Assunzioni con Garanzia Giovani: requisiti e informazioni

Garanzia Giovani (Youth Guarantee) è il Programma europeo nato dalla necessità di far fronte alle difficoltà di inserimento lavorativo dei giovani. Con questo obiettivo sono stati previsti finanziamenti agli Stati membri che abbiano un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 25%. I fondi sono investiti nelle politiche attive di orientamento, di istruzione, di formazione e di assunzioni lavorative a favore dei giovani che non siano impegnati in attività lavorative e non siano inseriti in percorsi scolastici o formativi (i cosiddetti “Neet” – Not in Education, Employment or Training).

Garanzia giovani: chi può aderire

Possono aderire al programma Garanzia giovani ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 anni (entro il giorno prima del compimento del trentesimo anno di età), non impegnati in attività lavorative e non inseriti in un regolare corso di studi (scuole secondarie o università) o che non seguano corsi di formazione, inclusi master, dottorati e corsi di alta formazione. La registrazione al piano è preclusa anche a coloro che, pur non frequentando l’università, ne risultano iscritti. Sono altresì esclusi gli iscritti ad attività di tirocinio.

Cosa prevede Garanzia Giovani?

L’adesione al programma Garanzia giovani prevede la possibilità di ricevere un’offerta di lavoro entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dalla fine del percorso di studi. Oltre all’occupazione, il programma può prevedere il proseguimento degli studi, di apprendistato e di tirocinio, con colloqui indirizzare a individuare il percorso di inserimento personalizzato in base alle competenze individuali, professionali e formative, ai percorsi di formazione specifici indirizzati al lavoro oppure al reinserimento nei percorsi formativi o a periodi di formazione nelle aziende con indennità di partecipazione mensile.

Giovani per l’autoimprenditorialità, il servizio civile e la mobilità professionale

Sono inoltre previsti servizi per l’autoimprenditorialità, con servizi a sostegno delle attitudini imprenditoriali mediante formazione, assistenza nella stesura del progetto imprenditoriale e supporto alle star-up, anche con accesso a strumenti di credito. Rientra nel programma anche il servizio civile, da svolgere come esperienza di partecipazione civica e sociale ai progetti di solidarietà, assistenza e cooperazione e per il quale è prevista una retribuzione. Infine, l’adesione riguarda anche la mobilità professionale in Italia e verso gli altri Paesi della Comunità europea con la previsione di un voucher a copertura dei costi di viaggio e l’alloggio per sei mesi.

Come iscriversi al programma Garanzia giovani

Per aderire è necessario iscriversi al programma nazionale Garanzia giovani secondo le regole aggiornate a dicembre 2019. È richiesta la registrazione al portale MyAnpal, l’area riservata del portale Anpal, attraverso lo Spid (il Sistema pubblico di Identità Digitale), la Cie (Carta di Identità Elettronica) o la Cns (Carta nazionale dei servizi). Sul portale MyAnpal l’interessato effettua la vera e propria adesione al programma selezionando la Regione o la Provincia autonoma dove desidera usufruire delle opportunità previste dal piano.

In alternativa, è possibile aderire al programma anche dai portali regionali o da quello nazionale di Clicklavoro. L’adesione comporta normalmente la comunicazione da parte della Regione attraverso un link mediante il quale l’interessato può scegliere e contattare un operatore accreditato ai servizi lavorativi.

Domicilio e residenza nell’iscrizione a Garanzia giovani

L’informazione relativa al domicilio, all’atto della registrazione al programma Garanzia giovani, non è determinante ai fini della validità dell’iscrizione. Sarà possibile fornire i dati più aggiornati in sede di colloquio presso il Centro pubblico per l’impiego indicato in fase di registrazione. Iscriversi al programma è consentito in qualsiasi Regione, a prescindere da dove si ha la residenza o il domicilio.

Ci si può iscrivere a una Regione diversa dal proprio domicilio o residenza?

È perfino possibile iscriversi in una Regione diversa da quella dove si possiede il domicilio o la residenza, in base alle priorità collegate alle proprie esigenze di formazione o di lavoro. Infine, si può usufruire delle misure e dei servizi di una Regione diversa da quella scelta in fase di registrazione. Ad esempio, si può essere assunti da una Regione differente da quella che ha preso in carico l’interessato.

Ci si può iscrivere presso più Regioni?

È possibile registrarsi, contemporaneamente, a più di una Regione, anche se sarà un unico Centro per l’impiego, e dunque una sola Regione, a prendere in carico l’interessato. In ogni caso, l’interessato verrà convocato dai Centri per l’impiego di tutte le Regioni selezionate, potendo successivamente scegliere per quale Regione si impegnerà nell’avvio del proprio percorso di formazione o di lavoro. In tal caso, vale la sottoscrizione del Patto di servizio che fa decadere tutte le altre iscrizioni presso altre Regioni.

Non è necessario, in ogni modo, che l’interessato si presenti a tutte le convocazioni che arrivano dal Centri per l’impiego delle diverse Regioni. Dovrà invece presentarsi esclusivamente alla convocazione del Centro per l’impiego appartenente alla Regione di suo interesse.

