L’Int sul ddl concorrenza

Segnali positivi, anche se timidi, da Parlamento e Governo per quel cambiamento di verso tanto caro al Premier Renzi.

Questa, in estrema sintesi, la valutazione dell’approvazione del Decreto Milleproroghe e dell’emanazione del ddl Concorrenza ribadita dall’Istituto Nazionale Tributaristi (Int) il cui Presidente, Riccardo Alemanno, ha dichiarato: “Sicuramente apprezzabile l’approvazione in via definitiva del Decreto Milleproroghe che contiene gli aggiustamenti su minimi ed aliquota previdenziale della gestione separata, anche se ora è urgente iniziare un confronto su una revisione più profonda delle due problematiche. In tema di liberalizzazione ritengo il ddl Concorrenza un po’ timido e quindi migliorabile, certamente è un segnale e quanto contenuto non danneggerà il cittadino -contribuente offrendogli alcune alternative ed opportunità. Pertanto sono sorpreso dalle reazioni di chi, osteggiando le liberalizzazioni contenute nel ddl Concorrenza, evidenzia di volere mantenere o raggiungere funzioni esclusive senza curarsi dell’interesse generale”.

Peraltro utilizzare i servizi forniti da un professionista – prosegue Alemanno commentando le reazioni al ddl Concorrenza – è una scelta fiduciaria, se invece è imposta da una legge siamo solo in regime di monopolio o, nel migliore dei casi, di oligopolio. Poi è giusto premiare la professionalità e la specializzazione. Ad esempio personalmente continuerò a consigliare, per qualsiasi trasferimento di patrimonio immobiliare, l’intervento del notaio, perché ritengo la sua preparazione e la sua funzione di terzietà possa maggiormente garantire le parti contrattuali, ma ciò in taluni casi sarà, con il ddl Concorrenza, una libera scelta del cittadino e non più un obbligo“. 

Il cammino comunque del ddl Concorrenza sarà lungo e sicuramente non mancheranno gli interventi delle varie lobby. Per quanto lo riguarda, l’Int fa sapere che, anche grazie all’attività di monitoraggio e controllo svolta da Confassociazioni, di cui Alemanno è Vice Presidente vicario, saranno attenti affinché i contenuti del ddl Concorrenza non vengano svuotati  ma, semmai, migliorati nella direzione di un ancor maggiore spirito di concreta concorrenza.

Ma quanto ci piace il contante …

Secondo un’analisi elaborata dall’Ufficio Studi della Cgia, gli italiani sono primatisti europei nell’utilizzo del contante e il numero di banconote in circolazione in Italia è in continuo aumento. Una crescita, fanno sapere dall’associazione, che negli anni della crisi è stato del 30,4%, con un totale circolante di massa monetaria contante che, nel solo 2014, ha sfiorato i 165 miliardi.

Tutto questo con buona pace di quanti cercano di diffondere la cultura del pagamento elettronico per mettersi al passo con i tempi e per aumentare la tracciabilità delle transazioni a beneficio della lotta all’evasione fiscale. Una tracciabilità ovviamente impossibile per il contante anche se, secondo la Cgia, non vi è quasi correlazione tra la soglia limite all’uso di cartamoneta imposta per legge (1000 euro) e il rapporto tra imponibile Iva non dichiarata e Pil, ossia l’evasione fiscale.

E a proposito di soglie di utilizzo del contante, la Cgia ricorda che tra i principali membri dell’Ue, 11 Paesi non prevedono limiti all’uso del contante. Tra quelli che hanno messo una soglia, Francia e Belgio si fermano a 3mila euro, la Spagna a 2.500, la Grecia a 1.500 euro, mentre l’Italia e il Portogallo hanno le soglie più basse per l’utilizzo del contante: 1.000 euro.

