Come aprire un’associazione culturale 2021: i passi da compiere

Aprire un’associazione culturale consente di svolgere molte attività che appunto possono essere definite di promozione culturale in senso ampio, come protezione ambientale, musica, scienze, teatro e tante altre attività considerate affini. Di conseguenza sono sempre più numerose le persone che si chiedono come costituire un’associazione culturale. Qui saranno delineati i passaggi chiave.

Costituire un’associazione culturale passo dopo passo

Le associazioni culturali fanno rientrano tra i soggetti che sono stati coinvolti nella riforma del Terzo Settore che è ancora in via di definizione in quanto non sono stati emanati tutti i decreti attuativi previsti dalla legge delega 6 del 2016. In questa guida quindi si cercherà di delineare cosa occorre per aprire un’associazione culturale nel 2021 e ottenere benefici fiscali, ad esempio questo tipo di attività può ottenere anche il 2×1000 dell’IRPEF, si tratta di contributi che possono essere utilizzati per gli scopi istituzionali dell’associazione stessa.

Per conoscere le attività che possono svolgere le associazioni culturali leggi l’approfondimento.

Per aprire un’associazione culturale sono necessarie almeno 3 persone (devono coprire almeno i ruoli essenziali all’interno dell’associazione culturale), queste devono redigere uno statuto e un atto costitutivo. L’associazione deve quindi essere registrata presso l’Agenzia delle Entrate, in questo modo potrà avere il codice fiscale che va a identificare l’associazione. Infine occorre inviare il modulo telematico EAS ( si tratta di un modello di trasmissione dati specifico per gli enti associativi che operano senza scopi di lucro, deve essere inviato entro 60 giorni dalla costituzione dell’ente e deve essere nuovamente presentato quando cambiano i dati trasmessi, in questo caso la modifica deve essere comunicata entro il 31 marzo dell’anno successivo rispetto a quello in cui si è verificata la variazione). Ora l’associazione culturale può iniziare le sue attività.

Aprire un’associazione culturale: limiti costituzionali

Finora sono stati elencati in modo generico i passi da compiere per poter costituire un’associazione culturale, ora vediamo nel dettaglio quelle che possono essere le fasi più complesse.

Sicuramente la parte più difficile è redigere lo statuto e l’atto costitutivo, infatti la legge detta dei criteri piuttosto stringenti.  Lo statuto e l’atto costitutivo rappresentano un vero e proprio contratto tra le parti e devono delineare tutti i tratti salienti dell’associazione stessa. La prima cosa da sottolineare è che questi atti devono contenere l’indicazione dell’oggetto sociale e dello scopo che la società stessa intende perseguire. In questo caso il limite più importante è rappresentato dalla Costituzione che all’articolo 18 stabilisce : i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”. L’organizzazione militare in Italia è riservata solo allo Stato.  In questo caso l’obiettivo è tutelare lo Stato dalla possibile organizzazione di associazioni che abbiano fini sovversivi.

Gli elementi dell’atto costitutivo

Nell’atto costitutivo devono essere indicati, oltre allo scopo anche:

  • data, luogo, ora in cui i soci fondatori si sono riuniti per costituire l’associazione;
  • denominazione dell’associazione;
  • generalità dei soci fondatori (nome cognome, codice fiscale residenza).

In allegato deve essere inserito lo Statuto .

Gli elementi dello Statuto

A questo punto occorre delineare il contenuto dello Statuto, altro documento essenziale per poter costituire un’associazione culturale.

Questo deve indicare:

  • denominazione dell’associazione;
  • sede legale;
  •  scopo;
  • patrimonio (comprende quote versate dai soci fondatori, donazioni eventuali);
  • organizzazione dell’associaizone;
  • diritti e obblighi degli associati, condizioni per essere ammessi come associati e quelle di esclusione;
  • norme sull’ordinamento e sull’amministrazione ( ad esempio maggioranze richieste per l’approvazione delle varie tipologie di atti);
  • rappresentanza conferita ai vari organi (presidente, amministratore, vice presidente).

Lo Statuto quindi entra più nel dettaglio e va a disciplinare come dovranno essere svolte le attività dell’associazione culturale.

Ad esempio nello statuto devono essere delineate in modo abbastanza preciso le attività che l’associazione culturale può svolgere, inoltre sono indicate le maggioranze necessarie per adottare le decisioni, le funzioni dei vari organi, cioè il consiglio direttivo e l’assemblea. Nello statuto devono essere indicate le modalità per l’uso del fondo comune, regole per il conferimento delle deleghe e dei poteri di rappresentanza dell’ente verso i terzi, disciplina per l’elezione delle varie cariche elettive. Lo Statuto è un atto molto importante che non regola solo il momento costitutivo e la vita dell’associazione, ma anche l’eventuale momento terminale, devono quindi essere indicate le modalità per lo scioglimento dell’associazione e le norme relative alla dismissione dell’eventuale patrimonio accumulato.

Requisiti necessari per ottenere i benefici fiscali

Naturalmente quando si decide di aprire un’associazione culturale l’obiettivo è anche il regime fiscale di favore previsto dall’articolo 148 del TUIR che considera le operazioni svolte da tale tipo di associazioni come non commerciali. Per poter ottenere tale beneficio è però necessario che l’atto costitutivo e lo statuto prevedano obbligatoriamente che:

  • l’attività sia svolta senza scopo di lucro;
  • deve prevedere il divieto di distribuire, in forma diretta o indiretta utili, fondi o riserve agli associati;
  • deve indicare come saranno devoluti eventuali fondi e utili presenti nell’associazione culturale al momento del suo scioglimento ( questi non possono essere distribuiti tra gli associati e devono essere devoluti ad associazioni/enti che abbiano finalità simili a quelle perseguite dall’associazione che si sta sciogliendo);
  • statuto e atto costitutivo devono assicurare il diritto di voto a tutti gli associati (le associazioni culturali per ottenere i benefici fiscali devono attenersi al principio democratico);
  • obbligo di redigere il bilancio e il rendiconto finanziario annuali;
  • norme sulla eleggibilità degli organi associativi;
  • criteri per la pubblicità delle attività svolte.

La particolare complessità degli adempimenti previsti e in particolare la redazione degli atti, suggerisce comunque di avvalersi dell’aiuto di un professionista per la redazione degli atti. Ricordo, infine, che sia l’atto costitutivo, sia lo statuto devono essere sottoscritti dagli associati al momento della costituzione dell’associazione stessa.

