Pensioni, cosa succede se la riforma parte dai coefficienti di trasformazione?

Se dovesse arrivare una vera e propria riforma delle pensioni per il dopo quota 100, quasi certamente andrebbe a modificare i criteri e i meccanismi che sono alla base del diritto alla pensione stessa. Ma non si agirebbe sui criteri di calcolo delle pensioni che possono indirizzare le scelte dei lavoratori, ovvero se uscire prima da lavoro oppure attendere ancora qualche anno.

Dalla riforma Dini alle riforme pensionistiche più recenti

Agire sul calcolo della pensione equivale a dire modificare i coefficienti di trasformazione. Ne è convinto il professor Sandro Gronchi che, in un articolo scritto per Il Sole 24 Ore, analizza il sistema italiano dei coefficienti rispetto a quelli applicati in alcuni Paesi nordici, soprattutto in Svezia. Il punto di partenza è la riforma Dini del 1995 per i pensionamenti che sarebbero maturati nel 1996, l’anno che fa da spartiacque tra sistema retributivo, misto e contributivo.

Coefficienti di trasformazione, la mancanza di una vera riforma delle pensioni

Il risultato, dalla riforma Dini a quelle più recenti, è stato di un sistema pensionistico italiano basato su criteri di uscita che creano dubbi, disparità di trattamento previdenziale e un’età pensionistica in crescita. Ma non l’età media effettiva di uscita. L’introduzione dei coefficienti di trasformazione nel 1996 in Italia è stata superficiale, “non furono legiferate né la formula, né le fonti cui attingere i molti dati contenuti nei coefficienti”. E furono trascurate riforme previdenziali che  avrebbero dovuto intervenire sull’invalidità, sul meccanismo di perequazione, sulla reversibilità e sui requisiti anagrafici stessi della pensione.

Pensioni, come funziona il coefficiente di trasformazione?

Il calcolo della pensione si basa essenzialmente sul montante contributivo e sul coefficiente di trasformazione. Quest’ultimo è un indice che va moltiplicato al montante per ottenere l’assegno di pensione. L’analisi va fatta, dunque, sui coefficienti che caratterizzano ogni anno di uscita per la pensione e la differenza tra essi. Il coefficiente è tanto più alto quanto più si ritarda la pensione. Ma di coefficienti, aggiornati ogni due anni (e sempre al ribasso), ve n’è uno per ogni anno in cui il lavoratore può accedere alla pensione. Attualmente, vi sono coefficienti corrispondenti alle età dai 57 anni ai 71 anni.

Perché più si va in pensione tardi e più è alto il coefficiente di trasformazione?

Tra i fattori che incidono sul coefficiente di trasformazione vi è la speranza di vita. Al crescere dell’età di pensionamento, la durata degli anni “da pensionato” è più bassa. Di conseguenza il coefficiente non può che aumentare. Ciò implica che, a parità di contributi versati, chi esce dopo ha una pensione più alta. In qualche modo deve essere “premiato”. Ma questo meccanismo presenta tre anomalie per il professor Gronchi. La prima è che se la pensione è reversibile, allora la speranza di vita non dovrebbe riguardare il solo pensionato, ma anche il coniuge superstite.

Come cambiano i coefficienti di trasformazione per la pensione

La seconda anomalia che presenta il coefficiente di trasformazione è che l’indice è applicato indipendentemente dall’anno di nascita. Ovvero, il coefficiente corrispondente all’età di pensione di 65 anni dell’attuale biennio, viene applicato nel 202i ai nati nel 1956 e nel 2022 sarà applicato ai nati nel 1957. Anche a distanza di un anno, l’applicazione dello stesso coefficiente potrebbe determinare elementi di obsolescenza nel calcolo della pensione.

Pensioni, il fattore obsolescenza dei coefficienti di trasformazione

La terza anomalia si riscontra nella differenza tra pensioni di vecchiaia a 67 anni e pensioni anticipate (o anzianità contributive). Le seconde possono essere raggiunte già dai 57 anni di età e maturare lungo un lasso di tempo ampio. Ad esempio, una lavoratrice nata nel 1964 potrebbe andare in pensione dai 57 anni ai 67 anni (dal 2021 al 2031). Nel frattempo cambieranno 6 volte i coefficienti di trasformazione, una volta per biennio.

Coefficienti di trasformazione e speranza di vita

Con la speranza di vita in aumento, la rinuncia a uscire a un’età più bassa determina l’erosione della pensione, dal momento che l’assegno dovrà essere spalmato su un numero di anni superiore. Questo meccanismo di obsolescenza dei coefficienti può essere più chiaro confrontandosi con un collega che, a parità di contributi, ha deciso di andare in pensione prima.

Il modello Svezia per i coefficienti di trasformazione

La Svezia ha adottato un sistema di coefficienti di trasformazione diverso da quello italiano. Innanzitutto per il diverso meccanismo di pensionamento riconosciuto dai 65 ai 68 anni. La scelta all’interno della fascia è libera e flessibile, e non sono richiesti anni minimi di contribuzione. E, di conseguenza, gli indici sono calcolati per i soli 4 anni di uscita per limitare l’obsolescenza. A ciascuna età è assegnato un coefficiente di trasformazione legato all’anno di nascita. Dunque, vi è un coefficiente fisso per il 2021 assegnato al 65enne nato nel 1956 che voglia andare in pensione. Coefficiente che è stato ricalcolato rispetto a quello applicato al 65enne che è andato in pensione nel 2020 essendo nato nel 1955.

Come si potrebbero calcolare le pensioni con pochi anni di coefficienti di trasformazione?

Un sistema come quello svedese in Italia rivoluzionerebbe tutto il meccanismo dei coefficienti, proprio per l’ampia fascia di età (dai 57 ai 71 anni) in cui è possibile andare in pensione. Applicare il modello svedese vorrebbe dire avere fin da subito un coefficiente da assegnare al lavoratore nato nel 1964 che volesse andare in pensione con l’anzianità contributiva nel 2021. Diversamente lo stesso lavoratore dovrebbe attendere il 2031 per avere il coefficiente della pensione di vecchiaia dei 67 anni. Ciò spiega perché l’adozione di pochi coefficienti di trasformazione richiedere un numero di anni di calcolo (e di uscita) contenuto. In Italia una riforma ragionevole potrebbe essere dai 64 ai 67 anni, in linea con i requisiti della Fornero.