Ma quali sono le ragioni di questo record? “Il diffusissimo uso del contante è correlato al fatto che in Italia ci sono quasi 15 milioni di unbanked – sostiene Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia – ovvero di persone che non hanno un conto corrente presso una banca. […] Questa specificità tutta italiana va ricercata nelle ragioni storiche e culturali ancora molto diffuse in alcune aree e fasce sociali del nostro Paese. Non possiamo disconoscere che molte persone di una certa età e con un livello di scolarizzazione molto basso preferiscono ancora adesso tenere i soldi in casa, anziché affidarli ad una banca. Del resto, i vantaggi economici non sono indifferenti, visto che i costi per la tenuta di un conto corrente sono in Italia i più elevati d’Europa”.

Cambiare fornitore conviene

Essere conservativi non aiuta, ma cambiare fornitore conviene. Emerge da un’analisi condotta dal comparatore Facile.it, che ha evidenziato come cambiare fornitore di servizi permette a ogni famiglia italiana di risparmiare fino a 580 euro in un anno.

Il calcolo è stato effettuato focalizzando l’attenzione su alcuni consumi, comuni a tutti i nuclei familiari e vedendo poi che cosa succede nel cambiare fornitore: per l’energia elettrica, il gas, la telefonia mobile, le linee Adsl e l’assicurazione auto; per ciascun servizio, il portale ha verificato quanti italiani hanno scelto, negli ultimi 12 mesi, di cambiare fornitore e a quanto ammonta il risparmio medio ottenuto.

Nel dettaglio, secondo Facile.it, 1 milione ha scelto di cambiare fornitore dell’energia elettrica (risparmio medio annuo, 50 euro), 800mila hanno cambiato per il gas (100 euro), 1 milione e 600mila per l’Adsl (180 euro), 16 milioni per la telefonia mobile (150 euro), 4 milioni per l’assicurazione auto (100 euro a veicolo).

Sempre più spesso, i cambi di gestore avvengono online. Secondo Facile.it, nel 2014 sono stati circa 2 milioni gli italiani che hanno scelto di cambiare gestore online, ma sono molti più coloro i quali hanno confrontato tariffe e preventivi sul web, sottoscrivendo poi il contratto attraverso un canale tradizionale.

Il numero dei consumatori che ogni anno decidono di migrare verso un altro fornitore ha dichiarato Mauro Giacobbe, Amministratore Delegato di Facile.it è altissimo: se per la sola telefonia mobile parliamo di 16 milioni di italiani, sommando questo numero a quelli ricavati dagli altri settori analizzati, arriviamo a ben 23 milioni di contratti. A spingere i consumatori verso nuove controparti nei loro contratti di utenza è senza dubbio la grande concorrenza fra le aziende, ma anche la sempre maggiore confidenza che stanno acquisendo con la comparazione online.

Entra nel vivo il piano made in Italy

Il piano per la promozione straordinaria del made in Italy e l’attrazione degli investimenti in Italia entra nel vivo. La notizia dello stanziamento di 260 milioni da parte del governo per aiutare l’immagine del made in Italy nel mondo è di qualche settimana fa, ma adesso si parte davvero con la firma in calce al piano made in Italy da parte del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.

Per l’attuazione del piano in campo una vera e propria task force interministeriale: il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, il ministro degli Affari esteri Paolo Gentiloni, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi e il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina.

Chiarissimi gli obiettivi del piano made in Italy, sintetizzabili in 4 punti: ampliare il numero delle imprese, in particolare Pmi, che operano sul mercato globale; valorizzare l’immagine del made in Italy nel mondo; espandere le quote italiane del commercio internazionale; sostenere le iniziative di attrazione degli investimenti esteri in Italia.