 

 

 

 

Aiuti Covid, reddito di ultima istanza fuori dalla base imponibile del professionista

Il reddito di ultima istanza, misura adottata per gli aiuti nell’emergenza Covid, non rientra nella formazione della base imponibile ai fini fiscali. Il caso più comune che può presentarsi è quello del libero professionista, con partita Iva a regime forfettario, che ha ricevuto l’indennità del mese di marzo del 2020 dalla propria Cassa previdenziale.

Il reddito di ultima istanza a favore dei professionisti del mese di marzo 2020

E’ importante rilevare che il reddito di ultima istanza, differentemente dalle indennità corrisposte dall’Inps, non comporta, da parte della Cassa previdenziele che l’ha corrisposto, l’obbligo di rilasciare la certificazione unica (Cu). Ciò implica l’insorgenza di due dubbi in sede di dichiarazione dei redditi 2021: il primo riguarda proprio la formazione del reddito ai fini fiscali. Il secondo è inerente a dove devono essere indicati gli aiuti ricevuti nel modello Reddti Pf 2021.

Indennità di 600 euro ai professionisti iscritti alle Casse previdenziali

Innanzitutto, per capire come funziona il “Fondo per il reddito di ultima istanza” è necessario risalire al decreto legge numero 18 del 2020 che l’ha istituto. Secondo quanto prevede l’articolo 44 del provvedimento, l’indennità prevista una tantum dal decreto per il mese di marzo 2020 ammontava a 600 euro e andava a favore dei liberi professionisti iscritti alle Casse previdenziali. I beneficiari, per rientrare nei requisiti previsti, dovevano essere iscritti alla Cassa di appartenenza alla data della richista o al 23 febbraio 2020, data a partire dalla quale i provvedimenti restrittivi per la pandemia da coronavirus sono stati attivati.

Requisiti delle partite Iva per il bonus 600 euro di ultima istanza

I requisiti richiesti ai professionisti per poter beneficiare dei 600 euro del reddito di ultima istanza erano:

  • aver maturato, nel 2018, un reddito complessivo non superiore ai 35mila euro. Era altresì necessario che l’attività fosse stata limitata dai provvedimenti restrittivi anti-coronavirus;
  • un reddito complessivo nel 2018 tra i 35mila e i 50mila euro. In tal caso era richiesa la cessazione, la riduzione o la sospensione dell’attività autonoma o da libero professionista in conseguenza dell’emergenza sanitaria.

Riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per Covid

Conseguentemente alle misure restrittive dovute all’emergenza sanitaria, per cessazione dell’attività il provvedimento intendeva la chiusura della partita Iva. Tale chiusura doveva essere avvenuta tra il 23 febbraio 2020 e il 31 marzo 2020. Per riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, invece, il decreto fissata nel 33% la percentuale di abbassamento del reddito. La perdita doveva essere comprovata dal raffronto tra il primo trimestre del 2020 con lo stesso periodo del 2019.

Indennità agli autonomi dell’emergenza Covid non concorrono alla base imponibile

I professionisti che hanno ricevuto l’indennità di 600 euro come reddito di ultima istanza devono considerare che il sussidio non concorre alla frmazione del reddito ai fini fiscali. In generale, i contributi di qualsiasi natura, ricevuti come indennizzo durante l’emergenza da coronavirus a chi svolge attività di impresa, arte o professione, nonché ai lavoratori autonomi, costituiscono un aiuto economico eccezionale. Dunque, indennità e bonus percepiti non concorrono a formare la base imponibile.

L’interpello dell’Agenzia delle entrate sulla tassazione dei contributi Covid

L’Agenzia delle entrate ha recentemente confermato questo principio nell’interpello numero 84 del 2021. Le indennità, si legge nell’interpello, non formano il reddito imponibile ai fini Irpef. L’Agenzia, nel suo intervento, si rifà all’articolo 10-bis del decreto legge numero 137 del 28 ottobre 2020, cosiddetto “decreto Ristori“.

Il decreto Ristori sulla detassazione dei contributi ricevuti per il coronavirus

L’articolo, ribricato in “Detassazione dei contributi, delle indennità e di ogni altra misura a favore delle imprese e dei lavoratori autonomi, relativi all’emergenza Covid-19”, prevede infatti che “i contributi e le indennità di qualsiasi natura per la Covid-19 e diversi da quelli esistenti prima della medesima emergenza, da chiunque erogati e indipendentemente dalle modalità di fruizione e contabilizzazione, spettanti ai soggetti esercenti impresa, arte o professione, nonché ai lavoratori autonomi, non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e del valore della produzione ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) e non rilevano ai fini del rapporto di cui agli articoli 61 e 109, comma 5, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917″.

Dichiarazione dei redditi 2021, dove si devono indicare le indennità ricevute per il Covid?

In sede di dichiarazione dei redditi 2021, i titolari di reddito di impresa o di lavoro autonomo devono trascrivere nella dichiarazione gli aiuti ricevuti. Tale trascrizione deve essere fatta nel quadro di pertinenza individuato in base al proprio regime di  fiscalità di appartenenza. Pertanto, si procede con:

  • il quadro RG per le imprese in regime di contabilità semplificata;
  • il quadro RF per le imprese in regime di contabilità ordinaria;
  • quadro LM per i contribuenti in regime forfettario;
  • quadro RE per i professionisti e per gli autonomi.

 

Cosa fa un’associazione culturale? Scopriamo insieme le caratteristiche

Quando più persone vogliono realizzare un obiettivo comune, senza scopo di lucro, possono costituire un’associazione culturale,  ma di cosa si tratta, perché in Italia ce ne sono tante e cosa fanno esattamente?

Associazione culturale: cos’è

La prima cosa da sottolineare è che in Italia l’articolo 18 della Costituzione prevede la libertà di associazione, c’è un unico limite, cioè non devono perseguire fini che sono vietati ai singoli dalle leggi penali. Sono naturalmente vietate le associazioni segrete che perseguono fini incompatibili con quelli dello Stato. Le associazioni culturali nascono con l’obiettivo di porre in essere delle attività culturali, quelle che si possono compiere sono davvero molte, ad esempio è possibile costituire un’associazione culturale con l’obiettivo di organizzare dei corsi, oppure per svolgere attività di promozione culturale, ad esempio si può costituire un’associazione culturale con l’obiettivo di organizzare delle rappresentazioni teatrali, corsi per attori, serate di lettura e simili.