Dopo la registrazione al portale MyAnpal, l’accoglienza e l’orientamento al Centro per l’impiego

Dopo la registrazione al programma, è prevista la fase di accoglienza e di orientamento, della durata di circa due ore, che si svolge presso lo sportello della Regione scelta. È la Regione stessa, entro 60 giorni dall’adesione, a contattare l’interessato e a indirizzarlo presso lo sportello, che può essere il Centro pubblico per l’impiego. Allo sportello, l’interessato può:

  • ricevere informazioni sul Programma, conoscere gli obiettivi di Garanzia giovani e sapere chi le attua a livello nazionale e regionale;
  • ricevere supporto sulla definizione dell’obiettivo professionale, come ad esempio la scelta del percorso formativo indicato e disponibile oppure l’opportunità lavorativa attraverso un tirocinio o un apprendistato;
  • essere preso in carico, conoscere le modalità di accesso alle misure di Garanzia giovani e gli enti ai quali rivolgersi.

Entro quanto tempo arriva un’opportunità di lavoro o formazione del programma Garanzia giovani?

Una volta terminata la fase di colloquio e di orientamento, è necessario sottoscrivere con l’operatore del Centro pubblico per l’impiego il Patto di servizio, consistente in un accordo tra il richiedente e il Cpi stesso, nonché il Piano di Azione Individuale. Con i due strumenti risultano indicate le opportunità e i percorsi selezionati in base al profilo del richiedente, già scelti dall’operatore quali idonei per l’inserimento nel mondo del lavoro oppure per la formazione e l’istruzione. Dalla firma del Patto di servizio, il Centro pubblico per l’impiego ha quattro mesi di tempo per offrire una delle opportunità di lavoro o di formazione previste dal programma Garanzia giovani.

Pensioni di reversibilità e indiretta ai superstiti, i limiti di reddito del 2021

Alla morte di un contribuente, lavoratore o pensionato, i familiari più stretti hanno diritto a una pensione. Si tratta di una prestazione riconosciuta dall’ordinamento giuridico al coniuge e ai figli, e subordinatamente, ai genitori del defunto di almeno 65 anni, ai fratelli e alle sorelle inabili. Non è richiesto alcun requisito contributivo particolare al defunto in quanto già titolare di una prestazione pensionistica (di vecchiaia, di anzianità o di inabilità). In tal caso la prestazione spettante ai superstiti si chiama pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità e pensione indiretta

Nel caso in cui il defunto era ancora un lavoratore (non ancora titolare di pensione) con non meno di 780 settimane di contributi o 260 settimane di versamenti dei quali almeno 156 nei cinque anni precedenti la data della morte, ai superstiti spetta la pensione indiretta. Inoltre, il mancato raggiungimento dei requisiti contributivi del defunto presso un ulteriore fondo previdenziale presso il quale il defunto ha contribuito fa scattare la pensione supplementare indiretta, spettante al solo superstite già beneficiario di prestazione di reversibilità o indiretta. 

Reversibilità, cosa succede se il coniuge ha altri redditi?

Se il coniuge svolge attività lavorative o possiede altri redditi, sia la pensione di reversibilità che quella indiretta subiscono delle riduzioni. Normalmente, i due trattamenti sono di importo pari al 60% della pensione percepita dal defunto o di quella maturata nel caso dell’indiretta. Tuttavia, in presenza di altri redditi personali, superiori a tre volte il trattamento minimo stabilito dall’Inps, la quota della prestazione spettante al coniuge si riduce di percentuali tanto più alte quanto più elevato è il reddito percepito. 

Percentuali di riduzione pensione di reversibilità o indiretta

Le percentuali di riduzione della pensione di reversibilità o di quella indiretta in presenza di altri redditi sono stabile dal comma 41 dell’articolo 1  della legge 225 del 1995 (Legge Dini). Secondo il richiamato comma, le riduzioni sono pari al 25, al 40 e al 50% della prestazione spettante nel caso in cui il reddito del superstite sia maggiore, rispettivamente, di tre, quattro o cinque volte il trattamento minimo dell’Inps. Tale limite di trattamento è stabilito per annualmente e deve essere calcolato sulle tredici mensilità.

Riduzione della pensione di reversibilità per redditi del coniuge superiori a 20.107,62 euro

Nell’anno 2021, per non subire alcuna decurtazione della pensione di reversibilità o indiretta, è necessario che il coniuge superstite non superi il limite di reddito pari a 20.107,62 euro. Nel caso in cui il coniuge dovesse superare questa soglia annua, la riduzione della prestazione (il 60% della pensione percepita dal coniuge defunto oppure quella maturata fino al momento della sua morte) sarà del 25% per un ammontare dei redditi del beneficiario da 20.107,62 euro a 26.810,16 euro. Ciò significa che l’importo spettante al coniuge superstite non sarà del 60% ma del 45% della pensione maturata dal defunto, risultato ottenuto applicando la riduzione del 25%. 

Limite di reddito che il coniuge non deve superare per ridurre della metà la prestazione di reversibilità

Per redditi del coniuge superstite superiori, la percentuale di decurtazione della prestazione spettante come reversibilità o pensione indiretta è ulteriormente più alta. Pertanto, la presenza di redditi prodotti nell’anno da 26.810,16 euro a 33.512,70 euro, fa salire la percentuale di riduzione al 40%. Ne consegue che l’importo spettante al vedovo o alla vedova sarà pari al 36% (e non il 60%) della pensione maturata dal defunto. Il taglio della prestazione può arrivare fino al 50% per redditi annui di importo superiore a 33.512,70 euro. In tal caso, la prestazione di reversibilità corrisponde alla metà (il 30%) di quanto sarebbe spettato in assenza di redditi o per redditi entro i 20.107,62 euro. 

