benzina che ha fatto muovere l’economia del Paese e oggi può fare ancora tanto, non solo per contribuire alla  ripresa, ma anche per dare risposte concrete ai più importanti bisogni dei cittadini: casa, sicurezza delle scuole e del territorio, città più efficienti e vivibili.

Nate per costruire, destinate a crollare? Dentro la crisi delle imprese edili

di Davide PASSONI

L’Ance è l’Associazione nazionale costruttori edili e il suo presidente, l’ingegner Paolo Buzzetti, non è certo uno che le manda a dire. Sarà che quando si ha a che fare con putrelle, calcestruzzo, casseformi e mattoni, tempo per filosofeggiare non c’è; sarà che è sempre meglio dire pane al pane e vino al vino (anche se in Italia, spesso, questa onestà non paga), fatto sta che all’ultima assemblea Ance Buzzetti è stato chiaro: o si cambia rotta, o il settore delle imprese edili muore.

La crisi ha infatti reso un settore che era anticiclico per eccellenza, quello delle costruzioni, un settore prociclico al pari degli altri: crollo degli investimenti, cantieri fermi, aziende chiuse ed emorragia di posti di lavoro: 550mila in 6 anni. Una strage frutto tanto di crisi del mercato, quanto di una politica miope in materia di opere pubbliche quanto, ancora, di una drammatica assenza di liquidità che induce pubblico e privato a rinviare gli investimenti. A quando? Non si sa… Ma intanto se colossi come Ilva, Alcoa, Alitalia vacillano, dal palazzo arrivano subito leggi, interventi, liquidità. Senza nulla togliere al dramma della disoccupazione, che non ha razza, né colore, né diverso valore se l’impresa che chiude è piccola o grande, ci chiediamo: perché?

Intanto le imprese edili chiudono a centinaia. E, come ben sanno i lettori di Infoiva, si tratta per lo più di imprese piccole, familiari, artigiane, spesso tramandate di padre in figlio, sopravvissute alle peggiori crisi e messe in ginocchio da quella attuale. O ancora, si tratta di imprese messe in piedi da stranieri con esperienza, buona volontà e capitali, che in un batter d’occhio si sono viste mangiare il sogno di una vita nuova e di un riscatto sociale in un Paese che, tra tanti difetti, fa dell’accoglienza uno dei maggiori pregi.

Proprio per questi motivi Infoiva vuole dedicare alla filiera dell’edilizia in Italia il proprio focus settimanale. Perché un settore così non può e non deve morire; perché chi ha in mano le leve giuste per farlo ripartire (vero governo? vero banche?) le metta finalmente in moto; purtroppo, se la ripresa ci sarà, non potrà riparare i danni fatti dalla crisi alla stessa velocità con cui quest’ultima li ha causati: meglio però una terapia di lunga durata che alla fine rimette in piedi il paziente, piuttosto che un accanimento terapeutico che porta solo a staccare la spina al malato. E, con esso, al Paese.

Banca e impresa, prove di dialogo online

di Davide PASSONI

Da qualche settimana a questa parte, Bnl spinge la comunicazione pubblicitaria sulla propria iniziativa Mestiere Impresa. Radio, tv, internet, affissioni, con messaggi nei quali passano le storie di piccoli imprenditori “veri” che raccontano di come hanno potuto sviluppare il proprio business grazie al supporto della banca. Niente da dire, gli spot sono ben fatti e i 6 video che raccontano altrettante storie d’impresa, ancora meglio: nulla di strano se alle spalle ci sono Tbwa\Italia e Shootin’Gun. Però… Però la voglia di capirne di più ci è venuta; del resto, tutti i giorni noi di Infoiva scriviamo d’impresa, parliamo con gli imprenditori e sappiamo quanto, in questo momento, per molti di loro i rapporti con le banche siano tutt’altro che rilassati… Possibile che per Bnl e le sue imprese clienti sia tutto rose e fiori? Che strategie commerciali ci sono dietro all’iniziativa? Insomma, viva le storie d’impresa ma, alla fine… Bnl che cosa vuole venderti?

Nulla. Siamo noi che, come al solito, pensiamo male, pare. Dall’ufficio stampa di Bnl precisano subito che Mestiere Impresa nasce come una “piattaforma” realizzata per aprire un canale di sostegno e di relazione con l’impresa: quello che la banca fa normalmente, ci dicono. Il passaggio in più è la creazione di una via di comunicazione strutturata, nella quale alcuni esperti (per ora interni a Bnl, poi anche esterni) possono rispondere alle domande che l’imprenditore pone attraverso la rete. Domande molto pratiche, di business, per le quali ci si aspettano risposte pratiche, di business. Il fine di Mestiere Impresa non è vendere un prodotto ma aprire un canale privilegiato di ascolto, comunicazione e confronto tra banca e impresa. Anche verso aziende non clienti di Bnl nonostante, per ovvi motivi, i protagonisti dei video siano clienti dell’istituto.

