Manager italiani, il futuro è fuori dai confini

Se è in aumento il numero degli italiani che si trasferiscono all’estero per trovare lavoro, non bisogna pensare che questa tendenza sia limitata alle figure professionali più basse. Anche i manager italiani sono sempre più attratti dalle esperienze professionali oltre confine, che scelgono di fare per diversi motivi.

Lo ha rilevato Michael Page Italia, società specializzata nella selezione e ricerca di professioni a livello di middle e top management, che ha segnalato nell’ultimo anno un aumento del 35% del numero di manager italiani che hanno cercato maggior fortuna fuori dai nostri confini.

Secondo Michael Page, a partire dal 2010 l’aumento è stato del 30% anche a causa delle forti criticità del mercato del lavoro che hanno comportato spesso la perdita dell’occupazione e la difficoltà nel ricollocarsi.

Sempre secondo le rilevazioni di Michael Page, se da un lato la caratteristica imprescindibile per poter intraprendere una carriera all’estero è la conoscenza fluente dell’inglese, unita a quella di almeno un’altra lingua, dall’altro l’esperienza fuori confine consente ai manager di aumentare spesso la propria retribuzione, cosa che può influire sulla decisione di tornare a lavorare in patria.

I Paesi dove maggiormente si sono indirizzati i manager italiani sono quelli dell’America Latina (Brasile, Cile, Colombia, Perù) o dell’Asia (India, Cina, Indonesia), dove si trovano le economie più dinamiche. Restano comunque un cima ai sogni dei nostri dirigenti Svizzera, Cina, India, Brasile, Singapore e Usa.

In Italia, ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri

Il divario tra ricchi e poveri è, almeno in Italia, sempre più accentuato.
Un’indagine sui salari condotto da Fisac Cgil ha infatti evidenziato come poco meno della metà della ricchezza totale sia detenuta dal 10% delle famiglie, mentre il resto, circa il 53%, sia suddiviso tra il restante 90%.

Questo avviene anche a causa della sproporzione dei salari tra un semplice lavoratore dipendente, che guadagna 26 mila euro lordi e quello di un amministratore delegato o top manager, che, in media, percepisce 4,326 milioni.

Agostino Megale, segretario generale della Fisac, dichiara che questi numeri indicano “un distacco enorme che richiede subito una legge che imponga un tetto alle retribuzioni dei top manager. In questi sei anni di crisi il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni si è più che dimezzato mentre non hanno subito alcuna flessione i compensi dei top manager, così come nessuna incidenza ha subito quel 10% di famiglie più ricche, determinando e incrementando la vera forbice delle diseguaglianze”.

Al fine di tamponare una situazione destinata a diventare insostenibile, Megale propone di realizzare il lancio di un disegno di legge di iniziativa popolare, accompagnato dalla raccolta di centinaia di migliaia di firme, ma non solo.
Unitamente a ciò, infatti, chiede “la presentazione da parte del centrosinistra della legge di iniziativa parlamentare per porre un tetto alle retribuzioni nel rapporto uno a venti, immaginando che in tempi di difficoltà come questo le quote eccedenti di compensi dei top manager possano essere versate in un fondo di solidarietà per favorire un piano di occupazione per i giovani”.

Vera MORETTI

Il mio tablet lo uso in azienda

Piccoli e potenti, compatti e incredibilmente versatili, smartphone e tablet stanno rivoluzionando nel profondo la nostra esperienza quotidiana in ambito professionale. La loro diffusione in azienda è avvenuta con straordinaria rapidità e pervasività e quindi, inevitabilmente, in modo spesso caotico e disordinato.

Si è venuta così a creare una situazione per certi versi contraddittoria, che vede le imprese, da un lato, tentare di regolamentare l’adozione degli smart device e, dall’altro, tollerare (se non addirittura promuovere) l’utilizzo dei dispositivi personali dei propri dipendenti come strumento di lavoro. È il cosiddetto fenomeno del BYOD, acronimo per “Bring Your Own Device”.

L’atteggiamento permissivo adottato da molti IT manager è dettato da un semplice calcolo utilitaristico: oltre ad un ovvio risparmio sui costi operativi, la possibilità di lavorare in remoto o in mobilità, in pressoché totale autonomia e indipendenza, si traduce in una maggiore produttività della forza lavoro e in una crescita del tasso di soddisfazione professionale.

Smartphone e tablet non vengono infatti utilizzati solo per telefonare o controllare le email, ma diventano una piattaforma evoluta attraverso la quale accedere a tutte le risorse IT aziendali, dalle soluzioni CRM ai sistemi di monitoraggio della spesa. Ecco perché, secondo una recente indagine condotta da Wakefield Research, già una società su tre ha modificato la propria policy IT per abbracciare il BYOD.

Spesso in ritardo nell’accogliere le novità in campo informatico e tecnologico, l’Italia questa volta è tra le nazioni più virtuose: indipendentemente dalle motivazioni alla base di tale scelta, ben il 63% delle imprese nostrane coinvolte nel sopraccitato studio (per lo più PMI) si sta già adoperando per integrare i dispositivi personali in azienda.

