L’agricoltura traina le nuove partite Iva

Le partite Iva? Non attirano più come un tempo, almeno così sembra. Secondo l’Osservatorio sulle partite Iva del ministero dell’Economia, a novembre 2016 sono state aperte 34.732 nuove partite Iva, -10,6% rispetto allo stesso mese del 2015.

Il 65,6% di nuove partite Iva è stato aperto da persone fisiche, il 27,8% da società di capitali, il 5,7% da società di persone. Calano sensibilmente rispetto al mese di novembre 2016 il numero di nuove aperture da parte di persone fisiche (-15,4%), meno quelle delle società di persone ( -3,5%). Crescono invece quelle delle società di capitali: +1,6%.

Ancora una volta la parte del leone la fa il Nord, con il 40,9% delle aperture, seguito dal Sud e Isole (36,3%) e dal Centro (22,6%). Performance di tutto rispetto per due regioni del Sud, con la Calabria a +15,7% anno su anno e la Sardegna a +11,9%. Un boom sul quale, probabilmente, ha influito l’impennata delle nuove partite Iva in agricoltura a seguito dell’emanazione dei bandi regionali per il nuovo Programma di sviluppo rurale (Psr) 2014-2020, promosso della Commissione Europea. Giù le nuove aperture in Emilia Romagna (- 19,0%) e Piemonte (-16,6%).

Poche sorprese sul fronte del settore produttivo: crescono di più le nuove aperture nel commercio (+26,2% del totale), nell’agricoltura (+11,1%) e nelle attività professionali (+ 10,3%). Analogamente, continua la predominanza degli uomini (loro il 62,3% delle nuove aperture) e degli under 35 (il 46,3% del totale). Le nuove partite iva di questi ultimi, però, anno su anno sono calate nettamente, di circa il 20%.

Infine, una notazione sui regimi fiscali scelti. Si nota infatti un netto calo di quanti hanno scelto il regime forfettario: sono il 27% delle nuove partite Iva, -24,4% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Il made in Italy culturale va forte all’estero

Libri, prodotti delle attività cinematografiche, fotografia, intrattenimento, strumenti musicali, articoli sportivi: l’export di cultura e tempo libero made in Italy nel mondo vale circa 3 miliardi di euro all’anno.

Ma dove va e da dove parte questo speciale export made in Italy? Quali sono i maggiori mercati di sbocco e i prodotti più apprezzati? Lo racconta la mappa: “Cultura e tempo libero: i prodotti italiani nel mondo”, realizzata dalla Camera di commercio di Milano in collaborazione con Promos, la sua azienda speciale per le Attività Internazionali e scaricabile cliccando qui.

Francia, Stati Uniti, Germania, Svizzera e Regno Unito concentrano oltre il 60% dell’export culturale del made in Italy. In crescita in particolare Stati Uniti con 391 milioni di euro circa, +31,8%, Spagna con 126 milioni, +13%, Cina e Hong Kong, rispettivamente +20,5% e +38,9%.

Tra le prime 15 destinazioni anche Giappone, +3,6% e Polonia +9,2%. Oltre alla Francia, prima per prodotti editoriali, software, fotografia e articoli sportivi, si distinguono: Stati Uniti per prodotti delle attività creative e di intrattenimento, delle biblioteche, degli archivi e per strumenti musicali, Cina per attività cinematografiche, video e televisive, Regno Unito per editoria musicale, Israele seconda per fotografia.

I prodotti culturali e del tempo libero made in Italy più esportati sono libri, periodici e prodotti editoriali per un miliardo di euro, articoli sportivi per 883 milioni di euro, attività creative per 379 milioni, strumenti musicali per 117 milioni circa. In crescita soprattutto i prodotti delle attività cinematografiche, video e televisive (+61,7%), quelli delle attività di biblioteche, archivi, musei e di altre attività culturali (+31,2%) e gli strumenti musicali (+12,6%).

I maggiori esportatori del made in Italy culturale sono Milano con 366 milioni di euro (13,6%), Forlì-Cesena con 250 milioni (9,3%), Treviso con 240 milioni (8,9%). Seguono Bergamo 4°, Roma 5° e Modena 6°.

Alle Pmi niente soldi, alle grandi imprese denaro e sofferenze

Al 30 settembre 2016, ultimo dato disponibile, le sofferenze relative al solo sistema bancario italiano si sono attestate a 186,7 miliardi di euro lordi. Un importo che non ha paragoni in nessun altro Paese Ue, nonostante il nostro tasso di copertura continui ad essere superiore alla media europea.