Per poter formare un’associazione culturale è necessaria la presenza di più persone che condividono un obiettivo, si è già detto che la stessa non deve avere scopo di lucro, ma non è detto che la stessa non possa avere utili, l’importante è che gli stessi siano investiti comunque nell’organizzazione delle attività della stessa associazione. La divisione di un eventuale patrimonio non può avvenire neanche successivamente, ad esempio al momento dello scioglimento dell’associazione, in questo caso se vi sono fondi devono essere donati ad associazioni che svolgono attività simili alle proprie.  La volontà di associarsi deve essere formalizzata attraverso un atto costitutivo e nella redazione dello statuto a cui può seguire l’apertura della partita IVA, questi aspetti saranno visti nei prossimi appuntamenti sull’argomento, ciò che ora preme è capire cosa può effettivamente fare un’associazione culturale.

Cosa può fare un’associazione culturale

Per capire qual è l’ambito in cui operano le associazioni culturali bisogna andare alle origini, cioè cosa si intende per cultura? Anche in questo caso si può dire che non esiste una sola definizione, il termine deriva dal latino Colere che vuol dire coltivare, in genere si identifica la cultura come il complesso di manifestazioni di tipo intellettuale, materiale, sociale e spirituale che in un determinano momento storico caratterizzano una comunità. Si parla in genere di cultura dello sport, della musica, del cinema… cioè di cultura come l’insieme degli elementi che vanno a connaturare un gruppo di persone anche di tipo limitato.

Proprio a causa della genericità  del termine cultura e culturale e alle diverse sensibilità che caratterizzano le persone, che possono avere interessi svariati e tutti meritevoli di tutela perché in un modo o nell’altro contribuiscono allo sviluppo del Paese, le associazioni culturali possono costituirsi per svolgere una miriade di attività e avere scopi associativi davvero molto ampio.

Perché in Italia sono nate tante associazioni culturali?

In Italia si contano numerose associazioni culturali, tra cui quelle sportive il cui scopo è appunto trasmettere, diffondere la cultura di un determinato sport o dello sport in generale. In Italia la diffusione di tale tipologia di associazione si è avuta soprattutto dal 2016 quando il DPCM del 21 marzo le ha rese potenziali destinatarie del 2 x 1000 IRPEF, da questo momento sono fiorite e con svariati obiettivi. L’articolo 1 del DPCM dice che possono accedere a tali benefici le associazioni abbiano, secondo il rispettivo atto costitutivo o statuto, la finalità di svolgere e/o promuovere attività culturali.

Di fatto le richieste di accesso al privilegio sono state numerose e hanno riguardato:

  • associazioni per la tutela del patrimonio culturale materiale e immateriale (archivi, biblioteche, minoranze linguistiche, tradizioni religiose ed enogastronomiche, solo per citarne qualcuna);
  • le associazioni culturali per la tutela del patrimonio naturalistico (riserve, aree protette, parchi);
  • associazioni culturali per la diffusione di varie arti (fotografia, musica, cinema, danza, teatro musicale, architettura, arte filodrammatica, cori, bande musicali, scultura, letteratura);
  • infine, associazioni culturali dedite alla stampa e pubblicazione di opere letterarie, scientifiche, fumetti, giornali…

Tra coloro che hanno richiesto in quanto associazioni culturali di poter rientrare nel beneficio del 2 per 1000 IRPEF vi sono anche associazioni culturali che si occupano della diffusione della cultura dei video-giochi, entrati ormai a pieno titolo tra le “attività culturali” visto che richiedono abilità e preparazione.

Alternative alle associazioni culturali

Questi sono solo alcuni esempi che si possono evincere dalle richieste fatte per le agevolazioni viste, occorre ricordare fin da ora che molte delle realtà che abbiamo visto possono presentarsi anche con altre forme sociali e addirittura avere maggiori benefici, ad esempio ci sono le ASD (Associazioni Sportive Dilettantistiche), ONLUS, APS (Associazioni di Promozione Sociale). Le associazioni culturali, oltre a poter accedere al 2 x 1.000 IRPEF possono anche avere altre entrate, ad esempio quote di iscrizione da parte degli associati, vedremo nel prosieguo come possono essere trattate fiscalmente le entrate.

 

Guadagni nel franchising: come funzionano e a quanto ammontano?

Se stai pensando di investire nel franchising, sicuramente ti stai chiedendo come funzionano i guadagni in questo particolare tipo di attività, in questa piccola guida si proverà a delineare una casistica.

I guadagni del franchising

Sicuramente ti è capitato di vedere in giro degli importanti franchising che funzionano bene e offrono la possibilità agli affiliati di avere dei buoni guadagni, sicuramente è possibile, ma in ogni caso è bene prestare attenzione. La legge che disciplina questo contratto è la 129 del 2004, ma come puoi notare dall’articolo qui pubblicato, non parla dei guadagni, questo vuol dire che su tale punto le parti hanno libertà contrattuale e determinano come saranno suddivisi i guadagni senza particolari paletti dettati  dalla legge, anche se la stessa protegge l’affiliato attraverso norme che dovrebbero garantire trasparenza e lealtà.

Naturalmente la società che detiene un marchio in franchising propone contratti uguali o molto simili a tutti gli affiliati e questo può sicuramente essere un vantaggio perché permette a chi vuole affiliarsi di controllare bene come funziona il sistema. Ricorda che in ogni caso puoi avere il contratto di franchising tre mesi prima della data prevista per la sottoscrizione e può visionare i bilanci degli ultimi tre anni, questo ti consente di capire se l’investimento è remunerativo. 

Franchising: come funzionano i guadagni

Per capire come funzionano i guadagni nel franchising è necessario partire da alcuni punti base, in primo luogo i guadagni effettivi dipendono dalle percentuali sui prezzi di vendita dei prodotti che devono essere corrisposte ai franchisor. Naturalmente un marchio ben posizionato sul mercato, che attrae molti clienti fidelizzati può portare dei guadagni immediati anche abbastanza buoni.

In secondo luogo occorre ricordare che i prezzi sono imposti dal franchisor, questo vuol dire che c’è un margine di libertà davvero irrisorio, in poche parole non si possono fare sconti per attirare la clientela in completa autonomia.

