Voucher, ecco come inviare le mail

La stretta sui voucher preoccupa quanti fino a poco fa hanno fatto i furbi con la normativa in materia.

Il cambio di rotta, introdotto con le recenti modifiche al Jobs Act, ha il risvolto più evidente sulla tutela del lavoro accessorio, in modo che sia garantita la tracciabilità totale dei voucher evitandone l’utilizzo fraudolento.

Ora gli imprenditori che utilizzano i buoni devono inviare, almeno 60 minuti prima dell’inizio di ogni prestazione, remunerata con i buoni lavoro, un sms o una e-mail all’Ispettorato nazionale del lavoro contenente. Nella comunicazione devono essere indicati i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore, il luogo, il giorno e l’ora di inizio e di fine della prestazione lavorativa.

La comunicazione deve essere inviata ogni volta che viene utilizzato un voucher. Se la prestazione lavorativa giornaliera è svolta su ore frazionate, la comunicazione per il buono deve essere effettuata più volte.

Chi non effettua questa comunicazione sui voucher, rischia una sanzione amministrativa che va da 400 a 2.400 euro per ogni lavoratore per il quale non è stata inviata la comunicazione.

Per sapere a quale indirizzo e-mail inviare le comunicazioni sui voucher l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato una circolare con le istruzioni e gli indirizzi ai quali mandare le comunicazioni. Per la comunicazione via sms, ancora non sono state emanate le istruzioni.

Badante? Sì, ma italiano

Un badante deve essere per forza rumeno o filippino? No. La crisi economica spinge sempre più connazionali a cimentarsi con un lavoro che, fino a qualche tempo fa, era snobbato dagli italiani.

Da uno studio realizzato dall’Associazione Donne & Qualità della Vita, della psicologa Serenella Salomoni, su un campione di 1000 disoccupati italiani, di età compresa tra i 18 e 57 anni, risulta che 1 italiano su 2 è pronto a intraprendere una carriera come badante nell’assistenza familiare.

Il 70% del campione intervistato dichiara di sentirsi pronto a prendersi l’impegno di curare un’altra persona. Il 66% lo farebbe anche a tempo pieno, pur di lavorare. Ma il dato più eclatante è che il 37% dei partecipanti allo studio sono laureati, che non indietreggiano rispetto a questo tipo di esperienza lavorativa da badante.

Vi è anche chi, come nel 33% dei casi, si mette a disposizione anche nella fascia oraria notturna, compresa tra le 21 e le 8: il 23% sacrificherebbe anche i fine settimana, pur di lavorare.

Quali sono le motivazioni che spingono a fare questa scelta? In primis le necessità economiche, per il 77%. Infatti, la retribuzione media di un badante per nove ore al giorno, sei giorni su sette, oscilla tra gli 800 e i 1000 euro al mese. Una minoranza invece, lo farebbe per “fare un’esperienza nuova” (22%), mentre il 10 % dichiara “per uscire dalla routine”. Il 22% non nasconde le proprie mire a lungo termine, vale a dire ottenere anche una piccola parte dell’eredità.

Analizzando i dati, Donne & Qualità della Vita rivela che 15 intervistati su 100 sono convinti che, con l’invecchiamento progressivo della popolazione, si potrebbe fare del mestiere di badante una professione.

Cosa spinge a scegliere un badante italiano rispetto a uno straniero? Tra i motivi, spiccano: un livello di cultura e informazione maggiore (33%); più capacità di intrattenere l’anziano (25%), una maggior conoscenza della città di residenza e dell’Italia in caso di spostamenti (13%), una minore marcatura delle differenze culturali (34%), una maggiore competenza nel tenere compagnia (17%). Altro aspetto da non sottovalutare è che non tutti gli stranieri hanno la patente, mentre difficilmente un italiano ne è privo.

Rottamazione cartelle Equitalia, altre novità

Altre novità in merito alla rottamazione delle cartelle di Equitalia. Ci sarà infatti più tempo per pagarle e si lo si potrà fare anche a rate.

Questo grazie alla cosiddetta rateizzazione per adesione agevolata, che sposterebbe al 2018 almeno un terzo delle somme dovute a Equitalia, con due rate nel 2018 di cui l’ultima da pagare entro il 15 dicembre.

Nel quadro complessivo della rottamazione delle cartelle si discute anche l’estensione al 2016 dei debiti fiscali, che potranno usufruire della sanatoria agevolata. Le risorse necessarie per questa copertura, pari a circa 400 milioni, deriverebbero dalle maggiori adesioni con l’allargamento della definizione agevolata ai ruoli affidati all’agente della riscossione fino al 31 dicembre 2016.