Pensioni di reversibilità, i redditi da prendere in considerazione

I redditi da prendere in considerazione ai fini della riduzione della prestazione di pensione di reversibilità o indiretta sono quelli assoggettati all’Irpef. Gli importi vanno presi al netto dei contributi assistenziali e previdenziali, ma rientrano ai fini del calcolo il trattamento di fine rapporto e le relative anticipazioni, i redditi della casa di abitazione e le competenze arretrate sottoposte alla tassazione separata. Tuttavia, non va considerato l’importo della pensione ai superstiti sulla quale va effettuata eventualmente la riduzione stessa. 

Il superstite deve presentare la dichiarazione reddituale per la pensione di reversibilità

Sia al momento della domanda di pensione di reversibilità o indiretta, che negli anni successivi, il coniuge deve presentare la dichiarazione reddituale che attesti i redditi percepiti nell’anno di riferimento. Dalla dichiarazione si calcola la riduzione da applicare alla prestazione del defunto. Le riduzioni scattano sempre nei casi di prestazione spettante solo al coniuge, ovvero ai genitori o ai fratelli e sorelle del defunto. Diversamente, la riduzione non scatta nel caso in cui i titolari della prestazione siano i figli, minori, studenti oppure inabili, ancorché in concorso con il coniuge del defunto.  In quest’ultimo caso, l’ordinamento giuridico permette la possibilità di cumulare per intero la prestazione del defunto con eventuali altri redditi. 

Irpef su partite Iva forfettarie e dipendenti: un confronto

Il regime forfettario delle partite Iva rinnova il confronto degli autonomi con i lavoratori dipendenti. Dall’analisi del prelievo dell’Irpef, infatti, a parità di reddito tra gli autonomi e i dipendenti, gran parte delle partite Iva paga un’Irpef minore. In particolare per gli autonomi ricadenti nel regime forfettario con imposta sostitutiva del 15%, la cosiddetta “flat tax”, estesa dalla legge di Bilancio 2019 agli autonomi che abbiano ricavi entro i 65.000 euro annui.

Partita Iva, la scelta della flat tax per il regime forfettario

Il regime agevolato del quale beneficia chi apre una partita Iva forfettaria, con la non applicazione dell’Irap, dell’Iva e delle addizionali Irpef, sta portando a una maggiore preferenza nella scelta degli autonomi verso la flat tax. Ad oggi le partite Iva con regime forfettario costituiscono il 30% del totale degli autonomi, ma l’incidenza verso questo regime si sta accrescendo ulteriormente negli anni. Nel 2020, infatti, il forfait è stata la scelta per il 46,4% delle nuove partite Iva, e circa il 50% per quelle del primo trimestre di quest’anno.

A chi conviene di più il regime forfettario delle partite Iva e la tassa fissa

Chi massimizza i benefici della partita Iva a regime forfettario sono soprattutto i lavoratori autonomi che hanno una soglia di fatturato quanto più vicina al limite dei 65.000 euro. E dunque, con la flat tax fissata al 15%, sono soprattutto i professionisti a sfruttare al massimo il regime agevolato, avendo una bassa incidenza dei costi e un elevato coefficiente di redditività. La convenienza al regime forfettario è testimoniato dal fatto che le piccole imprese cercano di rimanere il più possibile nel sistema agevolato. Ciò diventa disincentivante per lo sviluppo dell’economia e delle imprese. Ma anche la progressività delle imposte, rispetto alla flat tax, pone dei dubbi sulla reale equità e redistribuzione delle tasse. Si pensi, ad esempio, al salto di 11 punti Irpef tra il secondo e il terzo scaglione, dal 27 al 38%.

Aliquote Irpef del lavoro dipendente a confronto con i coefficienti di redditività della flax tax

Nel confronto tra partita Iva del regime forfettario e aliquote Irpef applicate al lavoro dipendente, non possono essere esclusi altri fattori e proposte di revisione del sistema fiscale. In primis, il regime forfettario ha portato qualche anno fa al debutto dei coefficienti di redditività, poi rivisti dopo l’innalzamento della soglia dei ricavi a 65.000 euro (dai 25.000 minimi). Tuttavia, gli stessi coefficienti non risultano coerenti con le strutture dei costi delle aziende, soprattutto per quelle di maggiori dimensioni. In ambito di riforma fiscale, non mancano le iniziali proposte di aumentare l’aliquota della flat tax al primo scaglione Irpef applicato anche ai lavoratori dipendenti, pari al 23%.

Lavoratori dipendenti e Irpef: progressività a scaglioni e detrazioni

Un reale confronto sul sistema Irpef tra la partita Iva forfettaria e la progressività a scaglioni del lavoro non autonomo non può escludere le specifiche detrazioni, rispetto al reddito e ai carichi familiari, applicati ai lavoratori alle dipendenze. Le stesse aliquote Irpef, pertanto, vanno valutate sulla base della struttura delle detrazioni applicate per il lavoro e la famiglia, determinando le effettive aliquote marginali.

Esempio di pagamento Irpef lavoratore autonomo e dipendente: meno Irpef o più detrazioni?

Scendendo nel confronto tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi forfettari, si può fare l’esempio di un lavoratore dipendente e di un autonomo con un reddito annuo di 24.500 euro: il secondo si troverà nella situazione ideale di pagare il 15% di imposte ma senza oneri deducibili e detraibili, o carichi familiari. Mentre i lavoratori dipendenti, quasi nella globalità, hanno altri oneri detraibili. Dunque, dall’ultimo calcolo fiscale dei lavoratori dipendenti, quasi tutti i 22 milioni e 200 mila (pari al 54% dei contribuenti) beneficiano di detrazioni d’imposta e circa il 39% ottiene agevolazioni per carichi di famiglia.

