Avvocato matrimonialista – Un codice etico ?

Di Matteo Santini (Foro di Roma: http://www.studiolegalesantini.com)

Negli ultimi tempi si assiste ad un fervido dibattito tra gli operatori del settore in ordine all’opportunità di introdurre un codice etico o deontologico specifico per gli avvocati matrimonialisti intendendosi per tali gli avvocati che esercitano la loro attività in via prevalente nel settore del diritto della famiglia e dei minori.

L’esigenza è dettata in primis dalla peculiarità e dalla delicatezza delle questioni che riguardano i diritti dei minori, condizione questa che impone all’avvocato di porre in essere una serie di comportamenti e di cautele volte a salvaguardare l’equilibrio psico-fisico dei minori evitando, per quanto possibile, che questi siano sottoposti a traumi derivanti dalla conflittualità genitoriale.

Questo tipo di approccio impone all’avvocato l’acquisizione di una serie di conoscenze che non sono solo di natura giuridica ma che coinvolgono anche i campi della psicologia, delle pedagogia e della mediazione familiare.

Ciò non vuol dire che l’ avvocato matrimonialista debba sostituirsi allo psicologo; significa, invece, avere quelle competenze che lo portano ad individuare le criticità del caso specifico e a suggerire al proprio assistito di intraprendere tutti quei percorsi che possono apparire utili per superare gli aspetti più conflittuali della crisi familiare e per la salvaguardia dell’interesse del minore, valore quest’ultimo da considerarsi come preminente ed essenziale ed intorno al quale è costruita l’intera struttura del diritto di famiglia europeo.

Nella ricerca di un punto di equilibrio volto a salvaguardare i diritti delle parti coinvolte nel conflitto si realizza compiutamente quella che a giudizio dello scrivente è la funzione più nobile dell’avvocato ossia la funzione sociale.

L’Articolo 56 del nuovo Codice Deontologico Forense in tema di Ascolto del minore sancisce che: “L’avvocato non può procedere all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, sempre che non sussista conflitto di interessi con gli stessi.
L’avvocato del genitore, nelle controversie in materia familiare o minorile, deve astenersi da ogni forma di colloquio e contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle stesse.
L’avvocato difensore nel procedimento penale, per conferire con persona minore, assumere informazioni dalla stessa o richiederle dichiarazioni scritte, deve invitare formalmente gli esercenti la responsabilità genitoriale, con indicazione della facoltà di intervenire all’atto, fatto salvo l’obbligo della presenza dell’esperto nei casi previsti dalla legge e in ogni caso in cui il minore sia persona offesa dal reato.
La violazione dei doveri e divieti di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno”.

L’articolo 56 introduce il tema essenziale dell’ascolto del minore da parte degli avvocati. Appare evidente quanto possa essere pericoloso e dannoso per l’equilibrio del minore un colloquio intrattenuto con l’avvocato di uno dei genitori parti del conflitto; le domande suggestive rivolte dal legale rischiano di diventare un tentativo per avvalorare la tesi difensiva del proprio assistito arrivando, nei casi più gravi, a suggerire al minore i contenuti di eventuali risposte che il minore dovrà fornire all’organo giudicante in sede di audizione. In questi casi invece di cercare di preservare la serenità del minore e di tenerlo, per quanto possibile, al di fuori dalle dinamiche conflittuali dei genitori lo si catapulta all’interno di una realtà spesso drammatica rendendolo vittima impotente dell’immaturità degli adulti o arbitro delle liti tra i propri genitori. Tali esecrabili comportamenti hanno dato luogo, nel corso degli ultimi anni, ad una serie di provvedimenti sanzionatori particolarmente severi da parte dei singoli consigli dell’ordine (provvedimenti poi confermati in sede di appello dinnanzi al Consiglio Nazionale Forense).

Diversamente, quando l’avvocato è nominato curatore speciale del minore (ex art.78 c.p.c.), e lo difende sede contenziosa (art.86 c.p.c.), o lo assiste in sede negoziale e contrattuale (art.320 c.c. u.c.) dovrà necessariamente procedere all’ascolto del minore, se non contrario all’interesse di quest’ultimo, non essendo in tali ipotesi necessario il consenso dell’esercente la responsabilità genitoriale che versi in conflitto di interessi (situazione la cui presenza dà luogo e giustifica il ricorso a quelle figure “esterne”).

In relazione alle modalità di ascolto del minore, soprattutto con riferimento all’eventuale presenza di un esperto, sarà lo stesso avvocato a decidere (specie in relazione all’età e alla capacità di discernimento) se procedere direttamente all’ascolto o se avvalersi dell’ausilio di un tecnico esperto in psicologia.

Il 3 comma dell’articolo 56 disciplina anche le ipotesi in cui, nell’ambito di un procedimento penale, il soggetto minore, imputato, parte offesa o testimone, debba essere ascoltato o assunto come informatore, anche mediante il rilascio di dichiarazioni scritte, dall’avvocato: quest’ultimo, in tali casi, deve invitare formalmente gli esercenti la responsabilità genitoriale, con indicazione della facoltà di intervenire all’atto e fatto salvo l’obbligo della presenza dell’esperto nei casi previsti dalla legge ed in ogni caso in cui il minore sia persona offesa dal reato.

A giudizio dello scrivente in capo ad un avvocato matrimonialista sussiste altresì un dovere etico di ridurre al minimo il contenzioso tra le parti. Ciò significa non solo evitare di aggravare la posizione della controparte attraverso azioni plurime o strumentali ma anche consigliare, ove possibile, al proprio assistito di ricorre a strumenti alternativi al giudizio contenzioso quali la mediazione familiare o il diritto collaborativo (tale principio è in parte anche divenuto “obbligo giuridico” nell’ambito della legge 162/2014 sulla c.d. “negoziazione assistita”).