Si è detto che per entrare in un investimento franchising è necessario versare un fee di ingresso e che questo consente di avere allestimenti, formazione, uso del marchio, esclusiva in una determinata zona corrispondente comunque a un potenziale bacino di utenza. Non solo, infatti il franchisor mette a disposizione i prodotti/servizi e trattiene per sé una percentuale dei guadagni (royalty) che naturalmente non corrisponde al costo del prodotto, cioè se produrre una maglietta costa 5 euro è molto probabile che la stessa sia messa in vendita a 10 euro e che il franchisor trattenga per sé 7 /8 euro. La percentuale che trattiene il franchisor dipende da diversi fattori, ma non è determinata per legge, questo vuol dire che c’è ampia autonomia contrattuale.

Come calcolare i guadagni

Prima di investire in questo settore, per capire come funzionano guadagni nel franchising è bene ricordare che il costo dell’affitto dei locali, dei dipendenti e delle utenze nella maggior parte dei casi, praticamente tutti, sono a carico del franchisee.

In linea di massima i franchising in cui si può guadagnare bene sono quelli in cui vi è un ricarico sul prezzo del prodotto abbastanza alto, in questo modo è possibile dare un buon ritorno sia al franchisor che la franchisee.

Occorre comunque prestare molta attenzione perché se sono previsti costi di formazione a carico dell’affiliato nell’arco della durata del contratto, questi comunque vanno a intaccare i guadagni del franchisee o affiliato.

In media è stato calcolato che il guadagno netto di un franchising in media è di 2.083 euro al mese, ma appare del tutto ovvio che ci sono delle oscillazioni davvero molto forti tra un marchio e un altro.

Come funzionano i guadagni nel franchising: esempi

Non è semplice capire come funzionano i guadagni nel franchising perché ogni  marchio ha le sue peculiarità e non sempre sono disponibili informazioni certe. Possiamo fare qualche esempio sui nuovi marchi. 

Cannabis Store Amsterdam

Appare interessante Cannabis Store Amsterdam, si tratta di un franchising in si vende cannabis legale e suoi derivati (caramelle, caffè, biscotti e simili). La formula è abbastanza interessante, si possono scegliere due soluzioni, cioè vendita da asporto o locale bar in cui è possibile consumare, parliamo sempre di prodotti derivati dalla cannabis legale. L’investimento iniziale dipende dalla formula scelta: la vendita per asporto prevede un investimento di 19.900 euro, mentre la formula store con bar 29.900 euro. Nel primo caso basta avere un locale compreso tra i 15 e i 30 mq, nel secondo tra i 30 e i 50 mq.

Il contratto prevede solo l’obbligo di vendere esclusivamente prodotti del loro marchio, ma non vi sono royalty da pagare sulle vendite, quindi non si deve versare una percentuale sulle vendite effettuate, l’incasso resta al franchisee. Viene “assicurato”, o  meglio stimato, un incasso che varia da 500 euro al giorno a 8000 euro. Occorre però sottolineare che quando si parla di incassi, non si parla di guadagni, infatti dall’incasso devono essere sottratti i costi della materia prima (è probabile che l’affiliante abbia comunque alla base un ricarico sul prezzo visto che non richiede percentuali sul guadagno). Dall’incasso occorre detrarre canone di locazione, costi per i dipendenti, costi per imposte e tasse varie, utenze (dati ricavati dal sito aprireunfranchising.it).

Intimissimi/Calzedonia

Un altro marchio che non applica royalty sulle vendite è Intimissimi/Calzedonia, in questo caso l’investimento iniziale è più alto, ma la casa madre ha campagne pubblicitarie costanti su riviste e cartellonistica, mette a disposizione formazione ed è tutto curato con particolare meticolosità, appare uno dei franchising più solidi e il rapporto qualità/prezzo attrae una buona clientela.

Riscatto laurea agevolato: quanto conviene per la pensione?

Quali sono i vantaggi o gli svantaggi, sia per l’età di pensionamento che per l’importo della pensione, con il riscatto della laurea? In particolare, ci si riferisce al riscatto degli anni universitari con pagamento agevolato e a chi convenga questa operazione. Innanzitutto è importante determinare il costo del riscatto della laurea.

Riscatto della laurea per la futura pensione, quanto costa?

Il regime agevolato del costo inerente al riscatto della laurea deriva dal decreto numero 4 del 2019. Con il sistema agevolato si pagano, nel 2021, 5.264,49 euro per ogni anno di laurea da riscattare. Non sono da conteggiare gli anni di “fuori corso”. Dunque il massimo costo che si deve sostenere, nel 2021, per riscattare la propria laurea è di 26.322,45 euro per corsi di 5 anni e 21.057,96 per corsi di 4 anni.

Rateizzazione del costo del riscatto di laurea

Le cifre indicate per riscattare gli anni universitari possono essere rateizzate, senza l’applicazione degli interessi, fino a un massimo di dieci anni. Da un rapido costo, preferendo la rateizzazione dell’importo per tutti e dieci gli anni, il riscatto della laurea ai fini della futura pensione costerebbe 220 euro al mese per le lauree di cinque anni e 175 euro mensili per quelle di quattro anni. Il contributo annuale, tuttavia, può essere dedotto al 100% dall’imponibile fiscale. Se non si riuscisse più a pagare o si volesse interrompere il pagamento, la quota maturata fino a quel momento rimarrebbe valida ai fini dello sconto sull’età della pensione.

Riscatto agevolato della laurea, chi può richiederlo?

Il riscatto agevolato della laurea (con i calcoli tradizionali si potrebbe arrivare anche a cifre di 80mila euro), secondo quanto prevede il comma 6 dell’articolo 20, del decreto-legge numero 4 del 28 gennaio 2019, è un sistema riservato ai lavoratori che si collocano nel sistema contributivo della pensione. Si tratta, nello specifico, di chi abbia iniziato a lavorare e a versare contributi a partire dal 1° gennaio 1996.

Il riscatto agevolato della laurea per la pensione anche ai lavoratori pre 1996

Successive modifiche e interpretazioni del decreto 4 del 2019 hanno allargato la possibilità di riscatto agevolato della laurea anche a chi abbia contributi entro il 31 dicembre 1995. In questo caso, però, è necessario optare per il ricalcolo con il metodo contributivo degli anni di contributi previdenziali. È in ogni modo necessario che gli anni di contributi versati prima del 1996 siano:

  • meno di 18 anni;
  • che almeno 15 anni di contributi siano stati già versati alla data di richiesta del riscatto laurea;
  • che almeno cinque anni di contributi siano stati versati a partire dal 1996.

Pensione con riscatto laurea, cosa non vale?