Chi ha partita Iva può prendere la disoccupazione?

Chi possiede la partita Iva può chiedere la disoccupazione? La domanda è di interesse dei  lavoratori autonomi, dei liberi professionisti e degli imprenditori e riguarda la possibilità che possano fare domanda dell’indennità Inps per la perdita dell’occupazione con una posizione di partita Iva già aperta ed operativa. Ma riguarda anche i casi di una partita Iva latente, che non produca redditi. Nella generalità delle situazioni, ed escludendo il nuovo ammortizzatore sociale Iscro introdotto dalla legge di Bilancio 2021 a favore proprio dei lavoratori a partita Iva, la disoccupazione spetta solo ai lavoratori dipendenti e ai collaboratori.

Casi in cui il lavoratore autonomo con partita Iva può chiedere la disoccupazione

Tuttavia, chi ha una partita Iva non è escluso in partenza dall’indennità di disoccupazione Naspi. Ad esempio, può presentare domanda di disoccupazione il lavoratore alle dipendenze che perda il proprio lavoro e che abbia anche la partita Iva. È necessario invece che i collaboratori che abbiano partita Iva prestino maggiore attenzione nel momento in cui, alla cessazione del contratto, richiedano la Dis-coll, ovvero la relativa indennità di disoccupazione. 

Autonomi e collaboratori, chi può chiedere la disoccupazione?

Dunque, per rispondere alla domanda se un lavoratore autonomo possa richiedere la disoccupazione Naspi, la risposta è negativa se l’unica attività del richiedente è quella per la quale ha aperto la posizione di partita Iva, ovvero si tratti dell’unica attività di lavoro da libero professionista, da autonomo oppure da imprenditore. Nel caso in cui, invece, oltre all’attività in proprio, il richiedente è anche dipendente allora è possibile fare domanda di indennità di disoccupazione. 

Indennità di disoccupazione Naspi: quali sono i requisiti per ottenerla?

L’indennità di disoccupazione Naspi spetta ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto, involontariamente, l’occupazione. Sono compresi gli apprendisti, i soci lavoratori delle cooperative con rapporto di lavoro subordinato con le stesse cooperative e il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato. Sono ammessi alla disoccupazione anche i dipendenti delle Pubbliche amministrazioni con contratto a tempo determinato (esclusi, invece, se il contratto è a tempo indeterminato).

Rientrano tra gli esclusi alla prestazione Inps anche gli operai agricoli sia a tempo determinato che indeterminato, i lavoratori extracomunitari per i lavori stagionali, i lavoratori che abbiano maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata, i lavoratori con assegno ordinario di invalidità. 

Redditi da lavoro autonomo: compatibilità con la Naspi

Chi rientra nei requisiti per ottenere la Naspi ed ha anche la partita Iva per attività in proprio può dunque fare richiesta di disoccupazione. La Naspi non è incompatibile nemmeno nel caso in cui si apra una partita Iva in un momento successivo a quello si fa domanda disoccupazione. In tal caso la Naspi non viene né sospesa e nemmeno decade, ma è necessario prestare attenzione sull’eventuale reddito che derivi dall’attività per la quale si è aperta la partita Iva. Infatti, la Naspi viene conseguentemente ridotta. 

Riduzione disoccupazione Naspi per chi svolge attività con partita Iva

Più nel dettaglio, la riduzione della Naspi opera nel caso in cui chi percepisce la disoccupazione svolge anche un’attività in forma autonoma dalla quale si generi un reddito annuo corrispondente a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti. Tali detrazioni sono calcolate ai sensi di quanto quanto prevede l’articolo 13 del Testo Unico delle Imposte sui redditi (TUIR), ovvero determinate in 4.800 euro.

In tal caso, l’indennità Naspi spettante si riduce dell’80% dei redditi previsti, in rapporto al periodo che intercorre tra la data di inizio dell’attività e la data in cui è determinata la fine del godimento della Naspi stessa o, se antecedente, entro la fine dell’anno. Se l’attività autonoma produce un reddito superiore al limite fissato dal TUIR, ovvero oltre ai 4.800 euro lordi annui, il richiedente decade dalla Naspi in quanto l’Irpef lorda risulta inferiore alle detrazioni per i redditi da lavoro autonomo. 

Partita Iva aperta prima della domanda di disoccupazione

La prestazione Naspi, ancorché ridotta, si conserva solo se il soggetto beneficiario comunica all’Inps il reddito presunto annuo derivante da attività autonoma con partita Iva. Nel caso in cui è presente l’iscrizione alla Gestione separata Inps, oppure l’attività autonoma è preesistente alla data di cessazione del rapporto di lavoro che ha generato la disoccupazione, è necessario che il richiedente lo indichi nella domanda di Naspi. L’interessato deve necessariamente indicare nella domanda anche il reddito annuo che prevede di conseguire dallo svolgimento dell’attività autonoma, anche se pari a zero. 

Disoccupazione e modello Naspi Com in caso di reddito da attività autonoma

Il lavoratore autonomo che presenti domanda di disoccupazione Naspi, ricorrendone le condizioni, potrà comunicare all’Inps il reddito annuo previsto anche successivamente all’istanza. In particolare, entro un mese dall’invio della domanda Naspi, potrà comunicare il reddito autonomo presunto attraverso il modello Naspi Com. Il caso è molto simile anche per l’apertura della partita Iva in un momento successivo alla presentazione della domanda di Naspi.