Pensioni anticipate in Svezia: l’anticipo viene scalato dal montante dei contributi

Ma un meccanismo del genere comporterebbe anche l’abbandono di varie formule di pensionamento anticipato vigenti in Italia. Nel modello pensionistico svedese esiste una possibilità di uscita anticipata dai 62 anni. Si tratta di assegni mensili configurati come “prestiti” garantiti dal montante contributivo maturato. Alla maturazione della vecchiaia il debito viene rimborsato a valere sul montante stesso.

Previsioni di riforma delle pensioni in Italia: novità in arrivo sui requisiti di accesso

E dunque, la pensione si calcola moltiplicando il montante residuo con il coefficiente di trasformazione corrispondente ai 65, 66, 67 o 68 anni. Ma la formula anticipata è piuttosto snobbata dai lavoratori. Vi ricorre un terzo dei pensionati, molti dei quali rimasti senza lavoro. L’esempio svedese potrebbe essere un ottimo sistema per il riordino delle pensioni italiane e per il ricalcolo dei coefficienti di trasformazione. Tuttavia, le indiscrezioni sulla riforma italiana anticipano provvedimenti che si limiteranno ad agire sui requisiti di accesso alla pensione.

Come richiedere un mutuo per acquistare casa?

Quando si decide di cambiare casa, spesso lo si fa per evitare di pagare un canone di locazione a vita che potrebbe essere sostituito da una rata di mutuo per acquistare una casa che però consente dopo un certo numero di anni, spesso medio-lungo, di diventarne il proprietario.

Quale documentazione chiede una banca

Esponendo l’intenzione di comprare una casa tramite mutuo, la banca o l’istituto di credito chiede per prima cosa la carta d’identità e il codice fiscale, in seguito il certificato di famiglia, di residenza, lo stato civile e in caso di matrimonio la presenza o meno di comunione dei beni.

Per capire quale possa essere il grado di solvenza del richiedente il mutuo casa, il mediatore creditizio chiede le ultime tre busta paga ricevute e l’ultimo Cud, oppure il modello 730 e 740. solitamente, è richiesto anche l’estratto conto di tutti i conti correnti posseduti e la movimentazione bancaria degli ultimi sei mesi. Se tra i redditi figura anche un immobile locato, ne chiede il contratto di affitto.

La perizia dell’immobile da acquistare

Poiché l’accensione di un mutuo prevede anche che venga accesa un’ipoteca sulla casa da acquistare, la banca manda un perito che verificherà il valore dell’immobile per stabilire anche la percentuale di mutuo concedibile che di solito non supera il 75%, salvo eccezioni e politiche particolari da parte dell’istituto di credito.

Se si è in possesso di tutti i requisiti per l’accettazione del mutuo e se dopo la perizia si evince che la cifra richiesta è congrua al valore dell’immobile, solitamente la banca concede il mutuo. Tuttavia, ci sono da stabilire le condizioni del mutuo, ossia, la sua durata e l’importo della rata da versare alla banca.

Anche il perito chiede dei documenti per effettuare la perizia dell’immobile, ad esempio il documento che ne attesta la proprietà e la sua storia catastale.

Il richiedente è chiamato a fornire il rogito notarile ed eventualmente l’atto di mutuo. E’ necessario fornire al perito di cui si serve la banca, anche la planimetria catastale cartacea o scannerizzata della casa che s’intende acquistare tramite mutuo. E’ fondamentale fornire la visura ipotecaria e catastale, inoltre, se ci sono stati recenti lavori edilizi.

I tempi e la concessione del mutuo

Raccogliere tutta la documentazione, effettuare la perizia e verificare il tutto per dare una risposta al richiedente, necessita di circa tre settimane. Se tutte le verifiche danno un responso positivo da parte della banca, il mutuo viene concesso e il richiedente entra in possesso di una somma da restituire in modo rateizzato che consente di procedere all’acquisto dell’immobile.

Al momento dell’accensione del finanziamento, la banca emette un assegno circolare intestato al venditore che potrà in questo modo provvedere alla chiusura della compravendita davanti a un notaio.

Quando si può chiedere un mutuo

Nel momento in cui si decide di comprare una casa, è importante iniziare a pensare per quanto tempo si è disposti a pagare un mutuo, quale importo di rata si vuole o si può pagare in quanto sostenibile, informarsi sui tassi d’interesse e sulle possibili clausole per far sì di scegliere il mutuo più adeguato alle proprie esigenze.

Ovviamente, prima di recarsi in banca ci si deve mettere d’accordo con il venditore sull’eventuale caparra confirmatoria da erogare, e il prezzo a cui poter chiudere la trattativa, quindi l’accettazione della proposta che potrebbe prevedere anche la fase intermedia del compromesso nel quale viene erogato un ulteriore pagamento.

Tra tutte le verifiche compiute dalla banca per decidere se concedere o meno il mutuo è quella della solvibilità del richiedente. Solitamente, si guarda al reddito che deve essere almeno pari a tre volte la rata del mutuo.

Il richiedente il mutuo deve sempre mettere in conto le spese che dovrà affrontare soprattutto per quanto concerne l’imposta di registro dovuta all’atto di acquisto e le spese notarili.

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Green pass: il controllo è meglio farlo all’entrata o all’interno dell’azienda?

Sono arrivate la prime indicazioni di Confindustria in merito ai controlli del personale lavorativo sul possesso di un regolare Green pass. Tra i vari dubbi sui quali l’Associazione degli industriali ha fornito la propria indicazione, quello se il controllo deve essere svolto all’entrata oppure se sia più opportuno farlo a campione all’interno dell’azienda a partire dal 15 ottobre 2021. In vari casi, inoltre, c’è da considerare che il lavoratore non passa per l’azienda, ma va direttamente sul posto dove svolge la propria attività.