Commetterebbe un illecito deontologico anche l’avvocato che accetti incarichi ove il proprio assistito sia mosso da chiari propositi di ritorsione nei confronti della controparte o che agisca penalmente senza avere acquisito ragionevoli elementi sulla responsabilità della controparte.

Accade, infatti, in taluni casi, che l’avvocato poco esperto rischi di divenire uno strumento nelle mani del cliente (c.d. braccio armato) perdendo così il connotato essenziale affinchè il legale possa esercitare serenamente ed in modo proficuo il proprio patrocinio ovvero l’indipendenza.

Possa trattarsi di mala fede o di semplice incompetenza del legale le conseguenze derivanti dall’intraprendere azioni di natura penale nei confronti della controparte sono spesso irrimediabili e precludono, specie nei casi in cui si presenta querela per reati per cui non ammessa la remissione di querela (abusi sessuali, maltrattamenti in famiglia) la possibilità di una composizione bonaria della questione.

Esistono poi una serie di obblighi specifici in capo all’ avvocato matrimonialista che si ricavano dalle norme codicistiche e che impongono agli avvocati, pur nel rispetto del loro ruolo di difensori delle parti, di non agire o non produrre atti finalizzati all’elusione di norme imperative o principi inderogabili. Ad esempio sarà passibile di sanzione disciplinare l’avvocato che assecondi le richieste del cliente di eludere le norme sull’affidamento condiviso dei minori o obbligazioni economiche in favore del coniuge più debole economicamente e/o dei figli (in tal caso le sanzioni sono anche di natura civile stabilendo espressamente l’articolo 155 bis del codice civile che se una domanda di affidamento esclusivo è palesemente infondata , il giudice può considerare il comportamento dell’istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli ferma restando l’eventuale applicazione dell’articolo 96 del codice di procedura civile sulla responsabilità aggravata).

Alcuni comportamenti espongono l’avvocato a sanzioni non solo di tipo disciplinare ma anche di natura penale. In alcuni casi giunti all’attenzione dell’organo disciplinare forense il difensore aveva prodotto in giudizio corrispondenza riservata della controparte (sia essa postale, telematica o telefonica), illecitamente acquisita con ciò violando anche norme di natura penale.

Esiste infine il delicato tema del rapporto tra avvocato familiarista e consulente tecnico di parte e di ufficio. Tali questioni impongono la conoscenza non solo delle norme codicistiche in materia di CTU ma anche di tutte le prassi adottate nei vari tribunali per l’espletamento della consulenza di ufficio; prassi che sono spesso il frutto di protocolli di intesa tra il tribunale ed il consiglio dell’ordine degli avvocati.

L’esigenza di introdurre un codice deontologico per gli avvocati matrimonialisti è particolarmente sentita in virtù proprio della delicatezza dei temi trattati. E’ però evidente che l’introduzione di un codice deontologico potrebbe avvenire solo per mezzo di una legge dello Stato. Attualmente esistono delle linee guida dettate da associazioni di settore; principi che hanno efficacia vincolante solo per gli iscritti a tali associazioni ma che, allo stesso tempo, possono essere particolarmente utili in quanto rappresentano delle prassi virtuose dalle quali prendere spunto.

Ritengo però che, nella formazione di un “buon” avvocato matrimonialista gli elementi imprescindibili debbano sempre essere l’aggiornamento continuo, l’esperienza processuale e una particolare sensibilità in ordine alle problematiche che riguardano i soggetti deboli; sensibilità che non si impara sui libri o nelle accademie ma che è il frutto del nostro percorso di vita, degli insegnamenti e dell’educazione ricevuta nel corso di un vita intera.

L’Avvocato e il web: un sito internet per farsi pubblicità

Ancora una testimonianza raccolta dai professionisti che hanno fatto del web il vero punto di forza del proprio business. Avvocati, Commercialisti, Consulenti che, sfruttando al meglio le opportunità che internet può offrire, hanno aumentato la loro notorietà e migliorato il proprio giro d’affari. Queste testimonianze senz’altro potranno essere utili ai tanti professionisti che non hanno ancora un sito internet personale e stanno decidendo se realizzarlo.

Provando magari a utilizzare LAMIAIMPRESAONLINE.IT di Google, un servizio dedicato a professionisti e piccole imprese che consente di creare un sito dalla A alla Z, chiavi in mano e gratis.

Dopo l’esperienza dello studio legale Iozzo e il suo sito sui ricorsi avverso sanzioni amministrative, e dopo il dott. Giulio Ardenghi, business coach professionista, che affianca imprenditori, manager e professionisti per aiutarli a raggiungere i loro obiettivi professionali e personali in modo misurabile e duraturo, incontriamo oggi un altro amico di Infoiva, l’Avvocato Matteo Santini, titolare dell’omonimo studio legale in Roma e Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori.

L’Avvocato Santini è presente da anni online con il sito internet del proprio studio e da qualche tempo ha aperto anche una sezione dedicata alle consulenze online.

Quanto e in che modo l’ha aiutata nel suo business l’avere un sito internet professionale?
Avere un sito internet mi ha aiutato molto. Soprattutto quando agli inizi della mia attività professionale circa dieci anni fa.

Perché ha deciso di avere una presenza online?
Ho deciso di avere un mio sito internet perché è l’unico modo attraverso il quale un avvocato può farsi pubblicità (articolo 17 bis codice deontologico).