I periodi universitari che non possono essere riscattati consistono in due tipologie:

  • gli anni di iscrizione fuori corso;
  • i periodi già coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa.

Come si richiede il riscatto agevolato della laurea?

La richiesta di riscatto della laurea può essere fatta online. Nello specifico è necessario accedere con il Pin del sito dell’Inps o rivolgersi al Caf per inoltrare la pratica. Dopo la presentazione della domanda, l’Inps verifica i documenti depositati e i requisiti vantati. L’Istituto previdenziale accerta anche il versamento di almeno un contributo previdenziale obbligatorio. Al termine delle verifiche, l’Inps invia i bollettini Mav da pagare insieme al provvedimento di accoglimento della domanda.

Come si paga il riscatto agevolato della laurea

Il pagamento dell’onere del riscatto della laurea avviene con l’utilizzo dell’Avviso di pagamento pagoPa. Per accedere al portale dei pagamenti è possibile utilizzare il proprio codice fiscale con il numero della pratica indicato nel provvedimento inviato dall’Inps.

Convenienza del riscatto laurea per la futura pensione

Ammettiamo che un contribuente, nato a febbraio del 1979, abbia conseguito una laurea di quattro anni nel 2004 e voglia riscattare il titolo di studio. Inoltre, il contribuente lavora dal 2006 in maniera continuativa. Sulla base dei dati in possesso, il lavoratore andrebbe in pensione con la vecchiaia nel 2048. Con gli aumenti previsti nel tempo dell’aspettativa di vita, l’età pensionabile slitterebbe a 69 anni.

Pensione anticipata contributiva con il riscatto laurea

Per un contribuente del sistema contributivo (con inizio dei versamenti dal 1° gennaio 1996 in poi) l’alternativa alla pensione di vecchiaia è la pensione anticipata contributiva. Si raggiunge a 64 anni di età (salvo gli adeguamenti della speranza di vita nel tempo) e con 20 anni minimi di contributi versati. Inoltre, il primo importo della futura pensione deve essere di 2,8 volte quello della pensione sociale. Nel caso preso in esame, il lavoratore andrebbe in pensione con questo meccanismo nel 2045.

Pensione anticipata con i requisiti della riforma Fornero

Con i requisiti della riforma Fornero per la pensione anticipata mediante versamento di 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne) la prima data utile per il pensionamento risulterebbe più avanti rispetto alla pensione di vecchiaia. Pertanto, questa possibilità non sarebbe conveniente. Anche riscattando la laurea, la prima data utile sarebbe nel 2046, meno conveniente della pensione anticipata contributiva a 64 anni che rimarrebbe la soluzione più praticabile per l’uscita prima da lavoro.

Importo della futura pensione con il riscatto della laurea

In merito all’importo della futura pensione, poiché il contribuente versa un onere per il riscatto della laurea, l’importo previdenziale futuro risulterebbe più elevato rispetto a quello di una pensione senza riscatto. Questo risultato deriva dal fatto che l’onere per riscattare la laurea va a determinare un incremento del montante contributivo della vita lavorativa del contribuente.

Auto aziendale come bene strumentale: vantaggi fiscali, limitazioni e rischi

I beni cosiddetti strumentali per un’impresa sono quelli che permettono di esercitare l’attività. Ragion per cui sono indispensabili e, tra l’altro, con il tempo questi beni vengono poi sostituiti con altri nuovi e più efficienti. Tra i classici beni strumentali spiccano le auto insieme ad altri veicoli, leggeri o pesanti, che permettono di esercitare l’attività d’impresa.

Basti pensare, per esempio, alle ditte dei settori edile e delle costruzioni, alle agenzie di noleggio ed alle scuole guida. L’auto aziendale come bene strumentale, inoltre, gode in Italia di benefici fiscali che sono rappresentati dalla detrazione piena dell’IVA ed anche dalla deducibilità al 100% dei costi di acquisto e di manutenzione.

Vantaggi fiscali, limitazioni e rischi per l’auto aziendale come bene strumentale

I vantaggi fiscali sopra indicati sono ammessi se e solo se l’auto aziendale viene utilizzata solo ed esclusivamente per l’esercizio dell’attività d’impresa. Altrimenti si rischiano contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate. In quanto per usi e per fini anche diversi da quelli lavorativi l’auto aziendale in realtà non sarà un bene strumentale.

E, con un cambio di fiscalità che è meno vantaggioso per l’impresa, il mezzo di trasporto dovrà essere inquadrato come auto aziendale ad uso promiscuo. Oppure come auto aziendale ad uso personale in quanto è concessa dall’impresa, sotto forma di un compenso in natura, ad un dipendente oppure ad un collaboratore.

Le due alternative all’auto aziendale come bene strumentale

Molte imprese, specie se al controllo del Fisco non riescono poi a dimostrare l’uso dell’auto aziendale come bene strumentale, optano per l’inquadramento dei mezzi di trasporto ad uso promiscuo oppure, come sopra detto, ad uso personale. In entrambi i casi cambia di netto la fiscalità in quanto si rientra nella disciplina del cosiddetto fringe benefit.

Nel dettaglio, l’auto che è inquadrata come mezzo aziendale ad uso promiscuo può essere utilizzata sia per l’esercizio dell’attività di impresa, sia al di fuori delle mansioni e degli orari di lavoro. Il che significa, in questo caso, che un collaboratore o un dipendente può utilizzare l’auto aziendale ad uso promiscuo pure per coprire il tragitto casa-lavoro, e ritorno, senza infrangere la legge. Mentre l’auto aziendale ad uso personale, concessa ad un collaboratore, ad un dipendente ed anche ad un dirigente oppure a un amministratore, si presenta in tutto e per tutto come un compenso in natura che è tassabile e che è concesso dall’impresa.

Cosa si rischia utilizzando l’auto aziendale per scopi e per fini personali

Se l’auto aziendale viene concessa dall’impresa solo ed esclusivamente come mezzo di trasporto per l’esercizio dell’attività, altri fini ed altri usi sono perseguibili. Un dipendente che utilizza l’auto aziendale come se fosse una vettura ad uso personale, oppure ad uso promiscuo, può anche rischiare il licenziamento.

In quanto il lavoratore, in qualsiasi modo, non deve sfruttare i beni di un’azienda a proprio vantaggio per trarne un’utilità o un profitto a titolo personale. Specie quando per l’uso dell’auto aziendale, per esempio, l’impresa ha dato al lavoratore i buoni carburante a copertura delle spese per fare il pieno alla vettura.