Controllo Green pass ai dipendenti in entrata a lavoro

Sul primo quesito sull’applicazione del decreto legge numero 127 del 2021, Confindustria ha indicato che il controllo del possesso del Green pass deve essere effettuato all’entrata in azienda. Le motivazioni che fanno propendere per questa soluzione sono molteplici. Innanzitutto, un lavoratore senza Green pass viene individuato da subito, all’entrata in azienda e pertanto gli si impedisce di accedere all’interno. Se l’obiettivo primario del Green pass è quello di evitare il contagio e di fare in modo che i lavoratori possano svolgere la propria attività in sicurezza, il controllo all’entrata rappresenta la scelta ottimale.

Sanzioni per mancato o irregolare Green pass a lavoro

La seconda motivazione per la quale è meglio compiere il controllo all’entrata del lavoratore riguarda l’aspetto sanzionatorio. Con il divieto di accesso in azienda già all’ingresso, infatti, al lavoratore viene sospesa la retribuzione per l’assenza ingiustificata, ma non subisce delle sanzioni disciplinari. Se il dipendente viene individuato all’interno del luogo di lavoro senza il documento verde la sanzione amministrativa da comminargli varia da 600 a 1500 euro. Inoltre, per il dipendente che abbia usato una condotta scorretta, eludendo i controlli, per essere a lavoro il rischio è anche quello dell’avvio di un procedimento disciplinare.

Controllo del Green pass a campione all’interno dell’azienda

La verifica a campione all’interno dell’azienda su chi possiede il Green pass (possibilità prevista dal decreto 127 del 2021) e chi no è sconsigliata. Infatti, questa modalità da un lato non impedisce al dipendente di entrare al lavoro e, dunque, non impedisce la diffusione del virus. Inoltre, come già ricordato, comporta sanzioni pesanti per i dipendenti sprovvisti del documento verde, con relativo rischio di contenzione.

Come individuare le aree dell’azienda soggette al controllo Green pass?

Tra i suggerimenti di Confindustria anche quello relativo alle aree e al perimetro aziendale soggetto ai controlli. L’azienda dovrebbe individuare queste aree in maniera estensiva, senza limitarle solo a quelle chiuse. Pertanto, si devono comprendere nel perimetro, ad esempio, anche le aree utilizzate per il deposito dei materiali oppure quelle dove accedono i fornitori esterni.

Il lavoratore deve comunicare all’azienda di non avere il Green pass?

Dal punto di vista organizzativo delle risorse lavorative, le indicazioni includono anche l’eventuale comunicazione del dipendente circa il non possesso del Green pass a partire dal 15 ottobre prossimo. Si ritiene, infatti, che il datore di lavoro possa chiedere al dipendente in maniera preventiva se sarà in possesso del Green pass per un determinato lasso di tempo. Conoscere se il dipendente avrà il Green pass, e quindi se ha intenzione di mettersi in regola con quanto prevede il decreto 127 del 2021, ha implicazioni sul lato organizzativo del lavoro aziendale, ad esempio per le attività su turni oppure per le trasferte.

Green pass per lavoratori che non passano in azienda ma vanno direttamente a svolgere la prestazione lavorativa

La conoscenza delle intenzioni del dipendente circa la volontà di mettersi in regola con il Green pass non esime, in ogni modo, l’azienda dal verificare i controlli. I controlli in azienda non possono essere svolti nel caso in cui il dipendente vada a lavorare direttamente sul posto dove svolge la sua attività senza passare per la sede dell’impresa. In questo caso, i controlli possono essere svolti a cura del committente o del gestore dei servizi di trasporto.

Il lavoratore deve comunicare che non ha il Green pass se lavora fuori dall’azienda?

Per queste casistiche, cioè di lavoratori che svolgano al di fuori dell’azienda la propria attività, Confindustria suggerisce di introdurre un obbligo contrattuale di comunicare immediatamente la mancanza del Green pass. Tale obbligo dovrebbe essere a carico del lavoratore stesso o del committente. In tal senso, i controlli all’interno dell’azienda devono essere effettuati sia nei confronti dei dipendenti che degli esterni che entrino a svolgere una prestazione lavorativa all’interno.

Obbligo Green pass e lavoratori in somministrazione

Ricade in questa casistica anche il lavoratore somministrato. In tal caso, spetta al somministratore assicurare che il lavoratore somministrato possegga il Green pass per adempiere alla prestazione lavorativa. Pertanto, l’azienda dovrà informare il lavoratore della necessità di avere il Green pass, ma il controllo spetta all’azienda utilizzatrice al momento dell’ingresso.

Assegno di mantenimento: reclusione per chi non paga

Il genitore che non paga l’assegno di mantenimento rischia la reclusione e la Corte di Cassazione in diverse pronunce ha confermato tale orientamento.

Articolo 570 bis del codice penale: reclusione per chi non paga il mantenimento

La disciplina è prevista dall’articolo 570 bis del codice penale, introdotto con il decreto legislativo 21 del 2018, prevede l’estensione delle pene dell’articolo 570 del codice penale anche al genitore separato, divorziato o nei cui confronti sia stata riconosciuta la nullità del matrimonio. L’articolo 570 del codice penale a sua volta prevede la reclusione fino a un anno e la multa da 103 a 1032 euro per il genitore che faccia mancare i mezzi di sussistenza ai figli.

La norma prevede che tale pena si applichi anche nel caso in cui il genitore:

  • dilapida i beni del figlio o del coniuge;
  • fa mancare i mezzi di sussistenza a figli minori, maggiorenni inabili, agli ascendenti e al coniuge da cui non sia legalmente separato.

