Controlli del datore di lavoro sui permessi legge 104 del 1992

La legge 104 è di fondamentale importanza per i portatori di handicap e per i loro familiari. Gli ultimi, al fine di svolgere il loro dovere di assistenza nei confronti del congiunto, possono utilizzare i permessi lavorativi della legge 104 del 1992, gli stessi prevedono però dei limiti. Naturalmente in questo settore non sono mancati nel tempo i furbetti che hanno utilizzato i permessi legge 104 per fini personali e diversi dall’assistenza ai familiari. I controlli del datore di lavoro possono però aiutarlo a tutelarsi da comportamenti impropri, ecco cosa può fare senza incorrere in reati.

Utilizzo improprio dei permessi legge 104/1992

I permessi legge 104 del 1992 sono diversi e dipendono dalla situazione concreta del disabile, di sicuro quelli più conosciuti e utilizzati sono i 3 giorni di permessi retribuiti in cui il lavoratore può astenersi dall’attività lavorativa. Questi permessi sono però strettamente correlati all’assistenza del disabile, cioè non possono essere utilizzati per fini personali e in caso di uso improprio sono previste delle sanzioni particolarmente pesanti.

Vuoi conoscere le sanzioni per chi abusa dei permessi legge 104/1992? Leggi l’articolo Lavoro e legge 104: quali sanzioni per chi abusa dei permessi?

I permessi legge 104 possono essere usufruiti da un solo parente, anche se vi sono dei casi in cui è possibile avvalersi dell’assistenza saltuaria. Il soggetto che li usa deve utilizzare il tempo dei permessi per assistenza materiale al disabile, ad esempio per accompagnarlo a visite, alcune sentenze hanno stabilito che non incorre in sanzioni il lavoratore che durante le ore di permesso si rechi a fare commissioni per il disabile, ad esempio si occupi della spesa, vada in farmacia, non deve però allontanarsi dalla città in cui si trova il disabile. Naturalmente il datore di lavoro può avere dei sospetti su un abuso dei permessi per l’assistenza ai disabili, occorre infatti ricordare che mentre si usufruisce degli stessi non ci può essere visita fiscale, come avviene con i dipendenti in malattia, e non c’è obbligo di reperibilità e questo potrebbe portare alcuni dipendenti ad approfittare delal situazione.

Quali sono i poteri di controllo del datore di lavoro sui permessi legge 104?

La prima cosa da sottolineare è che in linea di massima il datore di lavoro non può far pedinare il lavoratore, tanto meno per scoprire cosa fa negli orari in cui è libero dal lavoro, ma la Corte di Cassazione nelle sue sentenze ha ben tollerato una mitigazione di tale principio. In particolare ha sentenziato che nel caso in cui il datore di lavoro abbia il fondato sospetto che i permessi legge 104 siano utilizzati in modo improprio dal lavoratore, il pedinamento è legittimo, ma deve essere svolto esclusivamente negli orari in cui il lavoratore si avvale dei permessi stessi.

Cosa vuol dire legittimo sospetto? Anche in questo caso la Corte di Cassazione è stata abbastanza morbida, infatti anche il semplice fatto che il dipendente usufruisca dei permessi sempre durante il week end, al ridosso di festività o delle vacanze, può avallare l’ipotesi che in realtà i permessi legge 104 siano utilizzati per fini personali e quindi ci sia un abuso.

Il legittimo sospetto può essere sostenuto anche con altri mezzi di prova, ad esempio la giurisprudenza ormai ammette che possano essere utilizzate come prove anche le foto postate sui profili social. Inoltre, è possibile avvalersi della prova testimoniale, ad esempio un collega che affermi di aver visto il dipendente che mentre stava usufruendo di permessi legge 104 era a un party.

Le indagini effettuate dall’investigatore devono comunque svolgersi in modo opportuno e quindi senza ledere la privacy del dipendente.

Sentenze della Corte di Cassazione

Il disvalore sociale dell’abuso dei permessi

I dipendenti che hanno un comportamento scorretto sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare, questo perché si tratta di una violazione grave che lede il datore di lavoro che, per consentire al lavoratore di adempiere i suoi doveri di solidarietà familiare deve riorganizzare il proprio lavoro e rinunciare alla produttività di quel dipendente, ma anche a carico della collettività, infatti la retribuzione per i permessi legge 104 del 1992 è a carico dal datore di lavoro ma poi ricade sulle casse dell’INPS e quindi della collettività.

Il disvalore sociale è oggetto di attenzione anche della Corte di Cassazione nella sentenza 8784 del 2015 in cui sottolinea che tale comportamento implica“un disvalore sociale giacché il  lavoratore aveva usufruito di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa”.

La sentenza appare particolarmente gravosa, infatti, non rileva che il dipendente non abbia subito precedenti censure sul luogo di lavoro e che non ci siano altri provvedimenti disciplinari a suo carico. Non rileva neanche il fatto che, a detta del lavoratore, solo una parte delle ore di permesso sia stata utilizzata in modo improprio (per recarsi a una festa) mentre le altre ore erano state utilizzate effettivamente per prestare assistenza. Il disvalore per la Corte è nel semplice abuso perpetrato.

Attenzione ai social

Particolare attenzione deve essere posta perché la Corte di Cassazione, sezione VI, sotto sezione L, nell’ordinanza 2743 del 2019 ha precisato che non rileva neanche la circostanza che il fatto contestato si sia verificato una sola volta perché anche in tal caso il licenziamento disciplinare resta valido. Tra l’altro questa ordinanza è fondamentale perché riguarda proprio l’ipotesi in cui a suffragare la contestazione del datore di lavoro convergevano foto pubblicate su facebook nel giorno in cui il lavoratore doveva prestare assistenza al disabile e le attività investigative commissionate dal datore di lavoro.

Sintesi sui poteri di controllo del datore di lavoro sui permessi legge 104

Il datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore abusi o utilizzi in modo improprio i benefici previsti dalla legge 104 e in particolare i permessi di lavoro è sicuramente un soggetto danneggiato. Gli viene quindi data la possibilità di tutelarsi e licenziare il dipendente che durante i permessi non si occupi del disabile. In caso di contestazione del licenziamento può provare il comportamento infedele del lavoratore attraverso:

  • prove documentali (tra cui foto postate sui social);
  • prove testimoniali;
  • indagini condotte da un investigatore privato ( devono svolgersi con particolare attenzione in quanto non possono sfociare nel reato e sono da utilizzare quando vi sia un fondato sospetto di comportamento illegittimo).