Che cosa è cambiato nel suo rapporto con i clienti da quando ha una presenza online?
C’è senz’altro una maggiore trasparenza nei rapporti e una maggiore chiarezza su cosa fa il nostro studio e come operiamo. In qualche modo il nostro sito internet permette di evitarci perdite di tempo di clienti che si rivolgono a noi per materie che non trattiamo.

Come pensa di sviluppare il suo sito in futuro?
Abbiamo degli ottimi collaboratori che si occupano del nostro sito internet, quindi probabilmente lanceremo dei nuovi servizi e delle nuove aree.

Se nel corso delle ultime settimane, dopo aver letto gli articoli e le testimonianze della nostra rubrica web marketing per tutti, anche tu hai deciso di aprire un sito internet per la tua attività, e magari lo hai fatto grazie al servizio LAMIAIMPRESAONLINE.IT offerto da Google, raccontaci la tua esperienza scrivendoci alla casella di posta: webmarketing[at]infoiva.com . La tua esperienza potrà essere da stimolo ad altri lettori e magari avrai un’occasione in più per far conoscere il tuo sito. J

Il partitivista dal punto di vista del diritto: professionista di nome, dipendente di fatto

Secondo l’Agenzia delle Entrate, a fine marzo 2010, in Italia, risultavano aperte circa 10 milioni di Partite IVA, la stragrande maggioranza delle quali non faceva capo a società o imprese, ma a figure professionali autonome: un numero sicuramente impressionante, indice sì di vitalità del mercato del lavoro, ma anche dell’instabilità del medesimo.

Il fenomeno del boom delle partite Iva inizia negli Anni ’80, quando comincia la cosiddetta “ristrutturazione terzistica” dell’economia italiana: l’apertura della partita IVA, difatti, diviene lo strumento per divenire imprenditori di se stessi, è sufficientemente agile e snello e non richiede titoli di studio o eccessiva burocrazia.

In tutti questi anni, il popolo delle partite IVA è costantemente cresciuto, ma non ha mai avuto modo di organizzarsi con il solo risultato che, specialmente nel caso di giovani professionisti, vi sia esclusivamente una legislazione fiscale e non una di tutela. La partita IVA, infatti, solo in linea teorica consente di esercitare una professione in modo libero, autonomo ed indipendente, ma, in realtà, è più spesso lo uno degli strumenti, che il giovane avvocato, commercialista, architetto, o il professionista in generale è costretto ad utilizzare pur di entrare a far  parte del mondo del lavoro.

Negli ultimi anni, difatti, si è sviluppata la prassi di utilizzare la partita Iva come strumento per flessibilizzare il mercato del lavoro: invece di assumere un dipendente che lavora part time o addirittura full time, gli si suggerisce di aprire la sua partita Iva; ma, lo strumento in parola gli garantisce al massimo e nel migliore dei casi un lavoro, ma non la tutela che da esso dovrebbe derivare.

E’ indicativo il fatto che molti avvocati e commercialisti chiedano, declassandosi, un posto da impiegato o cerchino comunque carriere alternative. La partita IVA non garantisce una sicurezza, non dà, ovviamente, diritto a ferie né malattie e neppure, almeno per ciò che concerne i giovani professionisti, a quel miraggio di libertà, autonomia ed indipendenza che è stato il motivo per cui si è scelta una professione.

Le statistiche dicono come oltre i due terzi di questi “lavoratori” oscilla tra i 30 e i 40 anni d’età ed un livello alto di istruzione e di professionalità. A ciò occorre aggiungere come non esistendo praticamente barriere di entrata, la concorrenza sia pressocchè incontrollata e sarebbe necessario riformare l’intero modello favorendo gli accorpamenti, prevedendo una legislazione ad hoc e limitando altresì, la cifra spropositata che sfiora i summenzionati 10 milioni.

L’introduzione del c.d. “forfettone” per i redditi sotto i 30mila euro e la possibilità di dividere il reddito tra moglie e marito ha aiutato questo giovane popolo in termini di fisco leggero, ma sono mezzi “placebo” che non accontentano né tutelano se non in minima parte.

Questa la realtà lavorativa per la stragrande maggioranza dei titolari di partite Iva in Italia. Nel 60% dei casi hanno un solo committente e lavorano in sede con ritmi e orari pressoché identici a quelli di un dipendente. Mediamente guadagnano mille euro al mese e restano a lungo nella famiglia d’origine. Professionisti di nome, quindi, ma dipendenti di fatto.

L’esistenza di tali figure professionali “ibride”, genera un ulteriore problema; e cioè il ricorso indiscriminato (a volte giustificato a volte no) alla Giustizia civile (ed in particolare al Tribunale del Lavoro), nella speranza, da parte del “lavoratore” / collaboratore ricorrente, che il Giudice voglia qualificare, di fatto, il rapporto come di lavoro dipendente, nonostante esso sia mascherato da “lavoro autonomo”. La circostanza di essere titolare di partita IVA non è infatti elemento risolutivo per conferire al soggetto titolare, la posizione di lavoratore autonomo, se poi nella realtà dei fatti, il rapporto si manifesta secondo i canoni tipici della subordinazione o della parasubordinazione, quali possono essere l’assoggettamento al potere gerarchico del “datore” di lavoro, il rispetto di orari prestabiliti di entrata e di uscita, ecc…

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.

Gli aspetti sostanziali della Pensione di reversibilità: natura e requisiti

La reversibilità viene definita come quella erogazione in denaro, da parte dell’istituto previdenziale, che al momento del decesso del pensionato (ex lavoratore dipendente), è attribuita ad alcuni soggetti, facenti parti della famiglia, ed in particolare il coniuge, i figli e, in specifiche ipotesi, anche ad altri partenti quali i nipoti, i genitori, i fratelli e le sorelle.

Le legge 898/1970 (articolo 9) sancisce che “in caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”.