L’articolo 570 bis si applica a querela di parte se l’obbligo di mancata corresponsione è nei confronti del coniuge oppure dei figli maggiorenni non economicamente indipendenti, ma nel caso di mancata corresponsione in favore di minori o inabili, la domanda è procedibile d’ufficio, cioè un qualunque giudice o autorità, verificato che il soggetto è inadempiente, può segnalare il caso e dare quindi il via alla procedura penale. Ciò perché la norma tutela un interesse pubblico e in particolare soggetti deboli che non hanno capacità di agire. Affinché si possa procedere alla condanna è comunque necessario il verificarsi del dolo, quindi ci deve essere una condotta volontaria diretta a danneggiare le vittime di reato da parte del soggetto obbligato. Se la parte prova di essere impossibilitato a versare gli assegni, non potrà esserci la condanna penale.

Il caso concreto

L’applicazione di questa norma con il tempo è diventata sempre più frequente in quanto vi è l’abitudine di saltare la corresponsione dell’ assegno di mantenimento, magari a fronte di reali cambiamenti della situazione economica, ma senza rivolgersi al giudice per chiedere una adeguamento dell’assegno di mantenimento. Tra le sentenze che hanno avuto particolare risonanza vi è sicuramente la 44694/2019 della Corte di Cassazione.

In questo caso una donna, di fronte alla mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli da parte dell’ex marito, decide di agire in tribunale di primo grado e in seguito in appello. L’ex marito, dopo la condanna in primo e in secondo grado, decide di proporre ricorso in Cassazione lamentando solo in questo momento le difficoltà economiche. Il giudice, ripercorrendo la vicenda, sottolinea che in realtà la ricostruzione dell’ex marito inerente le difficoltà economiche sia poco convincente perché in sede civile l’uomo aveva accettato il raddoppio dell’assegno di mantenimento inizialmente fissato e in secondo luogo perché continua ad avere in locazione un’abitazione per cui paga un canone molto alto.

Di conseguenza si evince che in realtà le condizioni economiche non sono mutate e, se anche lo fossero, avrebbe dovuto prima chiedere al giudice una riduzione dell’assegno di mantenimento adducendo come motivazione, e provando, che le sue capacità economiche erano ridotte rispetto al passato e poi in base alle nuove determinazioni ridurre gli importi corrisposti.

Insomma non si può agire in autotutela e ridurre l’assegno di mantenimento o addirittura non versarlo. In base a ciò viene di fatto accettata la determinazione del giudice di Appello con la pena della reclusione di 4 mesi.

Tra le sentenze che applicano lo stesso principio vi è anche la 34618 del 2021 sempre della Corte di Cassazione.

Come ottenere l’assegno di mantenimento

L’ipotesi del carcere è comunque residuale e riguarda soprattutto coloro che hanno un lavoro autonomo, infatti nel caso di dipendenti le strade seguite sono solitamente altre. In particolare se un ex coniuge non versa l’assegno di mantenimento fissato, è possibile procedere con una lettera di diffida in cui lo si invita ad adempiere. Se non lo fa spontaneamente, si può procedere con l’atto di precetto con cui si invita l’ex coniuge ad adempiere entro un termine di 10 giorni. Se anche l’atto di precetto va a vuoto, si procede all’esecuzione forzata che può essere eseguita anche sullo stipendio, quindi sarà il datore di lavoro a trattenere dalla busta paga le somme e a versarle agli aventi diritto. In questo caso non basterà neanche licenziarsi per evitare di pagare, infatti l’esecuzione forzata si trasferisce sul TFR le cui somme saranno pignorate per “assistere” gli aventi diritto.

Modello 730/2021, scadenza il 30 settembre: novità e proroghe

Oramai ci siamo, giovedì 30 settembre è l’ultimo giorno utile per presentare la dichiarazione dei redditi effettuata da pensionati e lavoratori dipendenti pubblici e privati, ovviamente per l’anno d’imposta 2020. Vediamo quali sono le novità e le ultime cose da sapere per la presentazione del modello 730/2021.

Mod. 730/2021: presentazioni alternative causa errori

Il 30 settembre 2021 scade il termine per la presentazione del modello 730 (anno d’imposta 2020) per i pensionati e i lavoratori dipendenti. Ci sono ancora delle novità da conoscere e c’è anche il tempo per correggere eventuali errori effettuati nella compilazione.

Ricordiamo che il modello 730/2021 si può presentare all’Agenzia delle Entrate o al proprio sostituto d’imposta o un Caf oppure a professionisti abilitati. A seguito della presentazione è bene conservare per cinque anni i documenti che riguardano detrazioni e deduzioni indicati nel modello 730. Infatti, il Fisco può in qualsiasi momento effettuare dei controlli che per la presentazione di quest’anno, sono possibili fino al termine del 2026.

Nel modello 730/2021 possono esserci alcuni errori, in tal caso, il contribuente ha tre opzioni tra cui scegliere:

  • presentare un Modello 730 Rettificativo, ma solo se l’errore è stato commesso da chi ha prestato l’assitenza fiscale;
  • presentare un Modello 730 Integrativo, ma solo se il contribuente è sicuro di aver omesso tutti i dati compilativi, tale modello può essere inoltrato entro il 25 ottobre 2021;
  • presentare Modello Redditi Persone Fisiche in caso il contribuente non riuscisse ad effettuare la presentazione del 730 entro il settembre, quindi, potrà farlo entro il 30 novembre 2021.

Modello 730/2021: le novità

Le ultime novità che riguardano la presentazione del 730/2021 fanno riferimento alle detrazioni originate per fronteggiare i danni economici provocati dall’emergenza coronavirus. La prima detrazione riguarda il Superbonus 110%, messa in atto per la riqualificazione energetica degli edifici.

Oppure, la detrazione del 90% concernente il Bonus Facciate e ancora la detrazione del 30% per le erogazioni liberali in denaro e in natura con lo scopo di finanziare interventi di contenimento e gestione dell’emergenza da Covis-19.

Inoltre, c’è la riduzione del cuneo fiscale che riguarda il trattamento integrativo di 600 euro in sostituzione del bonus Renzi di cui hanno fruito i lavoratori dipendenti e alcuni redditi assimilati, il cui reddito complessivo non abbia superato i 28.000 euro e fino a 40.000 euro.