Del resto, lo scorso anno la bilancia commerciale italiana si è chiusa con un surplus record pari a 42,9 miliardi di euro, il miglior risultato in Europa dietro alla locomotiva Germania. Ma per smettere di essere vagone e diventare a sua volta motrice, l’Italia ha bisogno di stimoli e risorse. Ecco perché con il piano made in Italy si punta a incrementare i flussi di esportazioni di beni e servizi per circa 50 miliardi di euro entro i prossimi tre anni, aumentando il numero delle imprese esportatrici e trasformando le aziende potenzialmente esportatrici in esportatrici abituali.

Non a caso, negli ultimi anni il numero di imprese che operano con l’estero si è aggirato intorno alle 200mila che, secondo le stime del ministero, potrebbero crescere ancora del 10% con i corretti incentivi e stimoli. Quelli che, si augura il governo, sarà in grado di dare il piano made in Italy.

Da Intesa Sanpaolo 2 miliardi alle imprese emiliane

Le imprese dell’Emilia Romagna al centro delle strategie di sostegno alla produttività di Intesa Sanpaolo. L’istituto bancario ha messo infatti a disposizione delle piccole e medie imprese della regione ben 2 miliardi di nuove risorse e un programma di interventi per stimolare la loro crescita e competitività.

L’iniziativa di Intesa Sanpaolo ha avuto il supporto di Piccola Industria di Confindustria e Confindustria Emilia-Romagna, che nel plafond vedono lo strumento giusto per investire sullo sviluppo del sistema imprenditoriale locale.

Con i 2 miliardi destinati all’Emilia Romagna, Intesa Sanpaolo declina a livello locale l’accordo nazionale siglato con Piccola Industria di Confindustria, in base al quale viene messo a disposizione delle aziende un plafond complessivo di 10 miliardi, che si sommano ai 35 già stanziati negli ultimi quattro anni da Intesa Sanpaolo.

Secondo Maurizio Marchesini, presidente di Confindustria regionale, “il 2015 potrebbe rappresentare un’inversione di tendenza del ciclo economico grazie ad una serie di circostanze favorevoli che possono riavviare una dinamica positiva dello sviluppo. Per questo è il momento di mettere in campo un impegno straordinario per sostenere ed accompagnare gli investimenti e la crescita delle imprese. L’accordo con Intesa Sanpaolo è un passo rilevante per la qualificazione del rapporto banca-impresa“.

Moda italiana, quanta fatica…

La congiuntura economica ancora difficile e le molte turbolenze internazionali non hanno impedito alla moda italiana di archiviare un 2014 solo in parte soddisfacente. Il comparto moda italiana ha infatti registrato, lo scorso anno, un fatturato di 61 milioni e 621mila euro, con un +3,7% rispetto all’anno precedente.

Numeri, questi della moda italiana, che sono stati messi in luce dal report “Fashion economic trends”, realizzato su elaborazioni di dati Istat e diffuso nei giorni scorsi dalla Camera nazionale della moda italiana. Un buon viatico, anche considerando la Milano Fashion Week in corso in questi giorni.

Tuttavia, però, il report dimostra sì che il fatturato dell’industria della moda italiana è cresciuto più della media dell’industria nazionale, ma i suoi ritmi sono ritenuti “in ogni caso insufficienti“, in particolare nel terzo trimestre 2014, l’ultimo disponibile, nel quale la crescita si è fermata al di sotto del +3%.

Manco a dirlo, alla base di questa lentezza del comparto della moda italiana vi sono soprattutto un mercato interno ancora fiacco e una stagnazione dei prezzi. La crescita nei primi 10 mesi dell’anno è stata quindi inferiore alle attese (+3,2%).

Se non altro, l’export per la moda italiana è cresciuto del 4,8%, con un fatturato previsto nel 2014 di 47 milioni e 389mila euro. Un buon risultato se si considera che i mercati emergenti hanno lasciato a desiderare e che l’export in Russia, a causa delle sanzioni, è nettamente crollato.