Il fatto è che, secondo l’Ufficio studi della Cgia, su queste sofferenze lorde l’80% circa dei finanziamenti per cassa era stato erogato dalle nostre banche al primo 10% degli affidati. Soggetti di segmento alto che non appartengono alle categorie dei piccoli commercianti, degli artigiani o dei lavoratori autonomi. Per contro, la quota di sofferenze causate dal primo 10% degli affidati è stata pari a poco più dell’81%.

Una situazione che ha provocato una forte contrazione dei prestiti all’economia reale del nostro Paese. Non essendo in grado di recuperare una buona parte dei prestiti erogati, le banche hanno quindi deciso di non rischiare più e hanno chiuso i rubinetti del credito. Nel solo periodo novembre 2015 – novembre 2016, gli impieghi alle imprese italiane sono calati di 21,3 miliardi di euro.

Secondo Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, “nel rapporto tra banche e imprese, quelle di grandi dimensioni hanno sempre fatto la parte del leone, mentre le piccole e le micro, ancorché più affidabili rispetto alle altre, continuano ad avere un potere negoziale con gli istituti di credito pressoché nullo. Se da anni la migliore clientela – costituita quasi esclusivamente da grandi imprese, grandi famiglie e gruppi societari – riceve dalle banche italiane ben l’80% dei finanziamenti erogati per cassa nonostante sia poco solvibile, visto che l’81% dei crediti deteriorati presenti in Italia è in capo a quest’ultima tipologia di clientela, vuol dire che nel suo complesso il sistema presenta delle distorsioni molto preoccupanti che vanno assolutamente eliminate”.

Un’anomalia tutta italiana – conclude Zabeo parlando di sofferenze – che si è alimentata in questi ultimi decenni attraverso il massiccio ricorso al credito relazionale; ovvero i soldi, nella stragrande maggioranza dei casi, venivano prestati agli amministratori, ai soci e ai conoscenti senza garanzie, con la complicità delle istituzioni predisposte al controllo che, colpevolmente, hanno fatto finta di non vedere”.

Anche analizzando l’ammontare complessivo delle sofferenze bancarie suddivise per classi di grandezza, emerge che dei 186,7 miliardi di crediti deteriorati ben 131,2 sono ascrivibili a prestiti sopra i 500mila euro che, di norma, vengono erogati a grandi gruppi e a grandi aziende. Soggetti, questi ultimi, che secondo l’Ufficio studi della Cgia sono, assieme ai manager delle banche che hanno concesso con molta generosità i prestiti, i principali “responsabili” di questa situazione.

Aziende e trasformazione digitale, ecco i trend del 2017

Nel 2017, la digital transformation continuerà a rappresentare, per le aziende internazionali e gli enti governativi, un obiettivo fondamentale da raggiungere. Facendo però attenzione ad alcuni aspetti, come sottolinea il colosso dell’IT Verizon, secondo il quale i clienti guarderanno le proprie attività di business da una prospettiva che considera elementi chiave agilità, velocità dei servizi e capacità di offrire una soddisfacente esperienza d’uso all’utente finale.

Sono soprattutto le aziende a dover pianificare la loro spesa IT in maniera efficace, individuando il modo migliore per integrare le nuove tecnologie. Secondo Verizon, emergeranno solo le aziende capaci di affrontare al meglio le sfide che la strada verso la digital transformation pone.

Per aiutare le aziende in questo processo, Verizon Enterprise Solutions ha individuato i 7 trend che guideranno la digital transformation nel mondo IT enterprise durante quest’anno:

  • Il Software Defined Networking (SDN) sta prendendo piede. Le aziende riconoscono sempre di più di offrire ciò di cui la gente ha bisogno, rapidamente e nelle modalità richieste.
  • User experience come priorità per un approccio vincente: quello che conta di più per l’utente finale sono i vantaggi offerti dalla tecnologia, e non i singoli passaggi lungo tutta la catena tecnologica.
  • Essere “compliant”: la compliance non è più considerata una best practice ma un adempimento di legge.
  • La sicurezza resta una sfida fondamentale, ma l’attenzione non sarà più rivolta solo alla difesa del proprio perimetro o di una determinata applicazione, quanto alla protezione degli asset fondamentali, contro violazioni provenienti dall’esterno e anche dall’interno delle organizzazioni.
  • Ridurre il tempo necessario per passare dalla progettazione alla produzione. Non è importante chi fa cosa, ma individuare le barriere che rallentano l’azienda nel rispondere al meglio ai cambiamenti e guidare l’innovazione.
  • IoT, da “Internet of Things” diventa acronimo di “Internet of Transformation”: il focus dell’IoT non sarà più sulle “cose” quanto sul potenziale di questo approccio per il processo di trasformazione.
  • Un approccio tempestivo e realistico comporterà il successo o l’insuccesso delle aziende: la spesa IT sarà definita in base all’importanza di applicazioni, dati e funzione utente in termini di business, nonché dal relativo ordine di priorità.

Sapranno le aziende, specialmente quelle italiane, captare questi trend in modo da sopravvivere nel mercato globale?

Costruzioni: nel 2017 si riparte?

Dopo 10 anni di buio quasi totale per il settore, il 2017 delle costruzioni potrebbe essere un anno di svolta, almeno stando alle previsioni fatte dall’Ance nel suo Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni.

Secondo l’associazione nazionale dei costruttori edili, quest’anno potrebbe esserci un +8% di investimenti nel settore delle costruzioni, contro una previsione fatta a luglio 2016 che parlava invece di un -1,2%.

Un’inversione di tendenza dovuta in larga parte, secondo l’Ance, alla legge di bilancio 2017, che contiene misure relative al rilancio degli investimenti nelle infrastrutture, oltre al rafforzamento degli incentivi fiscali, specialmente quelli legati agli interventi di messa in sicurezza sismica e di efficientamento energetico.

Del resto, per le opere pubbliche è stato stanziato per i 2017 il 23,4% in più rispetto all’anno precedente. Inoltre, secondo l’Ance, la corretta attuazione delle misure previste nella legge di bilancio consentirebbe di ottenere 1,7 miliardi di investimenti in più nel settore delle costruzioni nel 2017, con un +1,9% per le opere pubbliche, +1,4% nel recupero abitativo e +0,3% nel comparto non residenziale.

L’Ance ritiene che nell’anno in corso possa continuare la crescita del mercato della casa, che ha portato nei primi nove mesi del 2016 un +20,4% delle compravendite rispetto all’anno precedente. La stima per il totale delle compravendite nel 2016 sarà di 520mila unità, secondo l’Ance, 20mila in più rispetto a quanto previsto nel 2015. Per il 2017 sono previste 550mila transazioni.

In generale, il 2016 non è stato gran che per gli investimenti in costruzioni: +0,3% contro l’1% previsto un anno fa, soprattutto a causa di misure contenute nella legge di stabilità 2016 che non hanno prodotto i risultati attesi. Del resto, nei primi nove mesi del 2016 quello delle costruzioni è risultato l’unico comparto con segno negativo (-4,9%) e con una perdita, dal 2008, di 600mila posti di lavoro.

Una difficile ripresa, quella del settore delle costruzioni, minata dall’ancora difficile accesso al credito. Nei primi 9 mesi del 2016 i flussi di finanziamento delle banche hanno fatto segnare un -4,3% nel comparto abitativo e un -14,1% nel comparto non residenziale.

Per fortuna, gli investimenti hanno continuato a crescere nel campo della riqualificazione del patrimonio abitativo, con un +1,7% nel 2016, soprattutto grazie anche ai bonus fiscali, che hanno spinto gli investimenti in riqualificazione degli immobili al 37% del totale degli investimenti nel settore delle costruzioni.

Manager e Industria 4.0

Si fa presto a dire Industria 4.0… Peccato però che non ci siano le figure tecniche e manageriali in grado di implementare e guidare, almeno in Italia, l’ Industria 4.0. Una carenza sottolineata da Aldai-Federmanager, secondo la quale nel nostro Paese mancano ancora dei veri manager 4.0.

Una contraddizione, vista l’attenzione che il precedente premier aveva verso il tema dell’ Industria 4.0. Secondo Aldai-Federmanager, infatti, è importante assicurare ai manager gli strumenti utili a mantenere le loro competenze di base, come la concretezza esecutiva, il pensiero prospettico e la capacità di risolvere i problemi.