Un’altra novità è data dalla nuova casella “Codice Stato Estero”. I contribuenti che si avvalgono in dichiarazione dell’agevolazione prevista per gli impatriati e per docenti e ricerctori che vengono a svolgere la loro attività in Italia, devono indicare, per l’appunto il codice dello Stato in cui erano residenti prima di trasferirsi in Italia.

Nel modello 730 arriva anche il credito d’imposta per il Bonus Vacanze, sempre che sia stato usato entro il 31 dicembre 2020 è possibile usufruire di una detrazione del 20% rispetto alla spesa sostenuta.

Infine, c’è anche il credito d’imposta per monopattini elettrici e servizi di mobilità elettrica: per i soggetti che rottamano almeno due autovetture è riconosciuto un credito d’imposta di importo massimo di 750 euro per le spese sostenute dal 1° agosto 2020 al 31 dicembre 2020 per l’acquisto di monopattini elettrici, biciclette elettriche o muscolari, abbonamenti al trasporto pubblico, servizi di mobilità elettrica in condivisione o sostenibile.

Aumenti luce e gas: ecco le ultime novità sui rincari e azzeramento oneri

L’Arera “Autorità per la regolazione per energia, reti e ambiente” fa sapere che grazie agli interventi del Governo è stato possibile sterilizzare parte degli aumenti luce e gas in bolletta. Ecco tutte le novità.

Gli aumenti luce e gas previsti per l’ultimo trimestre 2021

L’Arera ha provveduto a comunicare i reali aumenti previsti per luce e gas, gli stessi saranno del 29,8% relativi alle tariffe per la fornitura di energia e 14,4% per le tariffe del gas, un buon risultato a fronte di iniziali aumenti del 45% della bolletta energetica e oltre il 30% per la bolletta del gas, ma gli interventi governativi hanno scongiurato questa ipotesi. Spiega Arera che gli aumenti sono dovuti per l’80% all’aumento del costo della materia prima e per il 20% alle quotazioni dei permessi per l’emissione di CO2.

Tenendo in considerazione gli interventi governativi, per il 2021 è possibile stimare per la famiglia tipo una spesa totale di 631 euro annuali per l’energia elettrica con un aumento di 145 euro rispetto al 2020 e un consumo di gas di 1130 euro con un aumenti di 155 euro rispetto al 2020.

Interventi del Governo Draghi su aumenti luce e gas

In tale prospettiva sono risultati risolutivi, almeno per l’ultimo trimestre 2021, gli interventi del Governo Draghi con il decreto di urgenza che ha previsto lo stanziamento di 3 miliardi di euro. Di questi 2,5 miliardi saranno dedicati all’azzeramento degli oneri di sistema che incidono notevolmente sulle bollette ( circa il 10%) e 500 milioni di euro andranno a incrementare la platea dei soggetti che potranno beneficiare del bonus legato al reddito. A ciò si aggiunge una riduzione di 5 punti percentuali dell’IVA sul gas. Attualmente questa è al 10% per consumi fino a 480 metri cubi l’anno e al 22% per consumi superiori.

Per quanto riguarda i bonus riguardano le famiglie:

  • con ISEE inferiore a 8265 euro;
  • famiglie numerose con ISEE inferiore a 20.000 euro;
  • percettori di reddito o pensione di cittadinanza;
  • famiglie con persone disabili in gravi condizioni che abbiano bisogno di dispositivi elettromedicali.

Si tratta in totale di circa 3 milioni di utenti che potranno beneficiare di uno sconto in bolletta senza dover fare richiesta alcuna.

Prospettive per il 2022: nuovi rincari luce e gas potrebbero essere in agguato

L’Autorithy ha però comunicato che, sebbene questo intervento del governo Draghi sia importante, per il mese di gennaio 2022 potrebbe essere necessario un altro provvedimento in quanto c’è un aumento dei prezzi di particolare eccezionalità e di conseguenza si prevedono ulteriori rialzi che richiedono interventi mirati. L’Arera ha già dichiarato di essere disponibile a fornire tutto il supporto tecnico necessario. L’aumento dei prezzi è previsto per tutto il primo trimestre del 2022, l’Arera inoltre sottolinea che gli aumenti riguardano prevalentemente le famiglie che sono ancora nel mercato di maggiore tutela in quanto le tariffe per loro sono modificate in modo immediato, mentre chi ha contratto un contratto di fornitura con il mercato libero può beneficiare delle tariffe previste da contratto.

Il ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha d’altronde chiarito che in effetti è da anni che si attende una riforma sugli oneri di sistema che rappresentano un balzello importante per le famiglie. Potrebbe quindi verificarsi una riduzione degli oneri di sistema strutturale e non legata esclusivamente all’emergenza.

Patto sociale: le proposte su salari, stipendi e lavoro

Patto sociale è quello che viene richiesto da tutta Italia al fine di tutelare salario minimo, lavoro, stipendi e salari. Varie le proposte presentate.

Patto sociale: facciamo il punto della situazione

Salario minimo garantito è la nuova parola da inserire nel nuovo patto sociale. Alla luce anche delle parole del presidente del consiglio Mario Daghi, che sul tema aveva detto “nessuno può tirarsi fuori” rivolgendosi proprio alla classe politica italiana. Ma il confronto politico si accende e si scalda sulle riforme in merito al lavoro e all’abbassamento della pressione fiscale su famiglie, imprese e partite iva. Proposte che da sinistra a destra tengono gli italiani con il fiato sospeso. Ad esempio, Enrico Letta ha parlato di “Salario minimo” soprattutto riferendosi alla campagna elettorale tedesca appena conclusasi. Infatti, in Germania il concetto di stipendio minimo garantito è stato perno della vittoria alle elezioni.