Infine, vi è l’idea di allargare la sanatoria anche alle ingiunzioni di pagamento dei circa 4500 comuni che attualmente non riscuotono con Equitalia e che vorranno aderire alla definizione agevolata.

In condominio vince la sharing economy

I vicini di casa per gli italiani sono, al contempo, croce e delizia. Se sono tanti quelli che dichiarano di essere in guerra con i propri dirimpettai, per molti altri rappresentano un elemento di supporto e sostegno familiare indispensabile: secondo un sondaggio condotto da Immobiliare.it, il 22% di chi vive in condominio ha sviluppato una o più attività di aiuto reciproco con i vicini di casa.

Sull’onda della sharing economy i condomini tornano a essere collaborativi, in un’ottica di risparmio e miglioramento della qualità della vita in casa.

Il sondaggio, condotto su un campione di oltre mille individui distribuiti su tutto il territorio nazionale, ha evidenziato un sistema di mutuo sostegno e supporto che coinvolge diversi aspetti della vita in casa: dalla gestione di alcune incombenze fino allo sviluppo di attività ricreative.

Il 44% di chi dichiara di vivere in un condominio collaborativo condivide con il gruppo di vicini, gratuitamente o a prezzo scontato, competenze professionali: piccoli lavori di idraulica, riparazioni del pc, cucito, servizi di estetica e molto altro ancora.

Segue, con una percentuale del 36,9%, lo scambio di oggetti che non servono più: vestiti in primis, ma anche libri, elettrodomestici e pezzi d’arredamento passano da una porta all’altra in un’ottica di risparmio a chilometro zero.

Non solo oggetti però: in condominio ci si supporta in caso di bisogno, in primis per curare gli animali (23,7%) ma anche per la gestione dei bambini – il 16% degli intervistati dichiara di alternarsi con i vicini per accompagnarli e riprenderli da scuola, mentre il 5% condivide la babysitter o si offre di tenere a bada i figli del dirimpettaio quando questi non può.

Anche attorno agli anziani in condominio si cerca di fare “gruppo”: tra le attività in cui è alto l’apporto dei vicini di casa c’è proprio l’assistenza ai nonni, per i quali è utilissima anche la semplice compagnia (5,4%) o la spesa.

Il concetto di sharing si applica anche alla tecnologia: il 16% dichiara di condividere l’ADSL e il 5,7% di dividere i costi per l’accesso ai servizi di TV on demand.

Diventano collettive anche le attività connesse al verde e alla pulizia degli spazi comuni: si cura a turno il giardino condominiale o si annaffiano le piante del vicino quando è in vacanza (6,8%); si pulisce o si gestisce a turno la spazzatura condominiale nel 5,7% delle risposte.

Ma come si comunicano queste iniziative o le richieste di aiuto e favori in condominio? A vincere rimane il passaparola, a cui ricorre il 57% del campione che dichiara di essere inserito in una rete di supporto tra vicini.

Ma vengono citate anche strategie più strutturate: il 21,9% dichiara di avere un gruppo WhatsApp per raggiungere tutti in maniera immediata, mentre il 19,3% utilizza la bacheca nel portone di casa.

Se sono in pochi ad indicare il portinaio come tramite delegato a queste comunicazioni (solo il 7% lo cita) quasi il 5% ha creato ed utilizza un gruppo Facebook, una comodità anche per condividere notizie, foto e segnalazioni di ogni genere.

Agroalimentare italiano in altalena

Dati contrastanti quelli dell’export agroalimentare italiano. I dati di agosto, infatti, sono confortanti da un lato e meno da un altro. Durante il mese, infatti, l’export agroalimentare tricolore è cresciuto del 13,5% anno su anno, mentre nei primi 8 mesi dell’anno la crescita (+3,5%) è stata di circa la metà rispetto a quella registrata nello stesso periodo del 2015. Rispetto a luglio 2016, però, il dato di agosto è nettamente positivo.

Nei primi sette mesi del 2016, l’export agroalimentare italiano ha toccato quota 16,9 miliardi di euro e in tutto il 2015 ha totalizzato 36 miliardi. Guardando ai singoli comparti, molto positivi il numeri del saccarifero (+19,9%) e del molitorio (+18.4%). Giù acque minerali (-9,9%), riso (-4,3%) e pasta (-3,9%).

Sul totale dell’ agroalimentare italiano esportato, il vino incide come voce maggiore, pesando all’incirca il 20%.

Il motivo di questi dati contrastanti va ricercato principalmente nelle dinamiche delle economie dei Paesi emergenti, come sottolinea anche un recente rapporto stilato da Unicredit.