In tal caso, è previsto che entro un mese dall’inizio dell’attività il richiedente ne dia comunicazione tramite modello Naspi Com con l’indicazione del reddito presunto. La mancata comunicazione nei termini indicati dell’inizio o di svolgimento di un’attività lavorativa autonoma, nonché del reddito presunto anche se pari a zero, comporta la decadenza della Naspi. Gli iscritti alla Gestione separata Inps che svolgono attività autonoma devono indicare, annualmente, il reddito presunto. 

Collaboratori con partita Iva e domanda di Dis-coll

Diverso è il caso di partita Iva e Dis-coll. Per percepire l’indennità riservata ai collaboratori non è consentito avere una partita Iva, anche se la posizione non dovesse produrre redditi. Pertanto, un collaboratore coordinato e continuativo, anche a progetto, che abbia perso involontariamente un’occupazione e che sia iscritto in via esclusiva alla Gestione separata Inps, può chiedere l’indennità di disoccupazione purché preliminarmente proceda con la chiusura della partita Iva.

La stessa posizione, tuttavia, può essere aperta dopo la presentazione della domanda: il collaboratore che percepisca la Dis-coll e che intraprenda un’attività lavorativa di impresa individuale, parasubordinata o autonoma dalla quale si generi un reddito annuo corrispondente a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti (4.800 euro) dovrà darne comunicazione all’Inps entro 30 giorni dall’inizio dell’attività.

Riduzione disoccupazione Dis-coll per attività autonoma con partita Iva

In tal caso, l’importo della Dis-coll viene ridotto dell’80% del reddito previsto, rapportato al periodo intercorrente tra la data di inizio attività e quella in cui finisca il periodo di pagamento dell’indennità di disoccupazione o, se antecedente, dalla data di fine anno. Se l’attività era preesistente alla presentazione della domanda di disoccupazione, il richiedente dovrà comunicare all’Inps, già all’atto della presentazione dell’istanza di Dis-coll, il reddito annuo che presume di produrre dall’attività stessa. 

 

Pensione, cosa fare in caso di morte?

La morte di una persona cara, oltre a rappresentare un momento critico e doloroso, impone anche di affrontare questioni pratiche, fiscali e legali. In merito alla pensione, se il defunto era titolare in vita di una prestazione previdenziale Inps, la legge prevede che la pensione non venga più erogata automaticamente. Ciò avviene non appena gli eredi o chi è delegato alla riscossione, comunicano l’avvenuto decesso all’Istituto previdenziale. In generale, questa comunicazione deve avvenire entro le 48 ore successive al decesso.

Comunicazione all’Inps avvenuto decesso del pensionato

Proprio sulla morte del pensionato, è previsto l’invio telematico della comunicazione del decesso, come stabilisce l’articolo 1, comma 303 e seguenti, della legge numero 190 del 2014, ovvero la legge di Stabilità 2015. Le novità ricorrono a partire dal 1° gennaio 2015 e riguardano proprio il modo di comunicare all’Inps l’avvenuta morte del titolare della pensione. Le novità introdotte dalla norma hanno ripercussioni sulle modalità di pagamento dell’Istituto previdenziale delle prestazioni. Infatti, come spiega la legge di Stabilità 2015, “il medico necroscopo trasmette all’Inps, entro 48 ore dall’evento, il certificato di accertamento del decesso”.

Invio telematico della comunicazione del decesso: chi deve farla

La comunicazione avviene in via telematica seguendo le normali procedure online già utilizzate per gli altri servizi Inps. In particolare, i soggetti che sono autorizzati, possono utilizzare il pin on line del defunto oppure rivolgersi a un patronato autorizzato per adempiere a tutte le pratiche burocratiche necessarie. Gli eredi potranno anche predisporre un’autocertificazione di decesso per non dover attendere che il comune di residenza del defunto rilasci il certificato di morte. La mancata comunicazione del decesso del titolare di pensione e il continuare a riscuotere la prestazione previdenziale rappresenta un reato punibile per legge. A tal proposito, la comunicazione all’Inps segue quanto previsto dall’articolo 46 del decreto legge numero 269 del 30 settembre 2003, poi convertito nella legge numero 326 del 24 novembre 2003.

Pensione accreditata dopo la morte dell’avente diritto: pagamento con riserva, cosa significa?

Secondo quanto prevede il comma 304 della legge 190 del 2014, le prestazioni in denaro versate dall’Inps nel periodo successivo alla morte dell’avente diritto su un conto corrente bancario o postale, sono pagate con riserva. Ciò significa che la banca o la società Poste Italiane Spa che abbiano ricevuto le somme erogate, sono tenute alla restituzione all’Istituto previdenziale nel caso in cui tali somme venissero accreditate senza che il beneficiario ne avesse diritto.

Si deve restituire la pensione dopo la morte del beneficiario?

Più nel dettaglio, se accade di ricevere la pensione dopo la morte dell’avente diritto perché l’Inps aveva provveduto a emetterla prima del decesso, la pensione va restituita. Dunque, generalmente la somma va restituita se il decesso avviene prima dell’accredito. Se, invece, il decesso avviene a metà di una mensilità, l’Istituto previdenziale deve erogare la prestazione pensionistica solo parzialmente, ovvero per la parte del mese in cui l’avente diritto era ancora in vita. In generale, se la morte del pensionato avviene in data posteriore all’accredito, la prestazione pensionistica non dovrà essere restituita e, contestualmente, l’Inps non procederà allo storno.