Assegno ordinario di invalidità, quando da diritto a contribuzione figurativa?

Cosa si intende per assegno ordinario di invalidità, come si calcola il suo importo e soprattutto quando questo da diritto ad una contribuzione figurativa? Questo ed altro ancora in merito all’assegno ordinario di invalidità, andremo a scoprire in questa rapida guida.

Assegno ordinario di invalidità, cosa è?

Ovviamente, come è ben definito dal suo stesso nome, quando si parla di assegno di invalidità si fa riferimento ad un pagamento economico rivolto a persone con invalidità.

Nello specifico, possiamo dire che quando si parla di tale assegno, ovvero l’assegno ordinario di invalidità, si parla di una prestazione economica, erogata a domanda, in favore di coloro la cui capacità lavorativa è ridotta a meno di un terzo a causa di infermità fisica o mentale.

Quindi per tradurre il tutto in domanda più essenziale,  chi spetta l’assegno ordinario di invalidità? Molto semplicemente, hanno diritto allassegno di invalidità INPS i lavoratori dipendenti, gli autonomi (tra cui, artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri), nonché gli iscritti ad alcuni fondi pensione sostitutivi ed integrativi dell’assicurazione generale obbligatoria, i quali vedono ridotta la propria capacità lavorativa di un terzo.

A differenza degli invalidi ad un terzo, vi sono gli invalidi civili.

Ovvero, per stessa definizione dell’INPS

Si considerano mutilati e invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo (compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico o per insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali), che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore ad un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età“.

Come si calcola l’ importo dell’assegno di invalidità?

Questo onere, diciamo così, è un qualcosa che spetta all’INPS. Ma su quali basi, avverrà questo calcolo?

L’INPS andrà a calcolare l’importo dell’ assegno ordinario di invalidità sulla base dei contributi che risultano versati a nome del richiedente e, nello specifico:
  1. Con il sistema contributivo se si ha iniziato a lavorare dal 1996.
  2. Con il sistema misto (retributivo e contributivo) qualora si avesse iniziato a lavorare prima del 1996.

Quando tale assegno dà contributi figurativi

E dunque, veniamo al nodo della questione, ovvero scoprire se e quando l’assegno di invalidità ordinaria da diritto a contribuzione figurativa.

La risposta a tale quesito è presto data. Infatti, nei periodi in cui si percepisce un assegno ordinario di invalidità senza svolgere attività lavorativa, viene riconosciuta contribuzione figurativa utile al riconoscimento futuro (può accadere nel caso l’assegno ordinario non venga riconfermato in revisione) dell’assegno stesso. La contribuzione figurativa dell’assegno ordinario di invalidità viene, inoltre, riconosciuta per il raggiungimento dei requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia per un massimo di 3 anni a chi, al raggiungimento dei 67 anni non ha maturato i 20 anni di contributi necessari per l’accesso. In questo caso, però, la contribuzione sarà valida solo per il diritto e non per ma misura.

Va aggiunto che per i lavoratori del settore privato (autonomi o dipendenti che essi siano) l’ordinamento prevede che l’assegno ordinario di invalidità venga trasformato in pensione di vecchiaia al perfezionamento dei requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla legge Fornero.

Dunque, questo è quanto di più utile ed essenziale vi fosse da sapere in merito alla questione degli assegni ordinari di invalidità.

 

Superbonus 110%, come utilizzare la detrazione fiscale nel caso di immobile a uso promiscuo?

Il superbonus 110% può essere utilizzato dalle persone fisiche che svolgono attività di impresa, di arte o di professioni. Gli interventi, per rientrare nella misura, devono essere inerenti a immobili appartenenti all’ambito “privatistico”. Risultano esclusi, pertanto:

  • gli interventi fatti su immobili strumentali alle attività di impresa o di arte o di professioni;
  • i lavori sulle unità immobiliari che costituiscono l’oggetto dell’attività;
  • gli interventi sui beni patrimoniali di proprietà dell’impresa.

Si possono fare lavori in regime di superbonus 110% se nell’immobile si svolge attività lavorativa?

Tuttavia, gli interventi in regime di superbonus 110% possono essere ammessi anche su unità immobiliari a uso promiscuo, e dunque utilizzate anche per l’esercizio dell’arte, della professione oppure di attività di tipo commerciale. Sul punto è intervenuta l’Agenzia delle entrate con la circolare numero 19/E del 2020, stabilendo che, “nell’ipotesi di unità immobiliare residenziale adibita promiscuamente anche all’esercizio dell’arte o della professione ovvero di attività commerciale (occasionale o abituale), la detrazione è calcolata sul 50 per cento delle spese sostenute”.

Interventi antisismici del superbonus e del sismabonus

La stessa detrazione si applica anche per le unità immobiliari residenziali adibite promiscuamente anche ad attività di arte e professioni per interventi rientranti nel sismabonus. Si tratta, dunque, degli interventi antisismici previsti dai commi 1 bis e 1 septies, dell’articolo 16, del decreto legge numero 63 del 2013. La stessa detrazione è prevista anche per le spese fatte dal 1° luglio 2020 inerenti a lavori antisismici rientranti nel superbonus 110%. Infine, rientrano nella stessa disciplina gli interventi di riqualificazione energetica rientranti nell’ecobonus, ovvero previsti dall’articolo 14 del decreto legge numero 63 del 2013.

Uso promiscuo e superbonus 110%: un caso pratico delle detrazioni

Si può fare un esempio pratico di come debba essere utilizzata la detrazione fiscale prevista dal superbonus 110% nel caso di immobile a uso promiscuo. Si ipotizzi che l’abitazione, non di lusso, sia usata promiscuamente da un professionista anche come sede di ufficio e si eseguano lavori agevolati per 100.000 euro, sostenuti per la metà dal professionista e per l’altra metà dal coniuge convivente. In tal caso, il professionista può detrarre 27.500 euro in cinque anni come previsto dalla detrazione del 110% ridotta al 50% per l’uso promiscuo dell’immobile.