Lo conferma Bruno Villani, vicepresidente Aldai-Federmanager: “Per gestire la rivoluzione del digitale, c’è bisogno di una vera grande cabina di regia che sappia mettere insieme tutti gli attori e al cui tavolo siano presenti anche i manager”.

Peccato però che questo auspicio si scontri con una realtà che è del tutto diversa: “Nella cabina di regia del Piano nazionale Industria 4.0 – ricorda infatti Villanii manager che sono i veri portatori e attuatori del cambiamento non ci sono. L’obiettivo è mettere in sinergia le persone e le risorse disponibili, fare sistema, mettendo a disposizione del Paese tutte le diverse competenze disponibili partendo anche da ‘un’analisi’ 4.0 che individui, anche a livello internazionale, le best practice da diffondere”.

Si tratta di mosse da fare al più presto, poiché il manifatturiero italiano, in Europa, è secondo solo a quello della Germania, il Paese che ha “inventato” l’industria 4.0. Ricorda infatti Villani che “nell’Unione europea l’Italia continua a mantenere la seconda posizione per peso nel manifatturiero, con in testa la Germania: i dirigenti d’industria sono disponibili e si propongono per interagire con le istituzioni e con tutti gli attori interessati in ottica propositiva per promuovere e attuare processi di modernizzazione e di sviluppo del Paese”.

Un treno da non perdere, se è vero come è vero che l’ultimo World Economic Forum ha evidenziato come il cambiamento portato dall’ Industria 4.0 porterà il 65% dei bambini che oggi frequentano le scuole elementari a fare lavori che attualmente non esistono. E i manager hanno un ruolo fondamentale nella guida di questo treno.

Un 2017 in ripresa per le transazioni immobiliari

La ripresa è un miraggio ancora per molti settori economici ma, a quanto pare, non per quello immobiliare. Lo conferma un’analisi di Tecnocasa, secondo la quale il mercato immobiliare nel 2016 ha vissuto un anno positivo soprattutto per l’aumento delle compravendite.

I dati, resi pubblici dall’Agenzia delle Entrate, evidenziano che nei primi nove mesi del 2016 c’è stato un incremento medio delle transazioni immobiliari del 20,4%. Un trend trainato soprattutto dalla diminuzione dei prezzi e dai mutui più accessibili: dal 2007, le abitazioni hanno ceduto il 39,7% del loro valore.

La domanda dinamica e l’offerta che inizia a diminuire, soprattutto sugli immobili di qualità, potrà determinare un’ulteriore contrazione delle tempistiche di vendita e un minor margine di trattativa soprattutto su queste tipologie immobiliari.

Se l’immobile è da ristrutturare o presenta degli elementi negativi si compravenderà solo dopo ulteriori ribassi di prezzo. Sia il segmento della prima casa sia quello ad uso investimento e casa vacanza saranno vivaci.

Le compravendite per il 2017 sono attese ancora in aumento (tra +6% e +8% a livello nazionale) e questo trend interesserà tutte le realtà territoriali. Sul versante prezzi ci si aspetta una chiusura dell’anno con un calo tra 2% e 0% e un leggero aumento (tra 0% e 2%) per il 2017 ma solo per le grandi città, mentre per i capoluoghi di provincia e per l’hinterland delle grandi città occorrerà aspettare il 2018.

Sul mercato del nuovo iniziano a ripartire progetti immobiliari finalizzati alla costruzione di immobili di qualità che garantiscano efficienza energetica e, alla luce degli ultimi eventi, che siano costruiti anche con criteri antisismici.

Sul versante delle locazioni ci si aspetta una sostanziale stabilità dei canoni, con leggeri ritocchi al rialzo in particolare nelle grandi città. Non si esclude che chi possiede i requisiti per accedere al mutuo possa abbandonare la locazione per scegliere l’acquisto, con conseguente riduzione della domanda.

L’andamento dell’economia e dell’occupazione, oltre al comportamento degli istituti di credito che rimarranno prudenti, contribuiranno a confermare o meno questo scenario di mercato. Scenario che vede nella consapevolezza “del reale valore dell’immobile” da parte degli acquirenti, dei venditori ma soprattutto da parte dei professionisti del settore real estate, un elemento importante per il corretto funzionamento del mercato.

Inglese in azienda, questo sconosciuto…

Se il linguaggio della tecnologia, e di riflesso la lingua italiana, si nutre sempre più di parole in inglese, lo stesso accade per i nuovi linguaggi aziendali con la cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale. A partire già dal suo nome: Industry 4.0.