Si evince da tale disposto che, il coniuge divorziato beneficia del diritto alla pensione di reversibilità, dell’ex coniuge defunto. Ciò avviene però, solo nel caso in cui sussistano i seguenti requisiti: il primo di essi è che il coniuge superstite, fosse già titolare dell’assegno divorzile. In virtù della natura assistenziale dell’assegno divorzile e del principio in base al quale, il vincolo di solidarietà non viene meno successivamente alla cessione del rapporto di coniugio, una quota della pensione del coniuge deceduto, dovrà servire a garantire al coniuge superstite, la possibilità di beneficiare di un importo in denaro che gli consenta di condurre una esistenza dignitosa.

Come stabilito in sentenza n. 7 del 2005 della Corte dei Conti, il diritto alla corresponsione della pensione di reversibilità, sorge semplicemente in virtù del fatto che la sentenza di divorzio abbia sancito il diritto a beneficiare dell’assegno divorzile, anche se effettivamente e concretamente, l’importo disposto non sia mai stato corrisposto dall’obbligato.

Il trattamento pensionistico di reversibilità trova il suo fondamento e la sua essenza nella solidarietà dovuta tra persone in precedenza legate da matrimonio, solidarietà che continua a spiegare i suoi effetti anche dopo la cessazione del vincolo e a prescindere dai motivi della rottura del rapporto coniugale. In tal senso, la pensione di reversibilità, spetta anche al coniuge superstite separato per sua colpa. La Corte Costituzionale ha infatti stabilito (in sentenza n. 15516/2003) che, il coniuge separato per colpa, o al quale la separazione sia stata addebitata, è equiparato, in tutto e per tutto, al coniuge superstite, separato e non, ai fini della pensione di reversibilità, atteso che opera in suo favore la presunzione legale di vivenza a carico del lavoratore al momento della morte, ed indipendentemente dalla circostanza che versi o meno in stato di bisogno o sia beneficiario di un assegno di mantenimento o altra provvidenza di tipo alimentare.

Ulteriore requisito richiesto affinchè possa sorgere il diritto a beneficiare della pensione di reversibilità, è rappresentato dal fatto che il coniuge superstite non si sia nel frattempo risposato e ciò in quanto, con le nuove nozze, il dovere di solidarietà morale ed economica passa in capo al nuovo coniuge.

L’ultimo requisito richiesto, è che il rapporto di lavoro da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio. Comprendiamo in pieno il motivo di tale assunto, in quanto sarebbe iniquo che l’ex coniuge possa beneficiare di utilità e di attività che il de cuius ha generato dopo il divorzio ed in riferimento alla costituzione delle quali, il coniuge superstite non ha minimamente contribuito.

Cosa accade se al momento del decesso, il soggetto aveva contratto un nuovo matrimonio ? Si verifica in questo caso un concorso nei diritti del coniuge superstite e dell’ex coniuge divorziato. L’articolo 9 della legge 898/1970 stabilisce che “qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’articolo 5″.
Pertanto sia il coniuge divorziato, sia il coniuge superstite, hanno diritto a percepire una quota della pensione di reversibilità. Al ricorrere di tale ipotesi di concorso, sarà necessaria una decisione del Tribunale (da adire mediante ricorso) che stabilisca le quote spettanti a ciascun coniuge.
I criteri per orientare l’organo giudicante nella decisione sono:
– Il criterio temporale: criterio che valuta la durata legale dei rispettivi matrimoni, per cui la quota di pensione spettante ai coniugi concorrenti si determinava in modo matematico in riferimento e proporzionalmente alla durata del matrimonio. Il criterio temporale è stato l’unico applicato dai giudici sino all’emanazione di una nota sentenza della Corte Costituzionale, (numero. 419/99) la quale ha sancito che “…. In presenza di più aventi diritto alla pensione di reversibilità (il coniuge superstite e l’ex coniuge), la ripartizione del suo ammontare tra di essi non può avvenire escludendo che si possa tenere conto, quale possibile correttivo, delle finalità e dei particolari requisiti che, in questo caso, sono alla base del diritto alla reversibilità. Ciò che, appunto, il criterio esclusivamente matematico della proporzione con la durata del rapporto matrimoniale non consente di fare. Difatti una volta attribuito rilievo, quale condizione per aver titolo alla pensione di reversibilità, alla titolarità dell’assegno, sarebbe incoerente e non risponderebbe al canone della ragionevolezza, né, per altro verso, alla duplice finalità solidaristica propria di tale trattamento pensionistico, la esclusione della possibilità di attribuire un qualsiasi rilievo alle ragioni di esso perché il tribunale ne possa tenere in qualche modo conto dovendo stabilire la ripartizione della pensione di reversibilità… La ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge deve essere disposta “tenendo conto” della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali (art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970). A questa espressione non può essere tuttavia attribuito un significato diverso da quello letterale: il giudice deve “tenere conto” dell’elemento temporale, la cui valutazione non può in nessun caso mancare; anzi a tale elemento può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo, ma non sino a divenire esclusivo nell’apprezzamento del giudice, la cui valutazione non si riduce ad un mero calcolo aritmetico ..… La diversa interpretazione, che porta alla ripartizione dell’ammontare della pensione esclusivamente in attuazione di una proporzione matematica, non giustificherebbe, tra l’altro, la scelta del legislatore di investire il tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo, potendo la ripartizione secondo quel criterio automatico essere effettuata direttamente dall’ente che eroga la pensione, come avviene in altri casi nei quali la ripartizione tra più soggetti che concorrono al trattamento di reversibilità è stabilita in base ad aliquote fissate direttamente dal legislatore”.
– La necessità di valutare, oltre all’elemento temporale, anche ulteriori elementi trova la propria ratio nella natura assistenzialistica e previdenzialistica insita nel trattamento di reversibilità e, di conseguenza, nel determinare la ripartizione della pensione di reversibilità, il giudice dovrà tener conto anche, a titolo esemplificativo, dell’ammontare dell’assegno divorzile e delle condizioni economiche dei soggetti interessati, onde ottenere complessivamente il risultato più equo possibile.