Obbligo di restituzione di somme accreditate sul conto corrente dopo la morte del pensionato

Se dovessero esserci accrediti non dovuti di pensione su conto corretto o sul libretto postale dopo la morte del titolare della prestazione pensionistica, gli eredi devono darne comunicazione alla posta o alla banca titolare del conto. Saranno gli stessi eredi a restituirla all’Inps. A tal proposito, specifica il comma 304, l’obbligo di restituzione sussiste nei limiti della disponibilità esistente sul conto corrente. Inoltre, la banca o la posta non può utilizzare gli importi accreditati e non dovuti per l’estinzione dei propri crediti.

Reintegro a favore dell’Inps per somme ricevute o a disposizione nel caso di morte del pensionato

Sempre secondo quanto prevede la legge di Stabilità 2015 al comma 304, nei casi in cui nei periodi precedenti i soggetti abbiano ricevuto direttamente le prestazioni in contanti per delega sono obbligati a reintegrare le somme a favore dell’Inps. Lo stesso obbligo sussiste quando gli stessi soggetti abbiano avuto disponibilità sul conto corrente postale o bancario, o ancora abbiano svolto o autorizzato operazioni di pagamento con addebito sul conto corrente del disponente. L’istituto bancario o postale che rifiutino la richiesta di reintegro per impossibilità sopravvenuta o per qualunque altro motivo sono tenuti a darne comunicazione all’Inps. Nella comunicazione devono essere rese note le generalità del destinatario o del disponente e l’eventuale nuovo titolare del conto corrente.

Indennità di accompagnamento e pensione dopo la morte dell’avente diritto

Diverse è il caso delle indennità di accompagnamento post morte. Può accadere, infatti, che un familiare muoia prima di aver potuto incassare una pensione o una prestazione di assistenza, quale può essere l’accompagnamento. In questo caso, gli eredi hanno diritto a fare richiesta degli arretrati non riscossi, anche se non sono beneficiari di reversibilità. La legge sancisce, infatti, che gli arretrati spettanti al defunto, senza tener conto del tipo di prestazione, debbano essere liquidati dall’Istituto previdenziale agli eredi. La liquidazione avviene in proporzione alla quota di eredita spettante da ciascuno.

Come vengono pagati gli arretrati non riscossi per assegno di accompagnamento agli eredi?

In merito, la legge prevede che siano tutti gli eredi a percepire le indennità di accompagnamento eventualmente non riscosse dall’avente diritto e non solo da chi si sia fatto carico dell’assistenza dell’invalido. Gli eredi dell’invalido hanno diritto, pertanto, alle quote della pensione di invalidità e delle indennità di accompagnamento maturate dalla presentazione della domanda fino al giorno della morte dell’invalido. Sempre che la morte sia sopraggiunta in epoca anteriore all’accertamento dell’inabilità effettuata dalla commissione provinciale di competenza.

Partita Iva: quando è inattiva e chiusura automatica dell’Agenzia delle Entrate

Può capitare che una partita Iva, aperta per avviare un’attività d’impresa o un lavoro autonomo, non sia stata chiusa a seguito della mancata movimentazione per diverso tempo. Una situazione di questo tipo rientra come “partita Iva inattiva” e si verifica, frequentemente, quando l’attività subisce un calo drastico che porta il titolare al mancato utilizzo della sua posizione.

Chiusura partita Iva con modello AA9/12 entro 30 giorni

Di regola, il titolare di una partita Iva non più attiva dovrebbe procedere alla chiusura, presentando all’Agenzia delle Entrate il modello AA9/12 entro trenta giorni dalla data di cessazione dell’attività. Tuttavia, è frequente anche il caso di apertura di partita Iva per un’attività sporadica o secondaria, come nel caso di un consulente che svolga attività esterne all’impresa per la quale lavora. Attività di questo tipo richiedono di avere una partita Iva.

Partita Iva: in quali casi l’Agenzia delle Entrate procede alla chiusura d’ufficio

Pur essendo difficile individuare la data a partire dalla quale l’attività può considerarsi cessata e quindi di decorrenza dei 30 giorni, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta per porre un limite alle partite Iva inattive con il provvedimento del 3 dicembre 2019. Innanzitutto definendo come partita Iva inattiva la posizione che, sulla base degli elementi e dei dati in possesso dell’Agenzia, risulti non aver esercitato, nelle 3 annualità precedenti, attività di impresa oppure attività professionali o artistiche. In tal caso, l’Agenzia delle Entrate procede d’ufficio alla chiusura della partita Iva dandone comunicazione al titolare tramite lettera raccomandata con avviso di ricevimento (A/R).

Partita Iva inattiva se per 3 anni non viene presentata dichiarazione Iva o dei redditi

Più nel dettaglio, sono definiti nel provvedimento dell’Agenzia delle Entrate i criteri e le modalità di chiusura delle partite Iva. Le posizioni individuate per la chiusura perché nelle tre annualità precedenti non hanno esercitato attività di impresa, professionale o artistiche rientrano nella casistica, verificatasi nel periodo indicato, di non aver presentato la dichiarazione Iva, se dovuta, o la dichiarazione dei redditi da lavoro autonomo o di impresa. La chiusura avviene in modalità centralizzata e, per i soggetti diversi dalle persone fisiche – qualora all’Anagrafe tributaria non risultino evidenze che facciano emergere l’operatività del soggetto titolare di partita Iva – si procedere all’estinzione contestuale anche del codice fiscale.