Tuttavia, non è tutto oro quel che è touch: nell’euforia del nuovo, infatti, molte società si sono lasciate abbagliare dalle enormi potenzialità degli smart device, senza valutare nella giusta misura le possibili controindicazioni di un approccio decentralizzato. Che purtroppo non mancano, per la disperazione di IT manager e CIO.

Il problema più grave riguarda senza dubbio la sicurezza dei dati corporate: secondo una ricerca condotta da Nokia Siemens Networks, l’89% degli utenti Pc protegge il proprio notebook, mentre la percentuale crolla al 23% quando si parla di dispositivi mobile. Un dato preoccupante, soprattutto considerando la crescente minaccia del malware su queste piattaforme (ben 8600 nuove minacce individuate nei primi tre mesi del 2012).

Non sorprende quindi che siano in costante aumento anche i casi di data breach, ossia la perdita di informazioni sensibili causata dall’uso non protetto di smartphone e tablet da parte dei dipendenti: nel solo 2011 il costo medio per le imprese italiane è stato di circa 475mila euro, con una perdita stimata di 78 euro per ciascun file rubato.

Manuele MORO

Affitti di lusso, i manager preferiscono Milano

di Alessia CASIRAGHI

Milano capitale del retail di lusso. I quartieri più gettonati? Brera, il Quadrilatero della moda e Porta Romana. Sono sempre più numerosi i top manager di grandi società che scelgono di fare del capoluogo lombardo il proprio quartier generale. Affitti a breve e medio termine s’intende, ma che testimoniano un trend molto positivo per quanto il mercato degli immobili di lusso milanese.

Ma qual è l’identikit del manager che sceglie di vivere a Milano? Imprenditore o AD straniero (molti provenienti da Paesi di economie emergenti come Russia, India e Cina), con grossa disponibilità di spesa (tra i 2.800 e i 3.500 euro al mese per un appartamento in affitto) e che progettano una permanenza massima di 6 mesi.

Qualche nome? Manager di Barclays Bank, Unicredit Banca, RBS, ma anche colossi della moda come Tom Ford. Il 70% della clientela del mercato degli affitti di lusso “short term” a Milano parla straniero.

Ma quali sono le esigenze della clientela business che si affaccia al mercato degli affitti di lusso? Parole d’ordine rapidità e flessibilità. I top manager puntano a formule ‘tutto compreso’: dal canone, alle utenze, alle piccole manutenzioni, pulizie accurate. Non deve mancare il collegamento wireless a internet . Nella scelta delle zone poi la preferenza va soprattutto a quartieri esclusivi e vicini al centro, come Brera, Porta Romana, il Quadrilatero.

Anche in tempi di crisi, le cui ripercussioni hanno colpito anche il settore immobiliare, facendo crollare i prezzi degli immobili, per guardare al futuro occorre puntare su ottime ristrutturazioni, una gamma completa di servizi e prezzi al passo coi tempi. Insomma, vince l’appartamento elegante, in centro, con ottime finiture, ma la cui richiesta economica, sia anche intelligente e flessibile. Anche se si parla di appartamenti di lusso…

E’ Linkedin il sito preferito dai Top Manager

Linkedin, il social network dedicato alla rete professionale, è in cima alla lista dei siti più visitati dai Top Manager di tutta Europa. Lo rivela la ricerca Business Elite Europe survey 2011 condotta da Ipsos Mori.

Top manager, capitani d’azienda, imprenditori, business leader provenienti da 17 diversi Paesi Europei, hanno mostrato un’attitudine sempre più diffusa verso i social network. E se al primo posto fra i siti più visitati c’è Linkedin, la medaglia d’argento va a Google news, seguito dalle pagine web della Bbc. Scorrendo la classifica, Yahoo si posiziona quarto, anche se su base mensile vince la sfida il sito del Financial Times. Seguono Skynews, Bloomberg, Cnn, Eurosport, Economist.

Informati, multimediali e multitasking. I Top Manager europei utilizzano sempre più i media digitali, da internet agli smartphone, dai tablet ai social network. Anche se il 95% confessa di non poter fare ancora a meno del classico quotidiano cartaceo, e l‘86% usa la tv come mezzo per restare aggiornati sulle ultime notizie.

Per l’informazione economica e finanziaria il canale privilegiato resta comunque la carta stampata quotidiana, con il 47% delle preferenze, seguito da internet con il 32%. Tra i siti di informazione economica più cliccati troviamo il New York Times e il Wall Street Journal, seguiti dalla Harvard Business Review, il Time, il National Geographic, Business Week e Forbes.

Il profilo medio dei top manager intervistati è quello di un professionista con un patrimonio che si aggira intorno ai 730mila euro, il 10% in meno rispetto allo scorso anno. Qualche altra curiosità sulle abitudini dei top manager? Viaggiano spesso per lavoro, l’87%, ma utilizzano sempre meno business e prima classe, 35% contro il 42% del 2008.

Sul fronte del business, a preoccupare maggiormente i manager sono la volatilità dei mercati e l’incertezza economica, ma anche i prezzi di petrolio e materie prime.

Alessia Casiraghi