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.

Azioni, obbligazioni e strumenti di finanziamento delle società: un quadro esaustivo

Con il decreto legislativo n. 6 del 17 gennaio 2003 n. 6 sono stati disciplinati, tra le altre cose, gli strumenti diretti al finanziamento delle società di capitali.

Risulta quanto mai opportuno, individuare tutti gli strumenti leciti, che consentano alle imprese, di aumentare il patrimonio e ciò, non solo attraverso gli ordinari strumenti finanziari (come ad esempio tramite l’emissione di titoli azionari ed obbligazionari), ma anche ricorrendo ad altre forme che prevedano la possibilità di finanziare la società attraverso titoli non partecipativi che, quindi, non fanno acquisire al possessore la qualità di socio.
Si tratta di strumenti di reperimento delle risorse economiche utili all’attività d’impresa che, in molti casi vedono l’intervento diretto del socio. La legge prevede una forte tutela dei creditori sociali, tendendo a disincentivare l’abitudine a reperire finanziamenti dai propri soci, senza ricorrere alla forma del conferimento; e ciò nell’ottica di garantire, la reale ed effettiva consistenza del patrimonio. Affinché un socio possa finanziare la società, è necessaria l’iscrizione nel libro dei soci da almeno tre mesi, la partecipazione al capitale sociale pari ad almeno il 2% dell’ammontare del capitale nominale quale risultano dall’ultimo bilancio approvato nonché la previsione di tale possibilità nello statuto. Tali forme di finanziamento effettuate mediante versamenti, sono considerate infruttifere, salvo che venga inserita una specifica disposizione che stabilisce il contrario.

Ai sensi dell’articolo 2467 del codice civile, il rimborso di quanto finanziato dal socio è “postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori della società e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito.” Trattasi di norma inderogabile che, si applica anche, qualora nello statuto societario, venga stabilito diversamente. Tale disposizione introduce un’importante novità in materia, atteso che, in precedenza, i crediti vantati nei confronti della società erano considerato di pari grado rispetto a quello degli altri creditori. Lo stesso articolo 2467 prosegue, sancendo che “si intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”. Quindi, ogni finanziamento che sia stato posto in essere al di fuori dalle suddette condizioni è liberamente rimborsabile ai soci.

Lo strumento più utilizzato per finanziare una società di capitali rimane comunque il titolo azionario. Accanto alle azioni che hanno uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti, troviamo le azioni, cosiddette privilegiate, con priorità nella distribuzione degli utili, nella restituzione del capitale e che possono essere postergate in caso di perdite. Le azioni privilegiate (art. 2369 c.c. 5° comma), possono essere emesse esclusivamente a seguito di una delibera dell’assemblea straordinaria e con un quorum deliberativo superiore ad un terzo del capitale sociale (in prima o in seconda convocazione).

Possono altresì esservi altre categorie di azioni, con diritti “limitati”. Lo statuto societario, infatti, può prevedere azioni, prive del diritto di voto o con voto limitato a particolari materie oppure, con voto subordinato al verificarsi di determinate condizioni. I soci cui non è attribuito il diritto di voto e che, pertanto, non possono impugnare le delibere, hanno comunque titolo per ottenere il risarcimento del danno loro arrecato da un’eventuale delibera illegittima posta in essere dalla società.

Esistono poi azioni, le quali possono essere emesse a favore dei dipendenti della società.

La legge, prevede altresì la possibilità di emettere di azioni a favore di persone non legate alla società da alcun rapporto di subordinazione; ciò può avvenire sia mediante aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione, sia attraverso un’assegnazione gratuita di azioni agli amministratori, sia con una vendita di propri titoli azionari a società controllanti o controllate.

Le azioni di godimento, invece, sono particolari titoli azionari attribuiti ai possessori di azioni ordinarie quando, a seguito di una riduzione del capitale per eccedenza, ne sia stato interamente rimborsato il valore nominale. La loro disciplina non è stata toccata dalla legge del 2003 e, salvo diversa disposizione dello statuto sociale, sono prive del diritto di voto.

Vi possono poi essere azioni, le quali prevedono prestazioni accessorie, i cui possessori, oltre all’obbligo del conferimento, hanno l’obbligo di prestare alla società un’attività di tipo personale.

Altro mezzo, frequentemente utilizzato nella prassi per finanziare una società di capitali è il ricorso alla collocazione delle azioni di risparmio. La loro disciplina è contenuta nel Testo Unico della Finanza. Sono azioni, che non attribuiscono il diritto di voto, finalizzate soprattutto ai piccoli risparmiatori interessati al vantaggio economico rappresentato dalla distribuzione degli utili.

Altro strumento di finanziamento è rappresentato dalle obbligazioni. I titolari di obbligazioni hanno il diritto alla restituzione del capitale e alla riscossione degli interessi; secondo il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’articolo 2411 c.c.; tale diritto può essere, totalmente o parzialmente, subordinato alla piena soddisfazione dei diritti di altri creditori della società e la tempistica può variare in relazione alle condizioni economiche in cui si trova la medesima. La competenza ad emettere obbligazioni non convertibili – senza opzione sull’acquisto dell’azione – è attribuita agli amministratori, salvo che la legge o lo statuto non dispongano diversamente. L’emissione di obbligazioni convertibili, invece, rimane di competenza dell’assemblea straordinaria secondo quanto previsto dall’art. 2420 bis del codice civile.