Quando cessa l’assegno di mantenimento al coniuge?

Quando due coniugi decidono di separarsi legalmente, su richiesta di quello economicamente più debole o che non percepisce alcun reddito proprio, il giudice attribuisce un assegno di mantenimento che dovrà essere corrisposto dal coniuge economicamente più forte. Ma per quanto tempo, quest’ultimo, è obbligato a pagare l’assegno di mantenimento?

Quanto dura l’erogazione periodica dell’assegno di mantenimento?

Per prima cosa, è bene fare una distinzione tra assegno di mantenimento e assegno divorzile. Il primo scatta con il giudizio di separazione e termina con la sentenza di divorzio, il secondo è attivo dal divorzio in poi. Tuttavia, questa è una risposta che si basa sull’arco temporale ed è anche abbastanza generica.

Innanzitutto, l’importo dei due assegni è spesso diverso. Infatti, quello di mantenimento ha l’obiettivo di garantire al coniuge beneficiario lo stesso tenore di vita tenuto durante il matrimonio. L’assegno di divorzile, invece, punta a garantire solo all’autosufficienza economica, per questo motivo, spesso è di misura inferiore all’assegno di mantenimento.

Ma non è detto che la sentenza di divorzio faccia scattare automaticamente il relativo assegno in sostituzione dell’assegno di mantenimento. Infatti, se nel frattempo il coniuge economicamente più debole ha trovato un lavoro o ha avviato un’attività commerciale o professionale per cui il reddito percepito è tale da renderlo completamente autosufficiente dal punto di vista economico, il giudice può rifiutare la richiesta di assegno divorzile.

Inoltre, la cessazione dell’assegno di mantenimento può terminare senza la sostituzione con quello divorzile, in quanto, in sede di divorzio gli ex coniugi hanno trovato un accordo alternativo.

Quando non spetta l’assegno di mantenimento

In precedenza, abbiamo solo preso in considerazione l’ipotesi che uno dei due coniugi sia nettamente più debole economicamente. Ma cosa succede se una delle due parti non lo è? In tal caso, l’assegno di mantenimento non è dovuto.

Inoltre, non ha diritto a percepire l’assegno di mantenimento il coniuge che ne ha fatto richiesta al giudice in sede di separazione, se la causa della fine del vincolo coniugale è ad esso addebitata. Ossia, nel caso in cui il coniuge richiedente è ritenuto colpevole della fine del matrimonio a causa di una condotta contraria agli obblighi che derivano dallo stesso.

In questo caso, il coniuge a cui è stata addebitata la separazione ha diritto solo agli alimenti, ossia un minimo sostegno economico che può servire al sostentamento economico strettamente necessario.

Quando cessa il diritto al mantenimento

Qualora dovessero cambiare durante il periodo di separazione le condizioni che hanno portato il coniuge più debole a ricevere l’assegno di mantenimento, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per chiedere che la misura venga revocata. Solitamente, ciò accade quando il coniuge beneficiario intraprende una convivenza con una terza persona. Tuttavia, non esiste un’apposita disposizione di legge che prevede l’automatica cessazione del mantenimento nel caso appena citato.

Dunque, resta nella facoltà del giudice decidere se revocare il mantenimento tramite la valutazione del caso. Per essere più precisi, la convivenza deve provata e documentata dal coniuge obbligato a versare l’assegno e considerata stabile. Può anche accadere che il giudice di non revocare l’assegno ma di ridurne l’importo.

Il diritto al mantenimento si perde anche se il coniuge beneficiario ha trovato un buon lavoro che gli permette di mantenere il tenore di vita con riferimento al periodo del matrimonio. Anche il cambiamento della sua situazione patrimoniale può portare alla cessazione del diritto all’assegno di mantenimento. E’ il caso di una cospicua somma di denaro ricevuta in eredità, oppure se il nuovo partner provvede totalmente al suo sostentamento a prescindere da un’eventuale convivenza.

Qualsiasi tipo di aiuto economico ricevuto dal coniuge avente diritto al mantenimento, se non è elargito permanentemente, non dà luogo alla cessazione dell’assegno.

Nel caso in cui il coniuge che percepisce l’assegno dovesse lavorare in nero e percepire un ottimo reddito, il coniuge obbligato al versamento del mantenimento dovrà dimostrarlo con tutti gli strumenti possibili, ad esempio, documentandone le spese, per poterne chiedere la revoca.

Il diritto al mantenimento cessa anche nel caso di morte del coniuge erogatore e quello superstite non potrà esigerlo da nessuno. Tuttavia, può ottenere una quota dell’eredità proporzionata all’importo dell’assegno ricevuto prima del decesso del coniuge, prendendo in considerazione anche la consistenza dell’eredità, il numero e le condizioni economiche degli eredi.

C’è da dire, che lo stesso discorso vale anche per il coniuge che percepisce l’assegno divorzile, nonostante la perdita dei diritti successori che il divorzio comporta.

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Franchising: chi paga i dipendenti il franchisor o il franchisee?

Il contratto di franchising ha sicuramente molti aspetti che richiedono attenzione e tra questi vi sono le clausole inerenti il trattamento economico e pensionistico di eventuali dipendenti presenti in sede. La domanda che spesso si pongono coloro che vogliono fare un investimento in franchising è: chi paga i dipendenti?

Chi paga i dipendenti nel franchising

La risposta alla domanda su chi paga i dipendenti nel franchising è molto simile a quella che abbiamo visto per il canone di locazione, quindi il singolo contratto può prevedere disposizioni diverse, ma  in linea generale i dipendenti li paga il franchisee in qualità di imprenditore autonomo.

La legge italiana che regola questo contratto è la 129 del 2004 che, come detto, lascia ampia libertà alle parti e di conseguenza non regola nel dettaglio il contenuto che deve avere il contratto, descrive gli obblighi delle parti e stabilisce all’articolo 5 comma 2 “L’affiliato si impegna ad osservare e a far osservare ai propri collaboratori e dipendenti, anche dopo lo scioglimento del contratto, la massima riservatezza in ordine al contenuto dell’attività oggetto dell’affiliazione commerciale”. Invece l’articolo 3 comma 4  lettera f stabilisce che il contratto deve indicare “le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione”. Quindi il contratto di franchising può anche prevedere la formazione obbligatoria per i dipendenti, ma questo non vuol dire che debba sostenerne i costi. In nessuna altra parte della normativa si tratta dei collaboratori, proprio per questo si può dedurre che c’è autonomia contrattuale.