Ricorso titolare partita Iva contro chiusura partita Iva d’ufficio

Tuttavia, nel caso in cui il titolare ritenga che la procedura d’ufficio di chiusura della partita Iva non sia corretta, può presentare le proprie ragioni rivolgendosi a un qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle Entrate e fornendo prova della propria qualificazione di soggetto passivo ai fini Iva. Più dettagliatamente, il termine per far valere elementi non considerati o erratamente valutati dall’Agenzia delle Entrate nella chiusura della partita Iva possono essere fatti presenti entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione di chiusura. Allo stesso modo, il soggetto diverso da persona fisica che contesti la chiusura anche del codice fiscale, può rivolgersi agli uffici dell’Agenzia delle Entrate per richiederne la riattivazione presentando motivazione.

Decisione Agenzia delle Entrate su ricorso del titolare partita Iva

I soggetti che presentino ricorso motivato per la chiusura della partita Iva sono soggetti alla decisione dell’Agenzia delle Entrate la quale, dopo verifica della documentazione e delle argomentazioni prodotte dal titolare, può decidere di archiviare la comunicazione di chiusura lasciando il soggetto in stato di attività. Al contrario, l’Agenzia può decidere di rigettare l’istanza motivandone la decisione.

Fondo pensione: quando conviene anche per le spese sanitarie e acquisto prima casa

Aderire a un fondo pensione non è una scelta solo previdenziale. L’obiettivo principale di integrare la pensione futura che si riceverà una volta che si uscirà dal mondo del lavoro e, dunque, di mantenere un buon tenore di vita, può essere solo uno dei motivi che possono spingere i lavoratori ad aderire alla previdenza complementare. Infatti, è possibile individuare anche prestazioni non pensionistiche che integrano la prestazione finale, riconducibili a vantaggi di tipo sanitario o di acquisto della prima casa dell’iscritto o dei figli.

Fondo pensione, quanto conviene aderire alla previdenza complementare come scelta di pensione integrativa?

Uno dei motivi più ricorrenti nella scelta di un fondo pensione è quello della fiscalità vantaggiosa all’atto della pensione. Infatti, nel momento in cui matura l’accesso alla pensione, la prestazione subirà una tassazione dettata da un’aliquota più bassa rispetto ad altre formule di accumulo, come il Trattamento di fine rapporto. Nel caso del fondo pensione l’aliquota va da un massimo del 15% a un minimo del 9%: il tasso decresce di 0,3 punti percentuali per ogni anno susseguente al quindicesimo di iscrizione al fondo, con una riduzione massima di sei punti percentuali. 

Perché il fondo pensione conviene più del Trattamento di fine rapporto?

Si tratta, dunque, di un meccanismo inverso a quello del Trattamento di fine rapporto: mentre nel fondo pensione il maggior numero di anni di iscrizione determina la riduzione progressiva della fiscalità, nel caso del Tfr mantenuto in azienda l’aliquota applicata è quella corrispondente all’Irpef. E dunque, nei casi di fine carriera, di licenziamento o di dimissioni, il Tfr verrà tassato di un’aliquota maggiore che sarà anche più elevata perché negli ultimi anni della carriera lavorativa si percepiscono anche i redditi più alti. Mediamente, con il Tfr in azienda l’aliquota media applicata per gli ultimi cinque anni di attività lavorativa varia tra il 23 e il 43%.

Fondi pensione: tra le prestazioni non pensionistiche le spese sanitarie

Tra le prestazioni non pensionistiche le spese sanitarie rappresentano la soluzione a copertura di situazioni nei quali possono trovarsi sia l’iscritto che il coniuge o i figli e che necessitino di interventi sanitari o di terapie. È possibile richiedere un’anticipazione – in qualunque momento e quindi senza un numero minimo di anni di permanenza al fondo – per un importo che non può superare il 75% della posizione previdenziale maturata fino al momento della necessità sanitaria. L’importo può comprendere anche il Trattamento di fine rapporto versato al fondo. L’importo erogato sarà al netto della ritenuta a titolo definitivo del 15%, aliquota ridotta dello 0,30% per ogni anno di iscrizione al fondo a partire dal quindicesimo. La riduzione della percentuale può avvenire fino al limite del 9% per un massimo di sei punti percentuali. 

Anticipazione fondi pensione per acquisto prima casa o ristrutturazione

Un’anticipazione di quanto maturato nel fondo pensione può essere richiesto anche per l’acquisto della prima casa dell’iscritto o anche dei figli. L’importo anticipato, come per le spese sanitarie, può arrivare al 75% della posizione previdenziale maturata fino al momento della domanda. L’anticipazione può essere richiesta anche per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, per restauri o risanamenti conservativi, per ristrutturazioni edilizie. La domanda necessita l’iscrizione da almeno otto anni al fondo pensione e, sull’importo riconosciuto, viene applicata la ritenuta a titolo di imposta pari al 23%.

Come rientrare delle somme versate alla previdenza complementare e reintegro

L’anticipazione fino al 30% può essere richiesta anche per ulteriori necessità degli iscritti al fondo pensione purché siano trascorsi, come per il caso dell’acquisto della prima casa, almeno otto anni di permanenza al fondo stesso. La tassazione, anche in questo caso, è del 23% ed è applicata a titolo di imposta. L’iscritto, inoltre, ha la possibilità di reintegrare il fondo pensione delle anticipazioni godute in qualsiasi momento: i contributi annuali possono eccedere il plafond di 5.164,57 euro e le somme a reintegro sono esenti da imposta. 

Riscatto laurea: convenienza a confronto con fondo pensione

Quanto è conveniente il riscatto della laurea in vista della futura pensione e quale scelta può essere più indicata rispetto al fondo pensione per il contribuente? Per rispondere a questa domanda, soprattutto in vista di un assegno di pensione più alto o di una via più breve per arrivare alla pensione, è necessario fare una prima generale considerazione.