Chiarimenti Agenzia delle entrate su superbonus 110% per immobile a suo promiscuo

Il caso dell’applicazione della detrazione fiscale del superbonus 110% è stato trattato anche dall’Agenzia delle entrate che ha fornito i dovuti chiarimenti. È vero che si tratta di interventi di riqualificazione energetica e di recupero del patrimonio edilizio. Tuttavia i lavori sono eseguiti su immobili residenziali adibiti in maniera promiscua all’esercizio di professioni, di arti o di attività. Pertanto, la legge ammette l’accesso al superbonus 110%, ma per entrambe le quote, quella a uso lavorativo e quella abitativa, applica una riduzione della detrazione del 50%.

Come viene suddivisa la detrazione fiscale del superbonus 110% tra quota di abitazione e parte della sede lavorativa?

Al pari, dunque, anche il coniuge convivente può detrarre la stessa cifra di 27.500 euro in cinque anni come detrazione del superbonus 110% sul costo degli interventi fatti effettuare. Pertanto, il coniuge deve attenersi alla limitazione del 50% calcolata sul costo sostenuto per i lavori. La motivazione risiede nel fatto che si tratta sempre di interventi realizzati su un’unità abitativa utilizzata in modo promiscuo.

 

Il contratto preliminare di compravendita immobiliare è obbligatorio?

Il contratto di preliminare di compravendita immobiliare costituisce il principale strumento con il quale delle persone si impegnano a vendere e ad acquistare un immobile. Per avere validità esso va redatto in forma scritta, infatti, diversamente è da considerarsi nullo, quindi, privo di qualsiasi effetto.

A cosa serve il contratto preliminare

Le parti coinvolte nella stipula di tale strumento contrattuale sono rappresentate dalla parte venditrice che promette all’altra parte acquirente di cedere la proprietà dell’immobile al prezzo e secondo le modalità e i termini indicati nel contratto di compravendita immobiliare. In conseguenza di ciò, le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto definitivo, con il quale verrà ufficialmente trasferita la proprietà immobiliare.

Il preliminare di compravendita è obbligatorio?

Spiegato cos’è un contratto preliminare di compravendita immobiliare, cerchiamo di capire se è obbligatorio. La risposta è “no”. Infatti, le parti si impegnano a giungere a un contratto di compravendita definitivo anche verbalmente e senza alcun impegno preso in precedenza.

Se è vero che non è obbligatorio stipulare un contratto preliminare di compravendita prima di arrivare al trasferimento definitivo dell’immobile, è altrettanto vero che redigerlo in forma non verbale, quindi, scritta, concede la possibilità alle parti, in caso di recesso, di pagare delle conseguenze.

Solitamente, infatti, la parte acquirente s’impegna a stipulare il rogito tramite il versamento di una caparra, detta confirmatoria, Nel caso dovesse venire meno all’impegno, l’altra parte (venditrice) ha il diritto di trattenere la caparra versata dall’acquirente trattenendo la proprietà dell’immobile (spesso, si tratta di una casa o abitazione). Ma potrebbe accadere che a recedere dall’impegno preso sotto forma scritta e previo versamento della caparra, sia la parte venditrice (causa ripensamento sulla vendita o perché ha ricevuto un’offerta di gran lunga migliore). In tal caso, spetta a tale parte restituire il doppio del valore della caparra confirmatoria come risarcimento del danno subito dalla parte acquirente.

Il compromesso immobiliare deve essere sottoscritto dal notaio?

Quando si decide di acquistare una casa o abitazione, compilato il modulo prestampato in un’agenzia immobiliare, poi sottoposto alla parte venditrice che ha dato incarico di vendita in forma scritta, si è di fatto concluso un preliminare di compravendita.

All’interno del documento sono indicati i dati delle parti del contratto, i dati catastali e descrittivi del bene, il prezzo e le modalità con le quali sarà versato il corrispettivo, la caparra sottoscritta, e soprattutto il termine entro cui dovrà essere stipulato il rogito davanti al notaio scelto.

Per tale motivo, questo modello prestampato, se integrato dei dati mancanti e firmato costituisce in tutti i sensi un preliminare di compravendita, con il quale ci si impegna a stipulare l’atto successivo e definitivo del passaggio di proprietà del bene.

Per tutti questi motivi, si può affermare che non è obbligatorio firmare il preliminare di compravendita immobiliare davanti al notaio.

Il preliminare di compravendita va registrato?

Il compromesso immobiliare va registrato al fine di evitare un accertamento e conseguente sanzione per non aver rispettato la normativa che impone la registrazione del contratto preliminare. Ciononostante, solitamente le scritture non vengono registrate. Il motivo risiede nell’elusione del pagamento degli oneri fiscali da versare all’Agenzia delle Entrate che, così facendo, difficilmente può venirne al corrente.

Tuttavia, urge ribadire che un preliminare di compravendita firmato ma non registrato, non perde comunque la sua validità ed efficacia. Per cui, le parti risultano in ogni caso essersi assunte degli impegni.

Il preliminare di compravendita necessita di trascrizione?

Acquistare un immobile e impegnarsi presso il proprio notaio al fine di stipulare un contratto preliminare di compravendita tramite atto pubblico, implica che il rogito derivante va trascritto. In realtà è la legge a sancirne l’obbligo, quando stabilisce che i contratti preliminari aventi oggetto la conclusione di taluno dei contratti menzionati nei primi quattro comma dell’art. 2643 del Codice civile, anche se sottoposti a condizione o relativi ad edifici da costruire o in corso di costruzione, devono essere trascritti se risultano da atto pubblico o da scrittura privata con tanto di sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente.

Gli effetti della trascrizione

Trascrivere un preliminare di compravendita, innanzitutto, significa conferire all’atto il potere dell’opponibilità a tutte le eventuale e successive trascrizioni pregiudizievoli a carico del bene. Basti pensare ad un’eventuale ipoteca iscritta sull’immobile dall’agente di riscossione oppure al pignoramento adottato dalla banca creditrice il venditore.

Tramite la trascrizione, la parte acquirente si cautela da circostanze successive il preliminare e che pregiudicherebbero il proprio acquisto. Uno dei rischi maggiori è perdere la somma di denaro versata sotto forma di caparra o comunque di anticipo in attesa del rogito.

Pertanto, sottoscrivere un preliminare di compravendita in veste di atto pubblico notarile non è una consuetudine anche se più sicura di una scrittura privata che ha l’unico vantaggio di essere meno onerosa.

LEGGI ANCHE: Deposito del prezzo dal notaio: le istruzioni per l’applicazione

Che cosa sono le deduzioni IRAP?