Per ciò che riguarda i limiti quantitativi posti all’emissione di obbligazioni, per le società quotate in mercati regolamentati non è previsto alcun limite. Nei casi di società non quotate, alla società è consentita l’emissione solo per un ammontare che, complessivamente, non superi il doppio della somma del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili secondo l’ultimo bilancio approvato. Nel caso in cui tali titoli siano sottoscritti da investitori professionali oppure siano garantite da un’ipoteca, questo limite può essere superato, ma soltanto fino ai due terzi.

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.

Gli aspetti giuridici che legano la cessione d’azienda e il contratto di locazione

L’articolo 36 della Legge 392/78 (c.d. legge sull’equo canone) attribuisce al conduttore di un immobile commerciale la facoltà ed il diritto di cedere a terzi il contratto di locazione, anche nell’ipotesi in cui manchi il consenso del locatore; e ciò purché venga insieme ceduta o locata l’azienda.

Si tratta di un’accezione al principio stabilito dall’articolo 1594 del codice civile, che impedisce la cessione del contratto di locazione, in mancanza del consenso del locatore. Il legislatore, con tale deroga, ha inteso agevolare e facilitare il libero trasferimento delle aziende, assicurando così la continuazione delle attività commerciali.

La Corte di Cassazione Civile con sentenza n 4802 del 2000, ha addirittura sancito che, il conduttore possa cedere il contratto di locazione anche qualora nello stesso contratto, sia stata inserita una specifica clausola, indicante il divieto di cessione del contratto. Secondo parte della Giurisprudenza, ove l’azienda venga esercitata all’interno di un unico immobile condotto in locazione, in caso di cessione di azienda, il trasferimento del diritto al godimento dell’immobile, costituisce un effetto naturale, non essendo necessario a tal fine, sottoscrivere un separato contratto di cessione del contratto di locazione.

Diversamente dal suddetto orientamento, nella prassi si assiste, spesso, nel corso delle operazioni di cessione di azienda, alla stipula di un contratto di cessione di azienda e di un separato contratto di cessione del contratto di locazione. Tale modus operandi è supportato da parte della Giurisprudenza (Cass. Civ. 1133 del 2000 e Cass. Civ. 5137 del 2003), la quale ha stabilito che non si produce l’automatica successione del cessionario nel contratto di locazione dell’immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell’azienda, ma la successione è soltanto eventuale e richiede comunque la conclusione, tra cedente e cessionario dell’azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione. Quest’ultimo orientamento si fonda sulla dizione dell’art. 36 della legge 392/1978 il quale afferma che, il conduttore, ha la facoltà (“può”) di cedere il contratto e può quindi anche non avvalersene. Pertanto, la successione nel contratto di locazione non sarebbe automatica alla cessione / affitto dell’azienda, ma sarebbe solo un’eventualità, che richiede in ogni caso la stipula ad opera delle parti di apposito contratto di cessione del contratto di locazione.

Quando il complesso aziendale è costituito da diversi immobili, è opportuno, nel contratto di cessione / affitto di azienda, indicare in modo specifico gli specifici immobili che le parti intendono realmente cedere in godimento e che vengano contestualmente stipulati differenti contratti di cessione locazione per i singoli immobili. Sul collegamento temporale tra il contratto di cessione e affitto di azienda e la cessione del contratto di locazione, si ritiene ormai pacificamente che, non sia indispensabile che il contratto di affitto / cessione di azienda e la cessione del contratto di locazione siano stipulati contemporaneamente, essendo sufficiente che tra i due atti vi sia uno stretto collegamento funzionale e temporale.

Successivamente alla cessione del contratto di locazione è dovere del conduttore cedente, di comunicare l’avvenuta cessione del contratto di locazione al locatore. Pur non rappresentando un requisito di validità della cessione del contratto di locazione, la sua omissione ha come conseguenza (di non poca rilevanza), l’impossibilità per il conduttore di opporre al locatore ceduto, la cessione del contratto di locazione. Altro effetto dell’avvenuta comunicazione è il trasferimento della legittimazione passiva in capo al cessionario.

La comunicazione di avvenuta cessione, è un atto a forma libera, anche se si consiglia vivamente (soprattutto a fini probatori), di effettuare la suddetta comunicazione tramite lettera raccomandata A.R.. Una volta ricevuta la comunicazione di cessione, il locatore ceduto, si può opporre alla stessa entro trenta giorni. L’opposizione, è ammissibile unicamente per gravi motivi, intendendosi come tali esclusivamente quelli riguardanti ragioni di ordine economico o morale relative alla persona del cessionario.

In assenza di comunicazione di avvenuta cessione da parte del conduttore, l’eventuale conoscenza della cessione acquisita dal locatore ceduto in altro modo, non rende opponibile la cessione al locatore. Tale principio è stato stabilito dalla Giurisprudenza della Cassazione Civile, con sentenza n. 2675 del 1998.

In caso di mancanza di comunicazione di cessione, l’opponibilità della cessione, potrebbe discendere, a giudizio dello scrivente, esclusivamente nel caso di accettazione tacita o per fatti concludenti da parte del locatore contraente ceduto in quanto, si applicherebbe la regola generale sulla cessione del contratto prevista dall’articolo 1407 codice civile: “Se una parte ha consentito preventivamente che l’altra sostituisca a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, la sostituzione è efficace nei suoi confronti dal momento in cui le è stata notificata o in cui essa l’ha accettata“.