Ovvero, di fronte alla scelta personale di riscattare gli anni universitari, a meno che non si è certi che il riscatto presso l’Inps possa portare ad anticipare la prima data utile per il pensionamento, l’opzione del fondo pensione appare, in genere, quella più conveniente.  Vediamo perché.

Riscatto della laurea ai fini della pensione, come si può richiederlo

Rispetto al fondo pensione, il riscatto della laurea si incrementa secondo l’andamento del Prodotto interno Lordo (Pil) e i contributi sono interamente deducibili dal reddito imponibile ai fini fiscali. La prestazione che comporta il riscatto della laurea, tuttavia, è differita al momento in cui il richiedente maturerà i requisiti richiesti per andare in pensione di vecchiaia o per quella anticipata.

Per questo motivo, stabilire con un certo numero di anni di anticipo quello che sarà il beneficio una volta che si andrà in pensione risulta non sempre agevole. La determinazione di quanto verranno rivalutati i contributi versati per il calcolo della futura pensione dipenderà, infatti, da molteplici fattori. Tra questi, il coefficiente di trasformazione (al quale concorre il Prodotto interno lordo), il costo della vita e l’aspettativa di vita. In definitiva, la sopravvivenza media della popolazione.

Riscatto della laurea, quanto costa? 

Pertanto, oltre al costo previsto per il riscatto della laurea, occorrerà tener presente la rivalutazione dei contributi che diventeranno pensione e della tassazione applicata. Nel sistema contributivo, nel quale il riscatto della laurea può avvenire in maniera agevolata secondo quanto prevede il decreto numero 4 del 2019 con il pagamento di poco più di 5.000 euro per ogni anno da riscattare, occorre tener presente della tassazione finale. Ad oggi, la tassazione prevista secondo le regole dei redditi da lavoro e assimilati è pari al 23%, a esclusione della tassazione regionale e comunale.

I fondi pensione, quali regole e convenienza 

I fondi pensione presentano un primo vantaggio della deducibilità dei contributi nei limiti di 5.165 euro all’anno sul reddito imponibile. È tuttavia possibile che i contribuenti che non raggiungano questo limite possano pianificare i versamenti in modo da arrivare alla completa deducibilità fiscale. Diversamente dal riscatto della laurea, la rivalutazione dei contributi versati dipenderà dal rendimento annuo che si genera sui mercati finanziari dagli investimenti effettuati dai fondi pensione. Mediamente, il tasso di rivalutazione dei fondi pensione è superiore a quello del Prodotto interno lordo.

Fondi pensioni, i vantaggi della Rita

Inoltre, anche se la prestazione dei fondi pensione viene erogata alla maturazione della pensione di vecchiaia o anticipata, nella sostanza la norma permette al contribuente una serie di possibilità per rientrare velocemente nella disponibilità, anche in parte, delle somme versate. È il caso della Rendita integrativa anticipata temporanea (Rita), strumento che negli ultimi anni ha permesso ai contribuenti di poter ricevere anticipatamente la rendita prevista a scadenza sotto forma di pensione. La conversione dei contributi versati avviene mediante con un coefficiente stabilito dalla compagnia erogatrice della prestazione.

Fondo pensione, quale rivalutazione futura? 

La rivalutazione futura del fondo pensione è soggetta al tasso annuo di rendimento ottenuto dalla compagnia di assicurazione. Di solito, il rendimento è più alto rispetto alla rivalutazione media applicata dall’Inps. All’atto del pensionamento, la metà della prestazione può essere richiesta in pagamento sotto forma di capitale. La tassazione del fondo pensione dipende dal periodo di iscrizione prevedendo un’aliquota massima del 15%, con un minimo del 9% dopo 35 anni di iscrizione.

Esempio di convenienza del fondo pensione rispetto al riscatto della laurea

La maggiore convenienza del fondo pensione rispetto al riscatto della laurea può essere dimostrata ricorrendo a un esempio concreto. Consideriamo un lavoratore nato nel 1981, iscritto per la prima volta all’Inps nel 2008 e dunque ricadente interamente nel meccanismo previdenziale contributivo, che decida di riscattare i quattro anni di laurea ottenuta con iscrizione universitaria tra il 2000 e il 2003. Sulla base della nuova normativa previdenziale, la prima data utile per la pensione del lavoratore ricadrebbe al compimento dei 64 anni di età con la pensione anticipata del sistema contributivo. Sono necessari altresì 20 anni di contributi e una pensione futura che sia di importo di almeno 2,8 volte la pensione minima.

Quanto rendono i fondi pensione?

Con il riscatto della laurea, applicando l’agevolazione prevista dal decreto 4 del 2019 e dunque con un pagamento di poco più di 5.000 euro per ogni anno universitario da riscattare, e un pensionamento con aliquota marginale del 27%, il futuro pensionato riceverebbe un incremento netto sull’assegno di pensione pari a 949 euro. Il rendimento è ottenuto mediante un tasso annuo dell’operazione pari all’1,4%. Nel caso in cui ci si trovasse di fronte a scegliere tra il riscatto della laurea e il fondo pensione, quest’ultimo potrebbe risultare più vantaggioso per rendimento. Infatti, nell’ipotesi del lavoratore, l’incremento della prestazione al netto sarebbe di 1.111 euro, con una rivalutazione che, all’atto della pensione, risulterà più elevata rispetto a quella ottenibile dall’Inps.