Cosa sono le deduzioni IRAP? Prima di rispondere al quesito, è bene sottolineare che stiamo parlando di un’imposta regionale sul reddito delle attività produttive. Le quali attività sono soggette a tale imposta se sono finalizzate alla produzione, allo scambio di beni o alla prestazione dei servizi. Solitamente, sono soggette all’IRAP quasi tutte le società di capitali e di persone, ma, in alcuni casi, anche i professionisti e i lavoratori autonomi.

La base imponibile è il valore della produzione netta realizzata nelle Regioni o nelle Province autonome. Ognuna di esse, però, può modificarne le aliquote a seconda del settore di attività di appartenenza e per categorie di soggetti passivi, pur sempre entro i limiti stabiliti dalla legge statale. Inoltre, l’IRAP è soggetta a modifica non solo per quanto concerne l’aliquota, ma anche le detrazioni e le deduzioni, nonché all’introduzione di speciali agevolazioni.

Chi deve pagare l’IRAP 2021

Tutti i soggetti che devono pagare l’IRAP:

  • S.p.A., S.a.p.a., S.r.l., S.o.C., le mutue assicuratrici, gli enti pubblici e privati diversi dalle società e i trust;
  • S.n.c., S.a.s., o quelle equiparate e le persone fisiche titolari di reddito di impresa;
  • esercenti di lavoro autonomo, società semplici o equipollenti;
  • produttori agricoli il cui reddito agrario supera i 7.000 euro;
  • enti pubblici e privati diversi dalle società residenti nel territorio dello Stato che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, le società e tutti gli enti con e senza personalità giuridica, non residenti del territorio dello Stato;
  • le Amministrazioni Pubbliche, regioni, province, comuni, comunità montane.

Chi non paga l’IRAP

Possono non rientrare ai fini IRAP le persone fisiche che conseguono redditi da lavoro autonomo, derivanti dall’esercizio di arti e professioni, nel caso in cui l’attività professionale sia svolta in assenza di organizzazione di capitali o di lavoro altrui.

Inoltre, sono esentate dal pagamento dell’IRAP:

  • Le attività soggette al regime forfettario;
  • Fondi pensione, comuni d’investimento, gruppi economici di interesse europeo;
  • produttori agricoli titolari di reddito agrario inferiore a 7.000 euro;
  • Lavoratori autonomi o d’impresa che producono redditi occasionali;
  • Redditi da co.co.co.;
  • Rendite per affitti di terreni o fabbricati.

Deduzioni IRAP

Sono ammessi in deduzione dal calcolo della base imponibile IRAP, soprattutto le micro imprese, l’inserimento nel mondo del lavoro che coinvolge in particolare i giovani, la ricerca.

Ma passiamo alle deduzioni concessi ai datori di lavoro come incentivo all’assunzione di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. I costi vengono dedotti se c’è un incremento occupazionale stabile rispetto al periodo di imposta precedente. Inoltre, tale tipo di deduzione si può cumulare a quella del cuneo fiscale e spetta ai professionisti, ditte individuali, società di persone e di capitali.

Nel modello IRAP va indicata in corrispondenza del rigo IS6. La deduzione per l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore dipendente equivale al minore tra le due seguenti voci:

  • Costo effettivo del lavoratore assunto
    Per ogni nuovo dipendente assunto (massimo 15.000 euro) relazione alla durata del rapporto di lavoro.
  • Incremento costo personale
    Va valutato l’incremento complessivo del costo di tutti i lavoratori dipendenti (voci B9 e B14 del conto economico).

Altre deduzioni

  • Assicurazione infortuni: Possibilità di detrarre i costi sostenuti per i contributi delle assicurazioni obbligatorie per legge contro l’infortunistica sul lavoro.
  • Deduzioni forfetarie per i dipendenti: Per ciascuno di essi assunto a tempo indeterminato è possibile portare in deduzione dal calcolo della base imponibile 7.500 euro (13.500 se lavoratrici) o 15.000 euro (21.000 euro per tutte le lavoratrici e per i lavoratori under 35 anni).
  • Contributi previdenziali e assistenziali: rappresentano costi da dedurre dal calcolo dell’Irap 2021 tali contributi dei lavoratori dipendenti. Sono escluse le aziende che operano in regime di concessione e a tariffa nel settore energetico, acqua, poste, trasporti, infrastrutture, trattamento rifiuti e acque di scarico.
  • Spese varie: si possono dedurre dalla base imponibile i costi sostenuti per addetti a ricerca e sviluppo, apprendisti, contratti di formazione e disabili.
  • Altre deduzioni: 1.850 euro per ciascun dipendente che concorre alla formazione del valore della produzione (max cinque dipendenti e 400.000 euro di produzione), costi residui per il personale, incremento della base occupazionale (solo se le assunzioni sono a tempo indeterminato e fino ai due anni successivi all’assunzione).
  • Attività all’estero: se il soggetto contribuente è residente in Italia ma svolge le sue attività anche all’estero, ma le deduzioni vengono riconosciute solo per il personale impiegato sul territorio nazionale.
  • Lavoratori stagionali: c’è la possibilità di dedurre dalla base imponibile per il calcolo dell’Irap il 70% del costo sostenuto per codesti lavoratori se impiegati per almeno 120 giorni.
  • Deduzione forfetaria per chi non ha lavoratori dipendenti: credito di imposta pari al 10% dell’Irap lorda indicata in fase di dichiarazione.

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Superbonus 110%, cessione del credito e sconto in fattura anziché le detrazioni fiscali

Nelle modalità di utilizzo del superbonus 110% non rientrano solo le detrazioni di imposta sui lavori edili. Sono previste dalla legge due importanti modalità alternative, ovvero la cessione del credito e lo sconto in fattura. Entrambi permettono ad esempio agli incapienti, ovvero ai contribuenti che hanno un’imposta lorda che non permette di avvalersi delle detrazioni fiscali, di poter utilizzare il superbonus con benefici alternativi.

Superbonus 110%, come beneficiare dello sconto in fattura

All’articolo 121 del decreto legge numero 34 del 2020 è previsto che i contribuenti che nel 2020 e nel 2021 sostengano spese per gli interventi rientranti nel superbonus 110% possano ricorrere allo sconto in fattura o alla cessione del credito. Lo sconto in fattura è previsto dal comma 1 della lettera a). L’articolo prevede che il contributo sia ottenuto “sotto forma di sconto sul corrispettivo fino a un importo massimo pari al corrispettivo dovuto”. Tale corrispettivo è anticipato dal fornitore che ha effettuato i lavori. Quest’ultimo può recuperare il corrispettivo stesso attraverso il credito d’imposta. Tuttavia, anche il fornitore ha la possibilità, successiva, di cedere il proprio credito ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari.