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Breve vademecum per muoversi nel mondo dei gruppi societari

All’interno del gruppo societario assistiamo ad un’attività di direzione o di coordinamento da parte di una prima società denominata “controllante” nei confronti di un’altra o di altre società, denominata/e “controllata/e”.

Per direzione intendiamo la capacità in astratto ed in concreto, da parte di una società, di influenzare l’operato di altra società; tale potere può essere esercitato attraverso la detenzione della maggioranza dei voti in assemblea.
Invece, quanto la controllante è in grado di esercitare un’influenza dominante, all’interno dell’assemblea della controllata, si parla di controllo e non di direzione; si configura la situazione di controllo anche in tutte quelle circostanze in cui, la società holding è in grado influenzare le decisioni della controllata, attraverso singoli accordi contrattuali con essa.

La società controllante e quella controllata, pur in presenza di una situazione di controllo o di direzione, restano, enti giuridicamente autonomi e distinti, sia sotto il profilo strutturale che sotto quello funzionale. Esse godono pertanto di autonomia patrimoniale, rispondendo ognuna con il proprio patrimonio, senza che via possa essere alcuna forma di responsabilità reciproca, di solidarietà o di confusione patrimoniale (con l’eccezione che, per quanto riguarda i crediti dei terzi o dei soci, i creditori della controllata sono liberi di agire contro la società madre nel caso in cui non siano stati soddisfatti preventivamente dalla società controllata. Risponde in solido con la capogruppo anche chi, con il suo comportamento, abbia preso parte all’evento che ha danneggiato il socio o il terzo).

Ove però, la controllante venga sottoposta ad amministrazione controllata, la legge contempla una disciplina unica applicabile a tutte le società del gruppo; in tal caso l’amministrazione controllata, può estendersi anche alle società controllate, che si trovino in condizioni di insolvenza, indipendentemente dal fatto che queste ultime possiedano i requisiti di legge per l’ammissione.

Ove una società decida di costituire una “partecipata“, sarà necessario che la nuova società, abbia quanto meno un socio esterno, al fine di evitare che alla neo-costituita venga applicata la disciplina prevista per le società uni-personali.

Anche sotto il profilo dei rapporti con i propri dipendenti le società del gruppo restano distinte, ed ogni società intrattiene apporti esclusivamente con i propri dipendenti. Gli obblighi della singola società datrice di lavoro, nei confronti dei dipendenti, non si estendono alla capogruppo o viceversa, ad eccezione del caso in cui non venga accertato in sede giudiziaria, che sono state poste in essere violazioni di legge, tese a fare apparire frazionato in distinti rapporti, un rapporto di lavoro sostanzialmente unico.

Da un punto di vista tributario e fiscale, il D.P.R. 602/73 (articolo 43 ter), statuisce che, si intendono controllate, quelle società le cui quote sono possedute da altre società per una percentuale superiore al 50 % del capitale sociale, fin dall’inizio del periodo di imposta precedente a quello cui si riferiscono i crediti di imposta ceduti. L’appartenenza al gruppo societario fiscale consentirà di compensare le obbligazioni fiscali tra le varie società del gruppo e di effettuare la compensazione ai fini IVA.

Pur nella distinzione ed autonomia patrimoniale sancita dalla legge, è evidente che le società di un gruppo, sotto un profilo funzionale, possano esercitare, di fatto, un’unica impresa, dando luogo, spesso, ad una coincidenza tra l’interesse comune del gruppo e l’interesse individuale delle singole società del gruppo.

La cooperazione tra le società del gruppo, si esplica anche in materia di accesso al credito; accade spesso, che le società controllate, specie se neo – costituiti o con un eseguo patrimonio, possano incontrare difficoltà nell’ottenere forme di finanziamento da parte di istituti di credito. Tale ostacolo viene ovviato ricorrendo alle cosiddette lettere di patronage, ossia delle richieste con dichiarazione di impegno e assunzione di responsabilità, attraverso cui, la holding si rivolge ad una banca per favorire la concessione di un finanziamento a beneficio della controllata. 

I rapporti tra società del gruppo si manifestano altresì, attraverso attività di scambio di merci, servizi e prestazioni reciproche, ricorrendo a prezzi e condizioni di vantaggio rispetto alle tariffe normalmente applicate nei confronti di interlocutori commerciali terzi.

L’articolo 2497 quinquies del codice civile, affronta uno spinoso problema che riguarda i rapporti contrattuali di tipo finanziario, tra le società del gruppo; si tratta dei cosiddetti “finanziamenti intra societari” che ricevono una disciplina specifica ove siano stati concessi in un momento in cui, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure una situazione finanziaria delle società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. Il rimborso dei finanziamenti tra società del gruppo è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e se, avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito.

In materia di adempimenti amministrativi, la società capogruppo ha l’obbligo di indicare nel bilancio i suoi rapporti con la controllata e di depositare una copia dell’ultimo bilancio della controllata nella sede sociale unitamente al bilancio della holding, nei 15 giorni che precedono l’assemblea convocata per la relativa approvazione e fino a quando il bilancio non venga approvato. D’atro canto, la società controllata è obbligata ad annotare nel proprio conto economico, nello stato patrimoniale e nella relazione sulla gestione, i suoi rapporti con la casa madre ed indicare negli atti e nella corrispondenza che la società è sottoposta a direzione da parte di altri soggetti (è prevista l’iscrizione presso il Registro delle Imprese in un’apposita sezione). Gli amministratori della controllata sono altresì tenuti ad indicare in apposita sezione della nota integrativa, un prospetto riepilogativo dei dati essenziali dell’ultimo bilancio delle holding e nella relazione sulla gestione, i rapporti intercorsi con la holding e l’effetto che l’attività della società madre ha avuto sull’esercizio dell’impresa sociale.