L’autonomia del franchisee: quali spazi gli vengono riconosciuti

Molti potrebbero chiedersi il perché di questa domanda inerente chi paga i dipendenti nel franchising, in realtà non è così banale, infatti le politiche commerciali di chi stipula tali contratti sono elaborate dal franchisor che spesso detta delle linee guida molto meticolose e dettagliate inerenti molti punti dell’accordo al punto che alcuni imprenditori affiliati tendono a sentirsi quasi dei dipendenti anche loro. A fronte della scarsa autonomia dell’imprenditore affiliato, ci si potrebbe aspettare un impegno economico maggiore del franchisor, in realtà spesso è esattamente il contrario.

Ad esempio, possono essere imposte delle divise, dei criteri per la scelta dei dipendenti, può essere prevista la formazione obbligatoria per loro (in alcuni casi gratuita, in altri ricadente sul franchisee). Uno dei pilastri del franchising è conformarsi  alle istruzioni e alle procedure del franchisor perché deve essere data un’ immagine uniforme della catena, questo può anche voler dire che il franchisor può imporre determinati stipendi che in linea di massima potrebbero essere anche non in linea con quelli generalmente praticati per determinate mansioni in una determinata ubicazione.

Franchising: ecco un esempio di come vengono pagati i dipendenti

Nonostante questo, appare del tutto evidente che il contratto di franchising preveda che l’affiliato, o franchisee, si obblighi a corrispondere gli stipendi, gli oneri contributivi e previdenziali per il personale e i costi delle utenze. Pur cercando tra le più importanti catene di affiliazione dati inerenti il trattamento stipendiale dei dipendenti, in nessun caso è emerso che l’affiliante o franchisor, si occupi anche di questo aspetto.

Ad esempio McDonald’s prevede una piramide del personale molto definita, ma di fatto gli stipendi sono uniformi in tutta Italia, ma il versamento per coloro che lavorano in franchising resta a carico del franchisee. La posizione base è quella del Crew che per 24 ore settimanali prende circa 900 euro, i potenziali dipendenti sono prima selezionati attraverso i curriculum online e in seguito devono affrontare un colloquio.

McDonald’s ha una rete di distribuzione molto ampia, alcuni locali sono gestiti direttamente dalla società McDonald’s, altri sono affidati in franchising, nei primi gli stipendi sono erogati dalla catena, nei secondi dagli affiliati. I franchisee nella selezione devono rispettare i criteri della Multinazionale che in alcuni casi partecipa anche alla selezione, come accaduto con la rete gestita da Gianni Ieraci che dal 1996 ad oggi ha aperto 6 McDonald’s in provincia di Brescia (fonte: intervista rilasciata da Gianni Ieraci nel settembre 2016 al Corriere della Sera).

In ogni caso, prima di aprire un franchising, leggi bene il contratto che ti deve essere consegnato almeno 3 mesi prima e affidati alla consulenza di esperti scelti da te.

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Chi ha diritto all’assegno di mantenimento a seguito di separazione

Cos’è l’assegno di mantenimento? In sede di separazione legale, il giudice stabilisce un assegno di mantenimento mensile a favore del coniuge economicamente più debole che ne ha fatto richiesta. Si parla ancora di coniuge, in quanto solo dopo il divorzio si diventa ex coniuge. In tal caso, l’assegno di mantenimento si trasforma in assegno divorzile. Al contrario, quindi in assenza di richiesta, al fine di tutelare gli interessi economici e morali di eventuali figli, il giudice adotta dei provvedimenti che includono il contributo al mantenimento.

Assegno di mantenimento: quale funzione svolge

L’assegno di mantenimento ha una doppia funzione. Da una parte, fornire un sostegno economico al coniuge beneficiario al termine della convivenza ma in relativa continuità. Dall’altra, riconoscerne il ruolo e il contributo che ha dato alla formazione del patrimonio familiare e dei coniugi.

In caso di separazione consensuale, i coniugi si sono accordati sui rapporti personali e patrimoniali, quindi, sono proprio loro a fissare l’entità dell’assegno e il giudice si limita a confermare l’accordo preso senza entrare nel merito dei presupposti che hanno portato a tale decisione.

Diversamente, nella separazione giudiziale i coniugi non hanno raggiunto alcun accordo. In tal caso, spetta al giudice stabilire l’importo dell’assegno sulla base dei presupposti e dei redditi del coniuge erogante.

I presupposti per l’assegno di mantenimento

Affinché possa beneficiare dell’assegno di mantenimento, è necessario che il coniuge che lo ha richiesto non abbia subito l’addebito della separazione. Ossia, che non sia stato considerato il soggetto colpevole dell’evento a seguito di una condotta che ha reso la convivenza intollerabile e/o tale da recare grave pregiudizio all’eduzione dei figli. Tale addebito va richiesto dall’altro coniuge che deve dimostrare in sede di separazione la condotta del coniuge ritenuto colpevole e il nesso causale con la crisi della coppia. Dopodiché, spetta al giudice decidere se ci siano le condizioni per l’addebito.

Inoltre, il coniuge richiedente l’assegno non deve disporre di redditi propri, o comunque che si trovi in una condizione economica peggiore rispetto al coniuge che deve erogare il mantenimento. Quest’ultimo, però, deve anche trovarsi in una situazione economica tale da provvedere al pagamento dell’assegno.

Al fine di valutare l’adeguatezza della condizione economica del coniuge obbligato, è da prendere in considerazione lo squilibrio patrimoniale esistente tra i due soggetti separati. La relativa valutazione viene effettuata sulla base della durata del matrimonio, delle potenzialità di reddito e dell’età anagrafica.

Conseguenze della separazione con addebito

Se al coniuge richiedente l’assegno di mantenimento viene riconosciuto dal giudice l’addebito della separazione, automaticamente perde il diritto a riceverlo e anche i diritti successori. Tuttavia, in caso si trovi in stato di bisogno, non perde il diritto a ricevere gli alimenti. Il coniuge a cui viene addebitata la separazione mantiene il diritto a percepire un assegno vitalizio a carico dell’eredità, nel caso fruisse degli alimenti al momento dell’apertura della successione.

E’ bene precisare, che l’addebito della separazione non sussiste qualora la violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio avviene con la crisi dello stesso già in corso.