Delusi? No, stupiti. Perché, come detto, quando si parla di rapporto banche-imprese siamo portati a pensare male e l’uscita di Mestiere Impresa, in un momento delicato come l’attuale, ci sembrava un’operazione “simpatia” messa in campo da un grosso istituto di credito per reagire a un clima di diffidenza e sfiducia che caratterizza le banche agli occhi delle aziende. Del resto, sono molti gli istituti di credito che hanno delle business unit dedicate specificamente alle piccole imprese con a portafoglio prodotti finanziari ad hoc, salvo poi applicare delle condizioni molto pesanti, quando non proibitive, per l’accesso al credito. E invece no, da Bnl ci invitano a mettere da parte la malizia e a pensare a Mestiere Impresa solo come a “un luogo virtuale, ma con l’obiettivo reale e concreto di offrire agli imprenditori informazioni ed aggiornamenti, appuntamenti di loro interesse e tutto quello che può essere utile per renderli sempre più consapevoli anche per affrontare le sfide che il mercato italiano e quelli internazionali presentano loro quotidianamente“. Già la qualità dei video (non certo realizzabili in pochi giorni) fa capire che il progetto era in gestazione da tempo.

Bene, tutto molto chiaro. Ma, a fronte di 6 storie “a lieto fine”, quanti saranno gli imprenditori che con la banca hanno avuto problemi più o meno grandi e si sentiranno in dovere di dire la loro, sul sito o nei forum, contestando la linea editoriale di Mestiere Impresa? Accontentare tutti è impossibile, nella vita come nell’impresa. Un consiglio amichevole a Bnl; si attivi in maniera seria anche su questo fronte, come ha fatto con profitto su quello della promozione dell’iniziativa: un solo feedback negativo può fare più danni di quanti benefici possano portare 50 video con storie positive. Visto l’investimento in termini di creatività e, pensiamo, in termini finanziari, sarebbe un peccato per la banca, se succedesse.

Veneto, vivere con la crisi tra suicidi e sportelli

di Davide PASSONI

Il Veneto in prima linea contro la crisi. Visto che la regione è la non invidiata capofila dei suicidi da parte di imprenditori, istituzioni, imprese e associazioni non stanno a guardare e cercano di porre un argine almeno per il primo soccorso delle imprese in difficoltà.

Dopo lo sportello aperto dalla Confartigianato di Asolo-Montebelluna su iniziativa del suo presidente Stefano Zanatta, ora tocca alla Regione Veneto varare un numero verde per le imprese che vogliono sfruttare le opportunità del piano regionale legato al cosiddetto Fondo “anti suicidi”: 800-177750. Il piano anti crisi messo a punto dalla Regione prevede infatti finanziamenti agevolati da 25mila a 500mila euro per le aziende in crisi di liquidità che hanno crediti insoluti. Un fondo che però, a detta dell’assessore allo Sviluppo economico Marialuisa Coppola, sta trovando da parte delle banche un appoggio troppo timido, se non una vera e propria ostilità: “La Regione – ha dichiarato – ha attuato uno sforzo che tutti hanno compreso e apprezzato, ma non ho avuto la sensazione di sostegno condiviso da parte degli istituti bancari e dai confidi. Forse giochiamo una partita diversa, ma qui non c’è chi vince e chi perde: perde il Veneto“.

E dire che l’accoglienza freddina è arrivata proprio da quegli istituti che siedono nella finanziaria regionale, mica da dei marziani. Gente, insomma, che le realtà e le problematiche del territorio, specialmente quelle produttive, le dovrebbe avere presenti eccome. E invece nisba. Vero che in questo periodo di vacche magre le banche fanno la parte di quelle che non possono, più che non vogliono, ma è anche vero che nelle ultime settimane la Bce è stata tutt’altro che tirchia nei loro confronti, vendendo denaro a tassi scandalosamente bassi per fare in modo che questo denaro finisse in circolo a dare fiato a imprese e famiglie. Dove è finito allora, se le banche dicono di non averne? Intanto la gente continua ad appendersi alle travi e le tasse continuano a salire, sia per le famiglie che per le imprese.

Per fortuna, però, le banche venete non sono del tutto sorde ai campanelli di allarme. Banca Antonveneta e Confindustria Padova hanno infatti firmato un accordo che offre alle imprese associate la possibilità di cedere alla banca, anche a titolo definitivo, i crediti certificati verso la PA, in modo da acquisire subito liquidità. Una iniziativa che nella direzione di alcune analoghe già assunte in altri Paesi europei e che dovrebbe (almeno, in un mondo perfetto…) ispirare idee analoghe anche al nostro governo. In più, Antonveneta ha stanziato un plafond di 50 milioni da utilizzare anche per sostenere piani di ristrutturazione finanziaria e di capitalizzazione aziendale, coprire nuovi investimenti e sostenere l’export. Una goccia nel mare, ma da qualche parte bisogna pur cominciare…

http://www.infoiva.com/2012/03/morire-dimpresa-noi-non-ci-stiamo.html