Cessione del credito nel superbonus 110%

Lo strumento della cessione del credito per i lavori rientranti nel superbonus 110% è previsto dalla leggera b) del comma 1 dell’articolo 121. In particolare, l’articolo prevede che “la trasformazione del corrispondente importo in credito di imposta, con facoltà di successiva cessione ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e altri intermediari finanziari”.

Superbonus 110% e stato di avanzamento degli interventi

Le due opzioni possono essere esercitate in relazione a ciascuno stato di avanzamento degli interventi. Tuttavia va precisato che per i lavori che beneficiano del superbonus 110% gli stati di avanzamento possono essere al massimo due per ciascun intervento complessivo. Inoltre, ciascuno stato di avanzamento degli interventi deve far riferimento a non meno del 30% del medesimo lavoro.

Per quali interventi si può beneficiare dello sconto in fattura o cessione del credito?

Gli interventi per i quali si può richiedere lo sconto in fattura o la cessione del credito nell’ambito dei vantaggi fiscali del superbonus 110% riguardano:

  • il recupero del patrimonio edilizio previsto dal comma 1, lettere a) e b) dell’articolo 16 bis del Decreto del Presidente della Repubblica numero 917 del 1986;
  • gli interventi di efficienza energetica;
  • l’adozione delle misure antisismiche;
  • il recupero o il restauro della facciata degli edifici esistente, ovvero gli interventi previsti dal cosiddetto “bonus facciate”;
  • l’installazione degli impianti fotovoltaici per la produzione dell’energia elettrica;
  • l’installazione delle colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici;
  • l’eliminazione delle barriere architettoniche. Quest’ultima possibilità non è prevista dalla normativa ma concessa, in via interpretativa, dall’Agenzia delle entrate.

Calcolo del credito d’imposta nello sconto in fattura

Nel caso in cui si voglia beneficiare dello sconto in fattura, il credito di imposta si calcola sull’importo dello sconto applicato. Conseguentemente, lo sconto applicato sarà equivalente al credito acquisito. Nello sconto in fattura, come precisa l’Agenzia delle entrate con il provvedimento numero 283847 del 2020, “l’importo della detrazione spettante è calcolato tenendo conto delle spese complessivamente sostenute nel periodo d’imposta, comprensive dell’importo non corrisposto al fornitore per effetto dello sconto praticato. In presenza di diversi fornitori per il medesimo intervento, la detrazione spettante è commisurata all’importo complessivo delle spese sostenute nel periodo d’imposta nei confronti di ciascuno di essi”.

A quanto ammonta il credito di imposta dello sconto in fattura nel superbonus 110%?

La stessa Agenzia delle entrate, nella circolare 24/E del 2020, ha specificato anche a quanto ammonta il credito di imposta derivante dalla cessione del credito. Infatti, “nel caso in cui il contribuente sostenga una spesa pari a 30.000 euro alla quale corrisponde una detrazione pari a 33.000 euro (110 per cento), a fronte dello sconto applicato in fattura pari a 30.000 euro, il fornitore maturerà un credito d’imposta pari a 33.000 euro”.

Credito di imposta e sconto parziale in fattura del fornitore

La stessa circolare dell’Agenzia delle entrate prende in esame anche il caso in cui il fornitore applichi uno sconto “parziale”. In questo caso, il credito d’imposta è calcolato sull’importo dello sconto applicato. Ciò comporta, in sostanza, che se a fronte di una spesa di 30.000 euro, il fornitore applica uno sconto pari a 10.000 euro, lo stesso maturerà un credito d’imposta pari a 11.000 euro. Il contribuente potrà far valere in dichiarazione una detrazione pari a 22.000 euro (110 per cento di 20.000 euro rimasti a carico) o, in alternativa, potrà optare per la cessione del credito corrispondente a tale importo rimasto a carico ad altri soggetti, inclusi istituti di credito e altri intermediari finanziari.

Calcolo della cessione del credito nel superbonus 110%

Nel caso della cessione del credito ai fini del superbonus 110% possono esserci diverse pattuizioni. Ciò significa che la cessione può essere effettuata dal titolare della detrazione fiscale anche a un prezzo inferiore rispetto al valore nominale delle detrazione stessa. Ad esempio, se il lavoro ai fini del superbonus comportasse una spesa di 100, con detrazione ammessa di 110, la cessione del credito potrebbe avvenire anche al prezzo di 90 o inferiore.

Sconto in fattura o cessione del credito, quale conviene di più?

Mentre per chi chiede lo svolgimento dei lavori potrebbe essere più conveniente lo sconto in fattura, dal punto di vista del fornitore questo istituto potrebbe risultare meno appetibile rispetto alla cessione del credito. Questo avviene perché il fornitore, ovvero colui che svolge l’intervento previsto nel superbonus 110%, a sua volta dovrà quasi sicuramente cedere il credito maturato, ovvero lo sconto concesso in fattura, per non incorrere in squilibri finanziari. Di conseguenza, si allungherebbero i passaggi del credito con maggiori oneri e contrattazioni per il fornitore.

Come può utilizzare il credito chi ha acquisito il beneficio?

Chi maturi il diritto alla detrazione ha un credito di imposta che può essere ceduto. L’acquirente, o l’azienda che applica lo sconto in fattura, può scegliere:

  • di utilizzare il credito di imposta in compensazione secondo quanto prevede l’articolo 17 del decreto legislativo numero 241 del 1997;
  • monetizzare a pronti il credito d’imposta facendo, a sua volta, la cessione del credito a terzi.

 

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Anche un lavoratore dipendente può essere titolare di una partita IVA, avviando una seconda attività, ma ci sono dei limiti da rispettare.

Esistono molti lavoratori dipendenti impiegati a tempo indeterminato o determinato, che vogliono migliorare il proprio stile di vita o più semplicemente seguire, lavorando in proprio, una propria passione. Farlo non è sempre facile, tanto meno possibile. Cerchiamo di capirne il perché.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore pubblico

Avviare un’attività extra, dipende se si lavora nel settore pubblico o in quello privato, o dall’orario dal tipo di impiego, a tempo parziale o pieno.