Uno scenario nel quale, per poter essere efficienti e produttivi, tutti gli attori devono parlare la medesima lingua, appunto la lingua inglese. Ma questi attori sono pronti a farlo?

Per capirlo, è bene dare un’occhiata ai dati dell’EF EPI-c, l’unico indice, a livello mondiale, relativo alla competenza linguistica delle aziende. I dati sono stati presentati da EF Corporate Solutions, realtà internazionale nel settore della formazione linguistica aziendale, e hanno sancito il fatto che i dipendenti del settore manifatturiero, nel mondo, hanno una debole conoscenza della lingua inglese, che arriva a malapena al livello B1, con un punteggio medio di 51,41/100.

L’analisi intraziendale di questo settore mostra un’ampia differenza in termini di competenze linguistiche nelle varie posizioni lavorative. Nello specifico, Il punteggio medio per i lavoratori che ricoprono funzioni di logistica e stoccaggio è 38 (livello A2, una conoscenza scolastica dell’ inglese), mentre chi si occupa di ricerca scientifica totalizza il punteggio più alto del settore (56, livello intermedio B1).

In produzione, contabilità ed amministrazione la conoscenza della lingua inglese è elementare, mentre il personale dei reparti marketing e PR, HR, IT e la Direzione registrano livelli di competenza più elevati, in quanto più esposti al clima di internazionalizzazione propria del settore produttivo.

L’English Margin Report di EF, associato a questa ricerca, mostra come l’88% dei clienti sia disposto a pagare un extra a quelle aziende con una padronanza dell’ inglese migliore, mentre l’81% prenderebbe in considerazione la possibilità di scartare partner con una scarsa padronanza dell’ inglese.

Nel caso dell’Italia, il basso livello di competenza linguistica si riflette anche sulla percezione delle nostre imprese all’estero: per puntare all’internazionalità è infatti necessario investire prima nella formazione linguistica dei lavoratori.

Le nuove imprese del 2017

Siamo appena all’inizio del 2017, ma la voglia di creare imprese è già ben visibile in Italia. Lo conferma un’elaborazione della Camera di commercio di Milano sui dati del registro delle imprese, dalla quale emerge che sono 4.195 le imprese nate dal 1° al 5 gennaio in Italia. Ma chi sono questi nuovi imprenditori?

C’è l’imprenditrice milanese che fa design di moda e industriale, la società milanese che studia, progetta e monta parchi eolici, l’imprenditore cinese che confeziona biancheria da letto e da tavola o l‘ecuadoriano che ha aperto un ristorante-polleria.

C’è l’impresa di Roma che monta palchi, stand e strutture per manifestazioni, quella che fa scommesse sportive, l’affittacamere, il tagliaboschi.

C’è poi la fabbricazione di oggetti preziosi a Valenza e di meccaniche per fisarmoniche ad Ancona, la ventenne aretina che esegue ricami e l‘imprenditrice piemontese che si dedica all’allevamento d’api, quella di Belluno che produce gagliardetti e quella che a Bolzano alleva lama, il marmista per cimiteri o il senegalese che ha aperto a Brescia un’attività di tatuaggi, l’imprenditore che offre sedute di ginnastica individuale e il maestro di sci di Cuneo.

In sostanza, ogni giorno nel Paese ci sono state 839 iscrizioni al registro imprese, circa 50 a Roma a Milano.

Le nuove imprese guidate da una titolare donna sono circa il 35%, più di una su tre, a Milano 39, in Lombardia 140, in Italia 890. Gli stranieri sono il 19% in Italia, ma salgono al 26% in Lombardia e al 32% a Milano (rispettivamente 481, 108 e 35 imprenditori). I giovani sono uno su cinque (20 titolari a Milano, 83 in Lombardia e 562 in Italia).

In Italia prima è Roma con 249 imprese neoiscritte (5,9% sul totale italiano), seguita da Milano (240, 5,7%), Napoli (175, 4,2%), Torino (140, 3,3%). Poi ci sono Brescia, Cuneo e Bergamo con oltre 100 nuove imprese.

Tra i maggiori centri economici, a Bari sono nate 96 imprese, a Caserta 93, a Padova 87, a Bolzano 85, a Verona 74, a Firenze 72, ad Ancona 66, a Bologna 60, a Venezia 55, a Genova 29, a Palermo 16.