Lo studio sottolinea come il made in Italy stia penetrando meno, rispetto a qualche anno fa, nei mercati emergenti più dinamici, specialmente per quanto riguarda il comparto.

Unicredit analizza il caso della Cina, Paese nel quale la quota di export dell’ agroalimentare italiano è solo all’1,3%, molto meno rispetto a quella di mercati per noi storici come Germania, Francia e Regno Unito.

Apprendisti, merce rara

Gli apprendisti erano e sono la ricchezza di ogni bottega artigiana. Purtroppo, però, negli ultimi anni il loro numero, in Italia, è crollato in maniera preoccupante. Secondo un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia, tra il 1970 e il 2015 il numero degli apprendisti è sceso del 43%: da 721mila a 410mila.

Gli artigiani mestrini segnalano come questi dati, nonostante siano condizionati dalle crisi economiche che, negli ultimi 45 anni, hanno toccato l’Italia e dalle novità legislative sull’apprendistato susseguitesi con i vari governi, siano comunque spia di un deciso calo sul lungo termine.

Nel contratto di apprendistato la prestazione lavorativa va di pari passo con l’obbligo del datore di lavoro di fornire agli apprendisti la formazione necessaria per apprendere un mestiere e per conseguire la qualifica.

Al momento sono tre le tipologie di contratto di apprendistato in vigore:

  •  apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale;
  •  apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere;
  •  apprendistato di alta formazione e di ricerca.

Il 90% circa degli apprendisti è però assunto con un contratto professionalizzante.

Particolarmente colpito dal calo del numero di apprendisti è l’intero settore dell’artigianato. Dal 2009, gli apprendisti occupati nelle aziende artigiane sono calati del 45%, principalmente al Sud (-61%), poi al Centro (-44%), al Nordovest (-43%) e al Nordest (-33%).

Tra il 2009 e il 2015, la contrazione media a livello nazionale degli apprendisti è stata del 31%.

Se si guarda ai settori produttivi, il calo più rilevante del numero di apprendisti è avvenuto nelle costruzioni, settore martoriato dalla crisi: tra il 2009 e il 2015 il calo è stato del 65%. Non se la passano bene neppure le attività finanziarie (-54%), il commercio (-34%) e i trasporti (-33%).

Commenta il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Al di là della necessità di rilanciare la crescita e conseguentemente anche l’occupazione, è necessario recuperare la svalutazione culturale che ha subito in questi ultimi decenni il lavoro artigiano. E’ vero che attraverso le riforme della scuola avvenute in questi ultimi anni, il nuovo Testo unico sull’apprendistato del 2011 e le novità introdotte con il Jobs act, sono stati realizzati dei passi importanti verso la giusta direzione”.

Spesometro trimestrale? Inutile e dannoso

Lo spesometro trimestrale contenuto nel decreto fiscale non convince per nulla i commercialisti, come ha dichiarato apertamente il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Gerardo Longobardi, durante un’audizione sul decreto fiscale nelle Commissioni riunite Bilancio e Finanze della Camera.

Condividiamo la necessità di contrastare il fenomeno dell’evasione e delle frodi nel settore dell’Iva, anche attraverso l’anticipazione dei controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ma esprimiamo la nostra ferma e forte contrarietà all’introduzione dello spesometro trimestrale. Un obbligo del genere non è previsto in nessun Paese ad economia avanzata”, ha affermato Longobardi .

Le esigenze di anticipazione dei controlli – ha proseguito Longobardisono già soddisfatte dal nuovo obbligo di comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche Iva, da effettuarsi con cadenza trimestrale, che permetterà un riscontro più veloce della correttezza e della tempestività dei versamenti e delle compensazioni effettuate dai contribuenti, senza obbligare l’intera platea dei cinque milioni di soggetti titolari di partita IVA ad una comunicazione analitica, ogni trimestre, dei dati di tutte le fatture emesse e ricevute che costituirebbe un obbligo oltremodo sovradimensionato rispetto alle pur legittime finalità di controllo e di contrasto all’evasione”.

Un obbligo di comunicazione analitica con periodicità così ravvicinata non è previsto da nessuno dei Paesi ad economia avanzata, comunitario e non, e contraddice sia le raccomandazioni fatte all’Italia da Fondo Monetario Internazionale e Ocse, sia quanto deciso dallo stesso Governo in sede di attuazione della delega fiscale, che ha previsto che lo spesometro trimestrale sia soltanto opzionale”.