Sotto il profilo amministrativo e gestionale, la legge stabilisce che i membri dell’organo amministrativo, dell’organo di controllo o i dipendenti della controllata non possono rappresentare i soci della società madre nelle relative assemblee né possono esprimere il diritto di voto (art. 2372 comma 4 c.c.).

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Due Diligence, utile strumento per analizzare il valore e le condizioni di un’azienda

Da oggi Infoiva ospita sulle proprie pagine i contributi dell’Avv. Matteo Santini, responsabile dello Studio Legale Santini in Roma. L’Avv. Santini darà il suo prezioso contribuito aiutando i nostri lettori a muoversi nei campi del diritto societario, marchi, brevetti, diritto di autore, due diligence.

Il procedimento finalizzato ad analizzare il valore e le condizioni di un’azienda prende il nome di due diligence. Essa, indica un complesso di operazioni e attività che vengono espletate per ottenere una valutazione e un bilanciamento dei costi/benefici connessi a una transazione finanziaria/commerciale, avente a oggetto acquisizioni, cessione, fusioni o investimenti.

Attraverso questo complesso processo, che consiste in un’analisi dettagliata di tutte le informazioni relative all’impresa, con particolare riferimento alla struttura societaria ed organizzativa, all’attività svolta, al mercato d’interesse, alle strategie commerciali, alle procedure gestionali ed amministrative, ai dati economici, contabili, legali, commerciali, fiscali e finanziari e creditizi, è altresì possibile una valutazione dettagliata, di tutti i rischi connessi ad un eventuale fallimento dell’operazione.

La due diligence può avere ad oggetto la totalità dell’azienda ovvero un ramo di essa. La realizzazione dell’operazione per cui la due diligence viene effettuata, è subordinata all’adempimento di molteplici attività che garantiscono le parti in merito alla fattibilità e ai rischi dell’operazione de qua.

L’analisi, pertanto, deve innanzitutto concentrarsi sul reperimento delle informazioni che riguardano la tipologia della società oggetto del procedimento (società target), sulle principali attività da essa svolte, sulla composizione degli organi sociali e di quelli di controllo, sull’adempimento degli obblighi di pubblicità presso il registro delle imprese, sui beni mobili ed immobili di proprietà, sugli atti di provenienza di ciascun cespite, sulla presenza o meno di eventuali pesi, sul contenzioso attivo e passivo e sui contratti (in essere o risolti). In riferimento all’analisi dei contratti, è quanto mai necessario approfondire lo studio di quelli il cui valore sia particolarmente rilevante o la cui durata sia notevole.

Lo studio di questi elementi prende il nome di due diligence legale, la quale ha ad oggetto la verifica della legittimità dei singoli negozi e tende all’acquisizione di informazioni sulle obbligazioni assunte da e nei confronti della società oggetto di studio e sul loro adempimento.

Particolare attenzione deve essere dedicata ai rapporti di lavoro, presenti e pregressi e, a tal fine, è doveroso stilare un elenco nominativo dei prestatori di lavoro che deve contenere sì, i dati anagrafici, ma anche, e soprattutto, l’anzianità di servizio, il trattamento economico complessivo, il TFR maturato, la partecipazione a piani pensionistici, eventuali patti di non concorrenza ed eventuali coperture assicurative.

Particolare riguardo deve essere attribuito ai contratti individuali di quei dipendenti i quali occupano posizioni apicali all’interno della compagine aziendale ovvero di coloro che godono di una remunerazione rilevante, con uno sguardo attento anche al contenzioso giuslavoristico, non solo per ciò che concerne il singolo giudizio, ma anche e, soprattutto, in riferimento alla possibilità che la medesima azione possa essere esercitata in futuro da altri dipendenti.

Per i prestatori di lavoro, è altresì opportuno verificare che tutti gli adempimenti previsti dalla legge in tema di protezione dei dati personali, con particolare riguardo alla individuazione delle figure preposte al trattamento, all’informativa agli interessati e all’esistenza del Documento Programmatico sulla Sicurezza, siano stati rispettati.

Una completa due diligence non potrà prescindere dall’esame dei rapporti che la società target intrattiene con le banche e gli altri istituti di credito e finanziari, così come meritano di essere esaminati gli aspetti relativi alla proprietà intellettuale ed industriale ed alle eventuali licenze correlate. Per quanto riguarda i marchi e brevetti le analisi debbono essere indirizzate a verificare se il marchio utilizzato/depositato dalla società target sia stato o meno oggetto di riconoscimento da parte dei competenti Uffici (nazionali ed internazionali) e se vi siano pretese o opposizioni da parte di terzi, i quali rivendicano diritti di esclusiva o di uso.

E’ di primaria importanza che una due diligence sia caratterizzata da assoluta riservatezza anche nel caso in cui la stessa sia condotta da risorse esterne, quali studi legali e commerciali.
L’assistenza da parte di professionisti esterni specializzati nelle singole aree di interesse è una prassi comune in quanto, garantisce la competenza di tutto il processo d’indagine e studio.
Sotto il profilo della procedura, le attività di una due diligence possono suddividersi in tre fasi principali: nel corso della prima, si predispone una lista che pianifica l’oggetto di studio (c.d. “check list”); nel corso della seconda, viene analizzata la documentazione e raccolte le necessarie informazioni (all’interno della c.d. “data room”), e nel corso della terza, viene predisposto il cd. due diligence report in cui sono riportate tutte le informazioni e le considerazioni emerse dall’analisi della documentazione visionata.

Detto rapporto, risultato della lunga procedura di due diligence, è fondamentale in quanto costituisce il fondamento della valutazione circa la convenienza dell’operazione per cui la stessa è effettuata.

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