Se si svolge un pubblico impiego il lavoratore è tenuto a lavorare esclusivamente con l’ente datore di lavoro. Tuttavia, chi appartiene ai regimi speciali (docenti e dipendente part-time) dove il lavoro corrisponde alla metà di un’occupazione svolta full-time, fa eccezione.

A questo punto, diventa fondamentale il contratto di lavoro che deve prevedere o meno la disciplina che concilia il lavoro da dipendente pubblico con l’apertura di una partita IVA. Nel primo caso si configura l’impiego presso un ente pubblico, nel secondo caso si può trattare di un’impresa privata.

Spetta all’Amministrazione Pubblica concedere o negare la possibilità al proprio dipendente di svolgere una seconda attività (autonoma) a prescindere che si operi o meno con partita IVA. Tuttavia, esistono delle condizioni da rispettare:

  • l’incarico deve essere temporaneo e occasionale;
  • l’incarico non deve interferire con l’orario di lavoro svolto da dipendente;
  • non ci deve essere conflitto d’interesse;
  • l’attività deve essere svolta al di fuori del lavoro prestato alla Pubblica Amministrazione.

Nel caso il dipendente sia stato assunto con un contratto a tempo parziale pari al 50%, può svolgere un’attività extra ma sempre con il benestare del datore di lavoro.

Se, invece, l’impiegato pubblico lavora full time ma vuole avviare un’attività autonoma, può farlo ma sempre previo autorizzazione del datore di lavoro, chiedendo una diminuzione dell’orario di lavoro almeno del 50%.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore privato

Anche il dipendente privato può svolgere una seconda attività di tipo autonomo, purché non sia in concorrenza con quella svolta principalmente. Può trattarsi di una ditta individuale o di un libero professionista. La clausola inerente la concorrenza è necessaria venga indicata nel contratto di lavoro, altrimenti, l’azienda non ha nulla da obiettare.

Nella pratica è comunque consigliato di mettere al corrente il proprio datore di lavoro privato della nuova situazione del suo dipendente, onde evitare di poter deteriorare il rapporto di fiducia tra le due parti, o addirittura di poter subire un licenziamento per giusta causa (per aver divulgato notizie private sull’azienda o danneggiandone l’immagine per un tornaconto personale).

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Con un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (almeno 26 ore settimanali), chi decide di avviare un’attività commerciale può non iscriversi alla Gestione Commercianti e Artigiani dell’INPS, purché la prima occupazione sia quella prevalente, ossia quella da cui deriva la maggior parte del reddito e del tempo impiegato nello svolgerla.

L’INPS invierà un avviso di iscrizione alla Gestione Commercianti e basterà rispondere con una comunicazione indicante l’attività prevalente, alla quale deve essere allegata l’ultima busta paga come verificare della propria posizione e al fine di evitare eventuali quanto probabili equivoci.

Chi scegliere di intraprendere un’attività da libero professionista è tenuto a iscriversi alla Gestione Separata INPS,. Tuttavia, il calcolo dei contributi sul reddito derivante dall’attività professionale avverrà con aliquota ridotta. Al posto dell’iscrizione alla GS Inps, è previsto l’obbligo di iscrizione all’Albo professionale, se presente, in quanto i contributi vanno versati alla relativa Cassa Previdenziale.

Nel caso di contratti di lavoro dipendente, ma a tempo determinato, sarà necessaria una valutazione del singolo contratto, così da determinare quale attività sia prevalente ai fini della contribuzione.

Indennità di trasferta: come funziona il rimborso della diaria?

Si ha la trasferta quando un lavoratore viene dislocato in modo temporaneo e per circostanze eccezionali presso un’altra sede di lavoro, la giurisprudenza costante la considera come un disagio e di conseguenza prevede un “indennizzo”, anche conosciuto come “diaria”. Molti si chiedono: come funziona il rimborso dell’indennità di trasferta 2021? Ecco qualche chiarimento.

I caratteri della trasferta

La trasferta è sottoposta dal punto di vista fiscale a un trattamento agevolato, però affinché sia inquadrabile in tale fattispecie devono verificarsi diverse condizioni. In particolare la trasferta deve:

  • essere occasionale ( può avere anche una durata lunga, ma deve comunque essere episodica);
  • legata ad esigenze del datore di lavoro (la trasferta è atto unilaterale, vedremo in seguito le conseguenze di tale caratteristica);
  • la sede differente da quella originaria deve essere precaria;
  • lo spostamento deve essere eccezionale.

Verificandosi questi requisiti si è nel campo di applicazione dell’articolo 51 del TUIR comma 5 e vedremo a breve i benefici che ne derivano. Lo stesso contempla 3 ipotesi:

  • rimborso dell’indennità di trasferta forfettaria;
  • metodo analitico per il rimborso indennità di trasferta;
  • rimborso della diaria con il sistema misto.

Da questa trasferta deve essere distinto il caso dei trasferisti, cioè coloro che abitualmente cambiano sede di lavoro, per questa tipologia di lavoratore le agevolazioni sono previste al 50% come stabilito dal comma 6 dell’articolo 51 del TUIR.

Come funziona il rimborso dell’indennità di trasferta

Dal punto di vista economico la trasferta, rispetto alle ore di lavoro effettuate nella sede tradizionale, ha delle differenze, queste sono determinate dal disagio che il lavoratore prova nel doversi trasferire. La prima cosa da notare è che l’articolo 51 del TUIR, al comma 5, prevede per le trasferte vere e proprie delle agevolazioni fiscali, infatti gli importi erogati a titolo di trasferta non sono considerati reddito e di conseguenza non sono tassati.  Sono però previsti dei limiti e cioè 46,48 euro al giorno per la trasferta in Italia e 77,47 per quella all’estero. Si tratta somme comunque ulteriori rispetto a quelle ordinarie dello stipendio.

Le somme ora viste non sono soggette neanche a contribuzione. per saperne di più leggi l’articolo: Trasferte fisse e occasionali: quando sono dovuti i contributi

Le somme corrisposte a titolo di trasferta solitamente sono di tipo forfettario e vengono riconosciute esclusivamente per le giornate di lavoro svolte al di fuori della sede di lavoro ordinaria.  L’effettivo ammontare della indennità dipende dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro applicato nei vari settori, ad esempio per i metalmeccanici è previsto un contributo di 42,85 euro per la trasferta a cui si aggiunge una quota di 11,73 euro per il pasto e 19,39 per il pernottamento. In edilizia si applica il 10% sul valore della retribuzione giornaliera. Per gli studi professionali la trasferta è di 15 euro per i trasferimenti che durano da 8 a 24 ore e di 30 euro per le missioni di durata superiore a 24 ore. Queste somme sono previste solo nel caso di calcolo forfettario cioè quando non è previsto che siano documentate le spese.