I commercialisti chiedono l’abolizione dello spesometro trimestrale o, in alternativa, chiedono “che l’obbligo comunicativo sia previsto con una periodicità semestrale lasciando, in ogni caso, la possibilità, prevista con l’attuale spesometro annuale, di effettuare la comunicazione in forma semplificata, aggregando i dati delle operazioni per singolo cliente/fornitore”. I commercialisti propongono anche di “estendere indistintamente a tutti i soggetti obbligati allo spesometro, le premialità oggi previste per chi esercita l’opzione prevista dalla delega” e di operare “un intervento di drastica riduzione del regime sanzionatorio introdotto”.

Il franchising che fa bene all’Italia

Abbiamo parlato ieri delle tendenze emerse durante l’ultimo Salone Franchising Milano. Ora è tempo di bilanci per la 31esima edizione del Salone.

Sono stati oltre 200 i marchi rappresentati negli stand, con un balzo in avanti del 18% dei visitatori giornalieri, cioè dei potenziali affiliati o franchisee. In totale, i visitatori sono stati 14mila in 3 giorni di fiera, che erano 4 nella edizione 2015.

La 31esima edizione è stata caratterizzata dalla presenza delle maggiori catene del franchising (in totale operano in Italia 950 catene tra grandi e piccole), dalla ancora più accentuata specializzazione dei negozi, specie nei settori guida del food e della moda, e dalla crescente internalizzazione.

Presente in fiera una delegazione cinese, mentre il Salone Franchising Milano è stato ufficialmente invitato a organizzare un’area italiana alla Fiera del Franchising di Pechino, il 5 maggio 2017.

Uno dei temi discussi nel Salone è stato il controverso rapporto tra le catene del franchising (franchisor) e i 51mila affiliati che hanno aperto negozi o centri servizi in franchising. Ad oggi non sono più dell’8% i punti vendita in affiliazione che affiancano la vendita on line a quella in negozio, secondo uno studio del portale BeTheBoss.it.

Emergono una resistenza e una diffidenza di base dell’affiliato a portare la sua attività anche on line, come se la vendita in digitale possa essere concorrenziale con quella fisica nel punto vendita, come riportato da un sondaggio presentato in Salone da Confimprese e Largo Consumo.

La soluzione a questa empasse deve venire dal franchisor – ha spiegato Antonio Fossati, presidente del Salone e consulente aziendale di RDS and Company -: sta a lui sviluppare un format da proporre a tutti i suoi affiliati che sia attraente e vantaggioso, anche economicamente. Franchisor e franchisee devono essere accomunati dalla stessa dinamica digitale, bisogna concentrare le energie e non separarle. Comunque sta crescendo l’interesse per questa complementarietà di on line e off line, tanto più che i consumatori gradiscono la formula ‘click and collect’, cioè compro sul web e ritiro in negozio”.

Altra tematica affrontata durante il Salone è stata quella delle start up nel franchising: in Italia sono attive circa 6mila start up e alcune di queste hanno le potenzialità per entrare anche nel settore del franchising.

Imprese femminili in crescita

Le imprese femminili sono una realtà in crescita un po’ in tutta Italia ma in una regione come la Lombardia hanno fatto, come si suol dire, il botto. È stato infatti negli ultimi 6 anni lo slancio delle imprese guidate da una donna, con 62mila imprese femminili nate in questo periodo, quasi la metà delle esistenti (40%).

A queste si aggiungono le 49mila che hanno circa 10 anni e le 24mila che ne hanno circa 20. Invece, sono 2807 le imprese femminili ultracinquantenni, nate prima del 1966. È quanto emerge da un’elaborazione della Camera di commercio di Milano sui dati del registro imprese al terzo trimestre 2016.

A Milano il lavoro è sempre più declinato al femminile. In una citta dove il 65% delle donne tra i 20 e i 64 anni è occupata, iniziative come il GammaForum possono rappresentare un osservatorio privilegiato da cui partire per comprendere come sia cambiano il mondo del lavoro per l’universo femminile”. Così l’Assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio del Comune di Milano, Cristina Tajani.

Un tasso crescente che – secondo Federica Ortalli, Presidente del Comitato IF della Camera di Commercio di Milano – si spiega senz’altro con un più diffuso supporto pubblico all’iniziativa economica delle donne, che trovano spesso nel fare impresa una risposta alla mancanza di soluzioni occupazionali, oltre che una strategia per conciliare lavoro e famiglia”.

A questi dati delle imprese femminili si sommano quelli relativi alla spinta data all’economia italiana dalle imprese costituite dagli under 35 tout court ,che rappresentano il 54,1% del saldo complessivo delle imprese italiane.