Le proposte delle altre forze politiche

Il lavoro è un tema che coinvolge anche il nostro bel Paese. Mentre Pd e Cinque stelle trovano sul tema del lavoro un punto di incontro. L’ex premier Giuseppe Conte, così rilancia: “Il Paese ha bisogno di un patto sociale ed economico che lo faccia ripartire in modo robusto e forte“- conclude. Mentre Matteo Salvini ed il Centro destra compatto, chiedo una riduzione della pressione fiscale. Infatti Matteo Salvini così commenta: “I salari li pagano le imprese. E quindi se alle imprese non tagli le tasse, non tagli il costo della luce è difficile pagarli.”- conclude. In tutto questo scenario si ricorda che il patto sociale è uno strumento importante contro la lotta all’inflazione. Uno strumento di politica economica tra imprenditori, governo e sindacati che punta alla giusta considerazione sui salari e sul livello dei prezzi. Quindi serve una politica anche sui redditi che tenti di riequilibrare il benessere della collettività.

Patto sociale: arrivano anche le indicazioni di Tridico

Sul patto sociale dice la sua anche il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico. L’economista sottolinea che oggi in Italia ci sono due milioni di lavoratori che sono pagati a 6 euro lordi all’ora. Infatti “Ci sono rider che corrono e fanno incidenti anche mortali e guadagnano 4 euro all’ora. Questo non è tollerabile. Non è tollerabile in un’economia avanzata“, ha aggiunto. Ma non è finita qui il Presidente dell’Inps ha detto che il salario minimo garantito deve essere previsto per giovani e per donne. Inoltre ha spiegato che durante la pandemia queste due categorie sono state quelle maggiormente colpite. Ha poi concluso: “nella carriera lavorativa della donna, la donna con figlio rinuncia a 5 mila euro in media di stipendio rispetto a una donna che non ha avuto figli. Il gap salariale nei confronti del lavoratore maschio è crescente. E durante la pandemia i primi a perdere il lavoro sono stati giovani e donne”. 

Cosa rischia dipendente che svolge altro lavoro per la concorrenza

Oggi ci addentriamo nel mondo del lavoro, per scoprire cosa accade nei casi di quella che si definisce concorrenza sleale. Cosa rischia, dunque, un dipendente che svolge un lavoro per la concorrenza, contemporaneamente al proprio lavoro? Scopriamolo nella guida che segue.

Concorrenza sleale, cosa vuol dire

Innanzitutto, andiamo a precisare cosa si intende quando si parla di “concorrenza sleale”.

E’ una forma di concorrenza tra imprenditori, rappresentata dall’utilizzazione diretta o indiretta da parte di un imprenditore di mezzi o tecniche non conformi ai «principi della correttezza professionale» e idonei a danneggiare l’azienda di un concorrente. Questa è sanzionata penalmente, attraverso gli articoli 2598 – 2601 del codice civile.

I più diffusi esempi di concorrenza sleale sono l’utilizzo di nomi o marchi che ricordino quelli di altre aziende (inclusa, ovviamente, la contraffazione) od anche la diffusione di informazioni che gettino discredito sulle attività dei concorrenti.

Ma cosa può determinare questo tipo di comportamento scorretto da parte di un dipendente? Scopriamolo nel prossimo paragrafo

Dipendente e concorrenza sleale

Partiamo col dire che il possibile rischio di svolgere un’attività in concorrenza, per il dipendente, non è affatto remoto: sono infatti molti i dipendenti che, avendo necessità di arrotondare, svolgono una seconda attività, sia in proprio che inquadrati come subordinati o collaboratori o lavoratori parasubordinati.

Va specificato che per far si che il lavoratore violi il divieto di concorrenza, è irrilevante che col suo comportamento si realizzi una vera e propria concorrenza sleale, poiché è sufficiente solo la potenziale concorrenza con l’impresa perché il dipendente possa essere sanzionato.

Cosa rischia il dipendente che svolge concorrenza sleale

Ma quali sono, dunque, le sanzioni a cui può andare incontro un dipendente che svolge questa ambigua concorrenza sleale?

Per far si che si violi il divieto di concorrenza, non è influente l’inquadramento specifico del lavoratore, poiché conta, come riferimento, l’attività dell’azienda, e non sono considerate le singole mansioni risultanti nel contratto. Quindi, sia esso titolare o dipendente incapperà di certo nel reato di concorrenza sleale.

Nel momento in cui l’azienda applica una sanzione disciplinare per violazione del divieto di concorrenza, questa dovrà essere proporzionata alla violazione commessa dal dipendente, tenendo presente che il licenziamento è la sanzione disciplinare più grave. Ipotesi, dunque da non escludere, come sanzione del dipendente.

Poniamo ad esempio, nel caso in cui il lavoratore eserciti un’attività solo potenzialmente in concorrenza, e in maniera esclusivamente saltuaria, un licenziamento risulterebbe una sanzione eccessiva, ed il dipendente potrebbe valutare di ricorrere al giudice del Lavoro per impugnare la cessazione del rapporto.

Ulteriori delucidazioni su sanzioni del dipendente

La possibilità di evitare sanzioni è attuabile? C’è un modo per uscirne fuori per il dipendente?

Questa domanda è piuttosto lecita e trova risposta. Di fatti, l’ unica possibilità di evitare sanzioni disciplinari, per il dipendente che esercita un’attività in concorrenza, potrebbe essere costituita da un accordo con l’azienda che deroghi al generale divieto di concorrenza, anche solo limitatamente all’attività concretamente svolta dal lavoratore.

Tale accordo, assieme a tutte le specifiche del caso, deve essere redatto per iscritto, per evitare il rischio che il datore di lavoro “si rimangi la parola” ed applichi sanzioni disciplinari.

Va aggiunto che non è costuita deroga all’obbligo di fedeltà col citato accordo, bensì un chiarimento (quasi un patteggiamento) che l’attività non è considerata dal datore una violazione effettiva.

Questo è quanto vi fosse, dunque, di più necessario ed utile da sapere in merito alla concorrenza sleale attuata da un dipendente, con conseguenti rischi derivanti da essa.