Lo scorso anno, il fatturato dell’industria moda italiana ha rallentato prima del previsto, portando a una modesta crescita del 2,7% rispetto allo stesso periodo del 2013. Nel terzo trimestre ha rallentato anche il fatturato estero, con un +3,5% in linea con le previsioni, mentre l’incremento del fatturato sul mercato italiano è stato inferiore alle attese: +2,1%. Hanno pesato molto i cali di agosto, -5,9% rispetto ad agosto 2013 e di ottobre (-1,7%). Dati che, aggregati, portano a una crescita del fatturato della moda italiana nei primi 10 mesi del 2014 a +3,2%.

Entrando nei singoli comparti della moda italiana, quelli più dinamici nel 2014 sono risultati la pelletteria (+6,5%), il calzaturiero (+3,8%) e il tessile (+3,4%). L’abbigliamento si è fermato a un modesto +1,1%, probabilmente dovuto alla forte spinta deflattiva dei prezzi registrata nella seconda metà del 2014. Insomma, anche la moda italiana fatica a ritrovare una sua dimensione nel quadro della crisi.

Il tracollo del made in Italy in Russia

Una guerra può fare dei danni incalcolabili anche alle economie dei Paesi che non vi sono direttamente coinvolti. Ne sa qualcosa Coldiretti, che ha tracciato un bilancio pesante delle conseguenze sull’export di prodotti made in Italy in Russia, che nel 2015 sono già crollate del 37%, con una perdita di oltre 246 milioni solo a gennaio.

Lo sprofondo rosso del made in Italy in Russia è dovuto alle sanzioni economiche contro il Paese messe in atto dalla comunità internazionale dopo la crisi e la guerra con l’Ucraina. Sanzioni che, stando alle elaborazioni dei dati Istat relativi al 2014, hanno già causato il tracollo delle esportazioni di made in Italy in Russia lo scorso anno, con un -11,6% rispetto al 2013. Tradotto in cifre, una perdita secca di oltre 1,25 miliardi.

Se si aggiunge il fatto che sarebbero allo studio altre sanzioni da parte dell’Ue contro Putin, si capisce come mai questa mazzata per il made in Italy in Russia stia preoccupando parecchio non solo Coldiretti.

settori più colpiti dall’embargo attivo dall’agosto 2014, fa rilevare Coldiretti, sono soprattutto quelli dell’agroalimentare, che per il made in Italy in Russia erano una vera pacchia: frutta, verdura, formaggi, ma anche pesce, salumi rinomati e carne.

Un embargo che, oltre a bloccare l’export di prodotti made in Italy in Russia, ha fatto sì che i russi si ingegnassero, immettendo sul mercato una serie di prodotti italiani taroccati e a basso prezzo che, oltre all’economia, finiranno per danneggiare anche l’immagine del made in Italy in Russia.

Ddl concorrenza, il notariato passa all’azione

C’era da aspettarselo. Dopo che il Consiglio Nazionale del Notariato aveva sollevato nei giorni scorsi più di un’osservazione sul ddl concorrenza (così come hanno fatto anche i commercialisti), ora è passato all’azione chiedendo al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, garante dello Stato di diritto italiano, un incontro urgente per rappresentare i rischi connessi all’approvazione di alcune disposizioni contenute nel ddl concorrenza, approvato venerdì scorso dal Consiglio dei Ministri.

Il notariato condivide i suggerimenti dell’Ocse in materia di professioni regolamentate, ma è contrario a quella parte del ddl concorrenza che, peraltro non indicata dalle organizzazioni internazionali, porta con sé potenziali effetti distorsivi della concorrenza, che alterano il mercato e creano condizioni di svantaggio competitivo in danno dell’utenza.

Il ddl concorrenza, infatti, prevede l’eliminazione del controllo preventivo di legalità del notaio per le transazioni relative a beni immobili ad uso non abitativo fino a 100mila euro di valore catastale e la costituzione di alcune tipologie di società (Srl semplificata e società semplici).