Il calcolo del rimborso dell’indennità di trasferta

Il rimborso dell’indennità di trasferta si compone di  diversi elementi:

  • vitto;
  • alloggio;
  • trasporto;
  • retribuzione vera e propria.

Queste componenti possono essere calcolate in modo diverso, cioè l’azienda può scegliere di dare un rimborso dell’indennità di trasferta forfettario e quindi onnicomprensivo, oppure scegliere il metodo analitico o misto.

Il rimborso analitico invece prevede che il lavoratore alleghi e piè di pagina una rendicontazione dettagliata delle singole spese sostenute in occasione della trasferta e per la trasferta, in questo caso è necessario che lo stesso conservi:

  • scontrini fiscali che riportino i dati fondamentali della transazione e quindi la data, la natura del bene o servizio acquistato, la quantità e il codice fiscale dell’acquirente;
  • il lavoratore deve inoltre rendicontare l’uso fatto della eventuale carta di credito aziendale e infine le fatture per i costi sostenuti;

Il rimborso forfettario prevede una somma fissa erogata al lavoratore per ogni giorno di lavoro fuori dalla sede abituale e non prevede alcuna forma di rendicontazione delle spese.

Il rimborso misto prevede che l’indennità di trasferta sia formata da due parti, una relativa a vitto o alloggio per la trasferta e una forfettaria che rappresenta una sorta di premio per il lavoratore.

Le spese per il trasporto, qualunque sia il metodo adottato per il rimborso dell’indennità di trasferta, in ogni caso sono rimborsate a parte.

Le somme effettivamente non sottoposte a tassazione

Il rimborso spese va effettivamente ad interagire con gli importi massimi detassati visti prima nel comma 5. Se al lavoratore viene riconosciuto il rimborso spese per vitto o alloggio gli importi prima visti sono ridotti di 1/3, se al lavoratore viene riconosciuto il rimborso per vitto e alloggio gli importi sono ridotti di 2/3. Ciò implica che:

  • nel caso in cui al lavoratore sia riconosciuto il rimborso spese per il vitto o l’alloggio (sistema misto), l’indennità di trasferta massima non tassata corrisponde a 30,98 euro giornalieri (riduzione di un terzo), elevato a 51,64 euro per le trasferte estero;
  • nel caso in cui al lavoratore sia riconosciuto il rimborso spese sia per il vitto, sia per l’alloggio (sistema analitico), il beneficio dell’esenzione si applica solo su 15,49 euro giornalieri (riduzione di due terzi), elevato a 25,82 euro per le trasferte all’estero.

E’ bene precisare che le voci del “rimborso spese” comunque non sono considerate reddito.

Note finali

Occorre fare attenzione: gli importi visti non sono i messimi erogabili per la trasferta, si tratta infatti sono delle quote che non contribuiscono a formare il reddito e quindi sono detassate, come abbiamo visto prima facendo riferimento ai CCNL, le somme che le aziende possono erogare ai lavoratori per la diaria o indennità di trasferta possono essere anche più alte.

Appare evidente che i benefici fiscali legati all’indennità di trasferta appaiono piuttosto esigui, proprio per questo il lavoratore potrebbe sentirsi poco incentivato ad accettare la trasferta. Deve però essere sottolineato che nel caso in cui il lavoratore rifiuti sistematicamente di lavorare in trasferta, può essere licenziato.

Infine, occorre ricordare che il lavoratore può ottenere anche il rimborso chilometrico, questo è dovuto nel caso in cui il lavoratore debba usare la propria auto, o noleggiare un’auto, per recarsi nella sede di lavoro non abituale.

 

Rendita vitalizia dei contributi prescritti: quando è possibile il riscatto?

Per un lavoratore, i periodi non coperti o con insufficienti contributi previdenziali rappresentano un danno per la sua futura pensione. La legge permette di rimediare, anche nel momento in cui il termine di prescrizione sia scaduto. Si tratta della rendita vitalizia, lo strumento mediante il quale si possono riscattare in modo oneroso i periodi non coperti o carenti di contributi previdenziali. Il riscatto può avvenire da parte del datore di lavoro o, in mancanza, per iniziativa del lavoratore stesso.

Circolare Inps numero 78 del 29 maggio 2019

Sulla questione è intervenuta recentemente l’Inps con la circolare numero 78 del 29 maggio 2019. Nel documento l’Istituto di previdenza elenca i dettagli procedurali per la presentazione della domanda e l’indicazione dei mezzi di prova che supportano la richiesta. La prova documentale dell’esistenza del rapporto di lavoro, la data certa, l’esistenza certa, le dichiarazioni ora per allora e quelle dalla Pubblica amministrazione, le attestazioni del sindaco sono altresì precisate nella medesima circolare. Tuttavia, l’istituto del riscatto dei contributi omessi risale già all’articolo 13 della legge numero 1338 del 1962.

La legge 1338 del 1962 sulla costituzione della rendita vitalizia

Secondo la legge, infatti, “il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione ai sensi dell’articolo 55 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, numero 1827, può chiedere all’Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi”.

Rendita dei contributi prescritti, effetto immediato sulla pensione

La stessa legge specifica che la rendita dei contributi prescritti integra con effetto immediato la pensione già in essere. In caso contrario, i contributi sono valutati ai fini dell’assicurazione obbligatoria prevista per la pensione di invalidità, per la vecchiaia e a favore dei superstiti.

Contributi prescritti, quando il pagamento spetta al datore di lavoro

Il datore di lavoro può esercitare la facoltà del versamento dei contributi prescritti esibendo all’Inps i documenti di data certa, dai quali si evince l’effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro. Deve risultare, inoltre, anche la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore stesso.

Quando i contributi prescritti devono essere versati dal lavoratore?

I contributi prescritti possono essere versati dal lavoratore nel momento in cui non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita. In questo caso, il lavoratore si sostituisce al datore di lavoro, salvo il diritto del risarcimento del danno. Ricade sul lavoratore stesso l’onere di fornire all’Inps le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione. Tra i soggetti interessati alla costituzione della rendita vitalizia rientrano anche i superstiti del lavoratore.

Quando può essere presentata la domanda all’Inps dei contributi prescritti?