La questione del tenore di vita

In precedenza, abbiamo accennato alla valutazione di adeguatezza per stabilire la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento. Essa, passa anche per il tenore di vita fruito dal coniuge richiedente durante il matrimonio. Tuttavia, non si può fare a meno di citare la sentenza n. 18287 della Cassazione Civile pronunciata l’11 luglio 2018 in materia di assegno di divorzio.

La sentenza ha stabilito che ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, non deve essere preso in considerazione il tenore di vita del coniuge che ne ha fatto richiesta. Bensì, la comparazione tra le condizioni economiche e patrimoniali degli ex coniugi, ma soprattutto il contributo fornito dall’ex coniuge che ha presentato istanza per ottenere l’assegno, alla formazione del patrimonio personale e comune in relazione alla durata del matrimonio e alle potenzialità future reddituali, nonché all’età dell’avente diritto.

Il motivo per cui abbiamo riportato in estrema sintesi il contenuto della suddetta sentenza è dovuto al fatto che la Cassazione sta adeguando le condizioni dell’assegno divorzile, anche a quello di mantenimento.

Inoltre, la Cassazione ha affermato che il coniuge richiedente l’assegno di mantenimento non deve necessariamente cercare il lavoro più affine alle proprie ambizioni e/o al livello di formazione conseguito. L’obbligo di rendersi indipendente dall’altro coniuge imporrebbe di svolgere anche un lavoro più umile. Quindi, per ottenere l’assegno il coniuge che lo ha richiesto deve dimostrare di non poter lavorare.

Per rendere meglio l’idea del significato di quanto appena detto, non si può evitare di citare l’ordinanza di Cassazione n. 5932/2021. In questo caso specifico, i giudici non hanno accordato l’assegno di mantenimento richiesto da una donna laureata in farmacia che ha rifiutato l’impiego da banconista.

Partite Iva forfettarie: la verifica del limite dei 30mila euro coincide con la fine del periodo di preavviso

Per le partite Iva ricadenti nel regime forfettario, la cessazione del lavoro coincide con il momento in cui termina il periodo di preavviso e non con il momento effettivo delle dimissioni. L’importante specifica, contenuta nell’interpello numero 268 del 2021 dell’Agenzia delle entrate, è utile ai fini della verifica del tetto dei 30mila euro di reddito. Il superamento della soglia rappresenta, infatti, una causa ostativa proprio al regime forfettario.

Il limite dei 30mila euro di reddito per il regime forfettario

Il caso sul quale l’Agenzia delle entrate è stata chiamata a esprimersi riguarda un lavoratore dipendente che, nel 2020, aveva presentato le proprie dimissioni. Le dimissioni rappresentano un atto unilaterale recettizio per la cui efficacia non è richiesta l’accettazione da parte del datore di lavoro. Lo slittamento della cessazione del lavoro alla fine del periodo di preavviso e non al momento delle dimissioni impone di verificare, nel caso del lavoratore, i redditi del 2020.

Richiesta di apertura partita Iva con regime forfettario

Nel quesito posto all’Agenzia delle entrate si legge che il contribuente ha rassegnato le dimissioni volontarie in una data dell’anno 2020, e di aver proseguito il rapporto di lavoro sino a inizio del 2021 per il periodo di preavviso. Il lavoratore, nel periodo di imposta del 2020, ha ottenuto un reddito da lavoro alle dipendenze superiore ai 30mila euro. Lo stesso intende fare richiesta di attribuzione di partita Iva per esercitare l’attività di lavoratore autonomo a regime forfettario.

Limite di reddito per la partita Iva a regime forfettario

Considerando, dunque, il limite dei 30mila euro di reddito da lavoro dipendente ostativo ai sensi del comma 57, lettera d-ter, dell’articolo 1 della legge numero 190 del 2014, il lavoratore chiede se potrà avvalersi del regime forfettario. In particolare, il richiedete vorrebbe sapere se il superamento della soglia di reddito per l’anno 2020 rappresenti una condizione ostativa per l’apertura della partita Iva forfettaria nel 2021.

Partite Iva forfettarie, il limite del reddito si riferisce all’anno precedente

I chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate, nell’interpello numero 368 del 2021, evidenziano che il limite dei 30mila euro di reddito non opera se il rapporto di lavoro alle dipendenze è cessato nel corso dell’anno precedente. La ragione di questo chiarimento consiste nel favorire il lavoratore, rimasto senza impiego, a iniziare una nuova attività.

Chiarimenti Agenzia delle entrate sul regime forfettario

Tuttavia, il richiedente ritiene di rientrare nel regime forfettario nel 2021. La sua convinzione risiede nel fatto che le dimissioni siano state presentate nel 2020, anno precedente a quello di apertura della partita Iva. La risposta dell’Agenzia delle entrate, in ogni modo, parte da quanto specificato dalla legge numero 190 del 2014. All’articolo 57, infatti, si precisa che non possono avvalersi del regime forfettario i soggetti che “nell’anno precedente hanno percepito redditi da lavoro dipendente e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, eccedenti l’importo di 30mila euro”. Inoltre, “la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto di lavoro è cessato”. Altrimenti è dovuta, essendo il rapporto di lavoro cessato nel 2021 e non nel 2020.

Cessazione del lavoro da dipendente e apertura partita Iva a regime forfettario

E, pertanto, ai fini della non applicabilità della causa di esclusione rilevano “solo le cessazioni di lavoro intervenute nell’anno precedente a quello di applicazione del regime forfettario”. Nel caso del lavoratore, il rapporto di lavoro si è protratto fino al 2021 per il rispetto del periodo di preavviso. Ed è solo a partire dalla data di effettiva cessazione del lavoro che vengono meno le retribuzioni e gli altri diritti connessi al rapporto di lavoro. Quindi il rapporto è in essere fino al termine del preavviso.

Per l’Agenzia delle entrate il richiedente potrà avvalersi del forfettario solo nel 2022

Pertanto, l’anno effettivo di cessazione del lavoro, il 2021, coincide con l’anno di apertura della partita Iva beneficiando del regime forfettario. Il richiedente potrà dunque aprire la partita Iva nel 2021 con la quale avviare la propria attività. Ma solo a partire dal 2022 potrà beneficiare del regime forfettario avendo superato nel 2020 il tetto dei 30mila euro. E la verifica, essendo il rapporto terminato a inizio anno, è dovuta per i redditi del 2020, essendo nel 2021 ancora in essere il rapporto di lavoro.