Come segnalato anche da Confprofessioni, questo ddl concorrenza, dice il notariato, consegna il mercato dei servizi professionali alle lobby delle banche e delle assicurazioni e a pagarne le conseguenze saranno i cittadini e i professionisti. L’imparzialità, la terzietà e il controllo antiriciclaggio garantiti dall’intervento notarile rischiano di essere cancellati unitamente alle altre garanzie che il sistema professionale italiano offre ai cittadini.

Imposta sui contanti versati in banca, stop del Governo

Quella dell’ imposta sui contanti versati in banca stava diventando una notizia che, se confermata, avrebbe acceso (figuratamente…) un candelotto di dinamite sotto alla sedia del premier Renzi. Nei giorni scorsi era infatti circolata la voce che, per combattere l’evasione fiscale, oltre a misure sensate il governo stava pensando di introdurre una imposta sui contanti versati in banca, superiori ai 200 euro, che fosse crescente proporzionalmente al valore del versamento. Una bomba, appunto.

Ecco perché il Governo si è affrettato a smentire la voce, ricordando che anzi l’obiettivo dell’Esecutivo non è introdurre una imposta sui contanti versati in banca ma portare i limiti per l’uso del contante al livello europeo, alzandoli da 1.000 a 3mila euro. Un tetto più alto, dal momento che all’estero l’uso del contante è più limitato che in Italia, in quanto i pagamenti elettronici sono molto più frequenti che da noi. Quindi, niente imposta sui contanti versati in banca.

Il Governo non ha mai fatto mistero di puntare sullo sviluppo dei pagamenti elettronici come strumento di lotta all’evasione, come la fattura o lo scontrino elettronici, immediatamente tracciabili dal Fisco. Del resto, proprio l’ok al decreto delegato sulla fatturazione elettronica e online è legato a doppio filo l’aumento della soglia per l’uso del contante: se salta il primo, salta anche il secondo.

Insomma, sulla voce relativa alla imposta sui contanti versati in banca sembra essere stata messa la parola fine. Almeno per ora…

Moda donna col freno a mano

Abbiamo visto ieri come, in base alle stime di Mediobanca, i marchi top della moda italiana abbiano avuto un 2013 da incorniciare, performando meglio dei grandi gruppi industriali italiani.

Oggi un’analisi di segno diverso sottolinea che, per il terzo anno consecutivo, l’industria della moda donna italiana non brilla del tutto, nonostante segni un’inversione di tendenza. Un’analisi che arriva nei giorni in cui la moda donna italiana segna il proprio trionfo nella Milano Fashion Week.

Ebbene, secondo alcune stime preliminari elaborate da Sistema Moda Italia, il giro d’affari del settore della moda donna italiana nel 2014 non dovrebbe avere solo una lieve crescita, pari allo 0,7%, che significa una cifra di 12,3 miliardi di euro di controvalore. Secondo il Centro Studi di Sistema Moda Italia, su questo risultato ha pesato l’arretramento del mercato interno con una domanda asfittica.

Come spesso accade quando si parla di made in Italy, l’export della moda donna italiana ha dato più soddisfazioni, con le vendite fuori dai confini che hanno cubato circa il 60% del totale. Un risultato buono, che da solo non è bastato a “contagiare” quello del valore della produzione effettuata in Italia, che nel 2014 ha mantenuto il segno meno -0,8% rispetto al 2013.

Infatti, il Centro Studi di Sistema Moda Italia ha stimato in -3,6% il calo del mercato interno della moda donna italiana. Meglio degli anni precedenti, ma sempre un risultato negativo, a differenza di quanto accade sui mercati esteri, dove l’export della moda donna italiana ha continuato a crescere: +4,2% del fatturato estero rispetto al 2013, per un totale in controvalore di 7,3 miliardi di euro.

Segno più anche per l’import di moda donna, con un +8%. Un risultato che porterà il surplus commerciale del settore moda donna italiana intorno ai 3,4 miliardi, in linea con l’anno precedente.