Isopensione o esodo: rischio interruzioni con la circolare INPS 2021

I lavoratori che cercano di uscire prima dal mondo del lavoro sono numerosi e tra le varie possibilità vi è l’isopensione, introdotta per la prima volta con la legge Fornero 92 del 2012. Occorre però prestare attenzione infatti la circolare dell’INPS 142/2021 appena emanata apporta delle importanti novità, ma vediamo di cosa si tratta.

Cos’è l’isopensione

L’isopensione, o trattamento di accompagnamento alla pensione, scivolo pensionistico o esodo, consente di andare in pensione con 7 anni di anticipo (al momento dell’introduzione era possibile l’anticipo solo di 4 anni), attraverso un accordo tra il lavoratore e l’azienda per cui lavora. La disciplina è stata introdotta con la Legge Fornero, in seguito è stata ripresa con la legge Bilancio 2018 e, infine, è stata oggetto di revisione con la legge di Bilancio 2021 (legge 178 del 2020) che ha provveduto a prorogarla fino al 31 dicembre 2023, ciò vuol dire che fino a tale data può esservi accesso a questo trattamento, in seguito sarà esclusa, tranne il caso di ulteriori proroghe.

Fin da ora è bene sottolineare che l’isopensione è a carico del datore di lavoro che deve versare anche i contributi figurativi per consentire la maturazione dei requisiti per la pensione ordinaria. Il datore di lavoro deve quindi dare disponibilità economica all’INPS per l’erogazione che, dal punto di vista pratico, esegue l’INPS e deve sottoscrivere una fideiussione bancaria a garanzia della copertura del trattamento pensionistico.

Requisiti per l’isopensione

L’isopensione è uno strumento utile alle aziende che vogliono il ricambio generazionale o che si trovano in una situazione di esubero, magari per avere collaboratori con una formazione più recente soprattutto per quanto riguarda l’uso delle nuove tecnologie digitali. Allo stesso tempo è utile ai lavoratori che non abbiano ancora maturato i requisiti minimi per il pensionamento, ma che vogliono uscire dal mercato del lavoro. La normativa prevede che possano utilizzare questo strumento le aziende che abbiano almeno 15 dipendenti e che il diritto all’isopensione possa essere riconosciuto a lavoratori che nell’arco dei 7 anni successivi dovrebbero raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento. In pratica possono aderire i lavoratori che abbiano compiuto i 60 anni di età.

La procedura

Le aziende interessate all’isopensione devono sottoscrivere un accordo di esodo, questo prevede la partecipazione alle trattative di INPS, azienda e sindacati maggiormente rappresentativi in azienda. L’INPS ha l’importante ruolo di verificare che ci siano tutti i presupposti e quindi che l’azienda abbia un numero di dipendenti medio di almeno 15 unità e che i lavoratori interessati abbiano effettivamente maturato i requisiti per l’isopensione.

In seguito a tale accordo i dipendenti vengono informati della possibilità di accedere all’isopensione e devono manifestare la loro intenzione di aderire, ma non sono obbligati a uscire dall’azienda. L’INPS infine si occupa di validare l’atto. Dal primo mese successivo il dipendente potrà percepire l’isopensione.

Ci sono però delle cose da sottolineare per quanto riguarda gli importi, infatti l’isopensione è inferiore rispetto all’assegno che si avrebbe con la pensione ordinaria e questo perché manca una parte dei contributi ordinari. Il trattamento pensionistico viene calcolato sulla base dei contributi effettivamente versati fino a quel momento. In secondo luogo sull’isopensione non sono applicati gli ANF (Assegni Nuclei Familiari) inoltre non vi è diritto alla reversibilità per il coniuge e non c’è la perequazione automatica.

La circolare INPS 142 del 2021

Occorre premettere che l’INPS calcola le decorrenze di pensione utilizzando le stime dell’INPS sulla speranza di vita, le ultime stime dell’ISTAT però hanno visto un incremento della speranza di vita pari a 0 nel biennio 2020-2022 modificando così le stime precedenti che vedevano un costante incremento della speranza di vita. La circolare 119 del 2013 aveva già chiarito la liquidazione della pensione alla fine del periodo di esodo sarà applicata tenendo in considerazione la normativa in vigore alla data di decorrenza del trattamento pensionistico. Se nel frattempo si verificano modifiche legislative che innalzino i requisiti di accesso al trattamento pensionistico, oppure nel caso di incremento dell’aspettativa di vita, l’erogazione di quest’ultima proseguirà per l’ulteriore necessario periodo.

Una novità importante per coloro che vogliono accedere all’isopensione è contenuta nella circolare dell’INPS 142 del 2021 che è possibile leggere qui: Circolare INPS 142 del 2021

La disciplina prevede che “per il biennio 2021-2022 l’isopensione è dovuta fino alla data di maturazione del requisito anagrafico di 67 anni (non più di 67 anni e 3 mesi) ovvero fino alla maturazione del requisito contributivo di 42 anni e 3 mesi per le donne (non più di 42 anni e 6 mesi) o 43 anni e 3 mesi per gli uomini (non più di 43 anni e 6 mesi). La contribuzione correlata è dovuta fino alla data di maturazione dei predetti requisiti ”, quindi potrebbe esserci un vuoto di tre mesi tra la scadenza dell’isopensione e la percezione della pensione ordinaria.

Come evitare l’interruzione dell’isopensione

La stessa circolare prevede però una piccola correzione, cioè per le domande di pensione anticipata presentate entro un mese dall’emanazione della circolare stessa, data 27 settembre 2021, non si applica la circolare stessa ma è prevista una permanenza in esodo per un ulteriore mese. Resta ferma la possibilità di accedere maturati i requisiti a forme di pensionamento anticipato come Quota 100 e Opzione donna.

La circolare INPS comunque sottolinea che i soggetti interessati riceveranno una comunicazione inerente tali cambiamenti.