La domanda dei contributi prescritti può essere presentata all’Inps senza limiti temporali, anche dopo il verificarsi del pagamento di un trattamento di pensione. È inoltre ammessa la domanda per omissioni parziali, nel caso in cui sia stata versata una contribuzione parziale rispetto alle retribuzioni che sono state percepite effettivamente. Infine, si può presentare domanda dei contributi prescritti anche per coprire parzialmente il periodo durante il quale si sia verificata omissione contributiva. Ad esempio, il riscatto può avvenire solo per le settimane necessarie per perfezionare i requisiti della pensione.

Chi sono i destinatari del riscatto o della costituzione della rendita vitalizia?

La circolare Inps 78 del 29 maggio 2019 riporta compiutamente i destinatari dello strumento del riscatto dei contributi omessi, ovvero gli interessati alla costituzione della rendita vitalizia. Infatti, figurano:

  • i lavoratori di un rapporto di lavoro subordinato;
  • i familiari coadiuvanti e coadiutori di chi è titolare di impresa artigiana o commerciale;
  • i collaboratori del nucleo diretto coltivatore diversi dal titolare e collaboratori dei nuclei colonici e mezzadrili;
  • i lavoratori che, essendo soggetti al regime assicurativo della gestione separata, non siano obbligati al versamento diretto della contribuzione, essendo la propria quota trattenuta dal committente o associante e versata direttamente da quest’ultimo;
  • gli iscritti alla Cassa per le pensioni degli insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate.

Prescrizione dei contributi, quale attesa?

Il presupposto per attivare l’istituto del riscatto dei contributi omessi è che i contributi stessi siano caduti in prescrizione. Ciò avviene al trascorrere di cinque anni se la domanda viene presentata dal datore di lavoro e di dieci anni se è invece il lavoratore stesso a farne denuncia all’Inps.

Quanto si paga per riscattare i contributi omessi nel sistema retributivo?

Se i periodi per i quali si richiede il riscatto dei contributi omessi rientrano nel meccanismo retributivo, il costo viene calcolato in termini di “riserva matematica”. Ciò significa che si effettua il differenziale annuo tra la pensione con il riscatto dei contributi e quella senza il riscatto. Il risultato va moltiplicato per il coefficiente inerente al sesso, all’età e all’anzianità contributiva.

Costo del riscatto dei contributi omessi nel sistema contributivo

Diverso è il calcolo del riscatto di periodi di contributi omessi rientranti nel sistema contributivo. In questo meccanismo rientrano i lavoratori:

  • che abbiano iniziato a versare contributi a partire dal 1° gennaio 1996 e con meno di 18 anni di contribuzione prima del 1996;
  • i periodi dal 2012 in poi per contribuenti che abbiano almeno 18 anni di contributi versati prima del 1996.

Per queste categorie di contribuenti il costo è quantificato applicando l’aliquota contributiva in vigore nel momento in cui si presenta domanda alla retribuzione percepita nei 12 mesi precedenti la domanda stessa. Si tratta di un sistema simile, dunque, al riscatto della laurea per chi non può beneficiare del sistema agevolato dell’articolo 4 del 2019.

Costo riscatto contributi iscritti alla Gestione separata Inps, artigiani e commercianti

Per i contribuenti iscritti alla Gestione separata Inps il costo del riscatto di periodi di omessa contribuzione fa riferimento al valore medio mensile dei compensi assoggettati alla contribuzione obbligatoria degli ultimi dodici mesi precedenti la domanda stessa. Non è stato ancora chiarito, invece, quale sia il reddito sul quale debbano far riferimento gli artigiani e i commercianti per il riscatto dei periodi non coperti.

Sanzioni fiscali tributarie, non ricadono sugli eredi

Gli eredi non sono obbligati a pagare le sanzioni fiscali del congiunto venuto a mancare. La Corte di Cassazione con l’ordinanza n 6500/2019 ha chiarito che le sanzioni pecuniarie amministrative previste per la violazione delle norme tributarie non si trasmettono agli eredi, visto il loro carattere afflittivo.

Le sanzioni tributarie non si ereditano

Nel caso in questione esaminato, il testatore aveva omesso o errato un versamento relativo all’IMU in relazione a un terreno edificabile. I figli del de cuius che aveva pagato l’imposta come se l’appezzamento fosse agricolo, quindi, in misura molto minore rispetto a quanto non comporterebbe l’entità del pagamento di un terreno su cui è possibile costruire hanno presentato ricorso in Cassazione opponendosi all’atto impositivo dopo che la Ctp e la Ctr Roma avevano dato ragione al Fisco. La sezione tributaria della Cassazione ha accolto il ricorso degli eredi, spiegando nella sentenza che le sanzioni amministrative previste per le violazioni delle norme tributarie hanno carattere afflittivo, quindi, da inquadrarsi nella categoria dell’illecito amministrativo di natura punitiva, disciplinato dalla legge n. 689 del 24 novembre 1981, in quanto commisurate alla gravità della violazione e alla persona del trasgressore, con la conseguenza che ad esse si applica il principio generale fissato dall’articolo 7 della legge n. 689/1982 di cui sopra, secondo il quale gli eredi non sono tenuti al pagamento della somma dovuta (Cass. civ. sez. V., 28/05/2008, n.13894; Cass. civ. sez V 15.10.2018, n. 25644)..

IMU su terreno edificabile

Sul caso del versamento dell’IMU, i giudici di Cassazione hanno confermato l’interpretazione del Fisco. Ossia, che ai fini dell’applicazione dell’IMU è da considerarsi edificabile solo se usato a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, a prescindere dall’approvazione della regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo; ciò determina quella che può considerarsi una vera e propria “impennata” di valore rilevante ai fini fiscali (cfr. Cass. s.u. n. 25506/2006 cit.; Cass. sez. V n. 4952/2018).

Per tutto questo, il ricorso iniziale del contribuente è stato accolto limitatamente alle sanzioni che così non sono state pagate, tuttavia, gli eredi sono tenuti al pagamento dell’imposta chiesta dal Comune. Relativamente all’IMU, la Giurisprudenza tende a considerare l’imposta non spettante agli eredi, bensì al coniuge superstite che continua ad abitare in casa sua. Molto, dipende dallo specifico contesto. In conclusione, la Corte di Cassazione conferma che l’imposta va pagata ma che le eventuali sanzioni non sono trasmissibili agli eredi, in nessun caso.