Contributi previdenziali Casse professionali: tutte le aliquote e i nuovi aumenti

Continuano i ritocchi sui contributi previdenziali delle Casse professionali. Aumenti sono registrati per i medici, gli odontoiatri, i giornalisti e i veterinari. Per i geometri e i periti industriali, l’integrativo è al 5% per le commesse fatte a favore della Pubblica amministrazione. Ecco tutte le percentuali dei contributi, il contributivo integrativo e la quota di maternità (quasi sempre fissa) inerenti la dichiarazione dei redditi del 2021 per compensi maturati nel 2020.

Dichiarazione redditi 2021, a chi sono aumentati i contributi? I giornalisti dell’Inpgi

I contributi calcolati sul reddito netto dei professionisti del 2020 sono in aumento per gli odontoiatri, i medici, i giornalisti e i veterinari. I contributi integrativi, invece, quest’anno sono aumentati per i soli giornalisti. Nel dettaglio, i giornalisti iscritti all’Inpgi, l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani, pagano:

  • un contributo soggettivo del 12% sul reddito professionale netto fino al limite di 24 mila euro;
  • per redditi oltre i 24 mila euro la percentuale sale al 14%;
  • il contributo integrativo del 4% del reddito lordo;
  • a scelta del professionista il contributo aggiuntivo di almeno il 5% sul reddito netto.

Il modello di reddito GS/2021 deve essere inviato in via telematica entro il 30 settembre 2021.

Contributi previdenziali di avvocati e consulenti del lavoro

Gli avvocati iscritti alla Cassa Forense pagano il contributo soggettivo sul reddito della propria professione aumentato dal 14,5% al 15%. L’aumento tuttavia è in vigore dal 1° gennaio 2021, pertanto per la dichiarazione dei redditi da presentare entro il 30 settembre 2021 la percentuale è ancora del 14,5%. In più gli avvocati pagano un contributo soggettivo del 3% sul reddito netto e un integrativo del 4% sul volume di affari. Per i consulenti del lavoro, il contributo soggettivo è del 12% sul reddito netto e l’integrativo del 4%.

Dichiarazione redditi di commercialisti e notai

Per i commercialisti il contributo soggettivo varia dal 12% al 100% del reddito netto, l’integrativo è del 4%. La Cassa dei Ragionieri e Periti commerciali (esperti contabili) applica un soggettivo dal 15 al 25%, un soggettivo supplementare dello 0,75% e un integrativo sul volume di affari del 4%. I notai iscritti alla Cassa nazionale del Notariato, versano il 22% del valore del repertorio notarile del mese precedente per atti del valore negoziale fino a 37 mila euro. Tutti gli altri atti hanno una percentuale del 42%.

Medici e odontoiatri, quanto pagano di contributi previdenziali alle Casse?

Per i medici e gli odontoiatri iscritti all’Enpam, il contributo sulla quota A è fisso in base all’età. Il contributo sulla quota B è del 19,5% sul reddito professionale netto (lo scorso anno era del 18,5%). Oltre il limite dei 103.0555 euro di reddito annuo, la quota B sull’incremento è pari all’1%. Per gli attuari, i chimici e i fisici, i dottori agronomi e forestali, e i geologi iscritti all’Epap, il contributo soggettivo è del 10% sul reddito netto fino a 103.055 euro all’anno, sull’eccedenza si paga il contributo di solidarietà dello 0,2%. È prevista la percentuale integrativa del 2% sul volume di affari mentre il contributo maternità è fisso.

Agrotecnici, periti agrari e biologi: quanto pagano di contributi previdenziali?

Gli agrotecnici e i periti agrari iscritti alla Fondazione Enpaia (Ente nazionale di previdenza per gli addetti e per gli impiegati in agricoltura), versano il contributo soggettivo pari al 10% sul reddito professionale netto. Cambia il contributo integrativo che è del 2% per gli agrotecnici e dal 2% al 5% per i periti agrari. Per entrambe le categorie il contributo di maternità è fisso. I biologi, iscritti all’Ente nazionale di previdenza e assistenza a favore dei Biologi, il contributo soggettivo è del 15% sul reddito netto della professione, mentre l’integrativo è del 4% sul volume di affari. Dal 1° luglio 2019 il 4% si paga anche sulle prestazioni a favore della Pubblica amministrazione.

Farmacisti, infermieri, psicologi e veterinari: quanto pagano alla dichiarazione dei redditi?

Per i farmacisti iscritti all’Enpaf sono previsti i contributi previdenziali e assistenziali fissi per il 2021. Diversamente gli infermieri dell’Enpapi, versano un contributo soggettivo del 16% sul reddito netto e un integrativo del 4% (anche sulle prestazioni verso la Pubblica amministrazione dal 16 maggio 2019). Per gli psicologi iscritti all’Enpap il contributo soggettivo è del 10% sul reddito netto, l’integrativo del 2% sul volume di affari. Resta fisso il contributo di maternità. Per i veterinari dell’Enpav, il contributo soggettivo è del 15,5% sul reddito netto fino a 95.150 euro (sullo scaglione più alto è del 3%). È previsto un integrativo sul volume di affari del 2% e un contributo di maternità fisso.

Geometri, ingegneri, architetti e periti industriali: contributo soggettivo e integrativo

I geometri iscritti alla Cassa italiana di previdenza e assistenza Geometri liberi professionisti (Cipag) versano un contributo soggettivo del 18% sul reddito netto fino a 156.800 euro. Per redditi oltre la soglia è previsto un contributo soggettivo del 3,5%. Il contributo integrativo è del 5% sul volume di affari, del 4% nel caso in cui si tratta di lavori fatti per la Pubblica amministrazione. per gli ingegneri e gli architetti il contributo soggettivo è del 14,5% sul reddito netto, con un contributo integrativo del 4% calcolato sul volume di affari. Per i periti industriali iscritti all’Eppi, Ente di previdenza dei periti industriali e periti industriali laureati, il contributo soggettivo è del 18%, da calcolare sul reddito netto. Il contributo integrativo è del 5% sul volume di affari. La percentuale è salita dal 25 febbraio 2019 dal 2% al 5% anche per lavori fatti per la Pubblica amministrazione.