Occupazione, gli ultimi fuochi della defiscalizzazione

La defiscalizzazione contributiva per i nuovi assunti introdotta dal Jobs Act sta facendo esplodere gli ultimi botti – visto che gli incentivi vanno esaurendosi- e sostiene l’ occupazione anche nel mese di febbraio, almeno nelle piccole e medie imprese, dove è cresciuta sia su base mensile sia su base annuale.

Secondo i dati dell’Osservatorio Mercato del Lavoro CNA, rilevati su un campione di 20.500 micro e piccole imprese per un totale di 125mila addetti, a febbraio l’ occupazione è cresciuta dello 0,4% rispetto a gennaio (l’aumento mensile più robusto degli ultimi quindici mesi) e del 2,5% anno su anno. Tutto questo come effetto combinato del calo delle cessazioni (-5,9%) e di quello delle assunzioni (-4,4%).

Il rovescio della medaglia di questo andamento dell’ occupazione è dato dal fatto che il calo avviato da gennaio della decontribuzione sulle assunzioni a tempo indeterminato – dall’esonero al 100% su un tetto massimo di 8.060 euro all’esonero al 40% su un tetto massimo di 3.250 euro – ha avuto come conseguenza un netto calo dei contratti a tempo indeterminato, scesi del 36%, a favore di altre due forme di occupazione: contratti a tempo determinato (+15,3%) e contratti di apprendistato +29,3%, entrambi su base mensile.

Alle rilevazioni della CNA sull’ occupazione si affiancano le previsioni del Sistema informativo Excelsior – Unioncamere e quelle del ministero del Lavoro, secondo le quali nel primo trimestre 2016 le imprese italiane stipuleranno 227mila nuovi contratti sia direttamente, sia con contratti in somministrazione, incarichi professionali, collaborazioni occasionali, collaborazioni a progetto. Secondo Unioncamere è un dato ancora buono, se comparato ai 191mila contratti attivati nell’ultimo trimestre 2015.

Passando invece agli scenari di occupazione del secondo trimestre 2016, i risultati del Manpower Employment Outlook Survey, indagine trimestrale del gruppo Manpower su 1000 datori di lavoro, solo il 6% di loro si è detto intenzionato ad assumere nuovo personale, contro un 4% che pensa di diminuire le assunzioni e il restante 87% che presume di restare stabile.

Ancora troppo poco…

Secondo l’Istat, torna a salire il potere d’acquisto delle famiglie: +0,8% nel 2015, tenuto conto dell’inflazione. Per il Codacons, “è ancora insufficiente a colmare l’enorme gap con il passato: dal 2007 al 2014, infatti, il potere d’acquisto degli italiani è calato del -12%”

Alemanno (Confassociazioni): “Tessera professionale e cessione crediti rafforzano le professioni”

La recente partecipazione del Vice Presidente Vicario di Confassociazioni, Riccardo Alemanno, al Forum della European Professional Card è stato un momento per fare il punto sull’importante strumento della tessera professionale e sul ruolo di Confassociazioni e a livello nazionale e internazionale.

La partecipazione al Forum della European Professional Card – ha infatti ricordato Alemanno, che è anche Presidente dell’Istituto Nazionale Tributaristiha avuto come principale motivazione quella di evidenziare alla Commissione Europea l’importante presenza in Italia delle professioni di cui alla L. 4/2013. La conseguenza evidente dovrebbe essere l’inserimento delle professioni associative nel sistema della tessera professionale europea. I prossimi passi saranno quelli del confronto con il ministero delle Politiche Europee. Il percorso non sarà rapido e agevole, ma si deve iniziare al più presto, poiché la Commissione Ue si è data un anno di tempo per sperimentare il nuovo sistema informatico di riconoscimento dei titoli professionali“.

A margine del forum – ha continuato il Vice Presidente Vicario di Confassociazioniho avuto modo di confrontarmi con il Presidente dell’Albo dei Consulenti del Lavoro, nonché Presidente del Comitato Unitario delle Professioni, Marina Calderone, con la quale si è soprattutto dibattuto di problematiche previdenziali. Ma non basta. Pochi giorni prima, su invito dell’on. Azzurra Cancelleri della Commissione Attività Produttive, ho avuto modo di incontrare presso i gruppi parlamentari in Roma, una delegazione del Movimento 5 Stelle. Nell’incontro si sono affrontate varie tematiche relative al lavoro autonomo professionale, in particolare l’iniziativa con la quale i parlamentari vogliono dare la possibilità, anche ai professionisti, di accedere all’istituto della cessione pro-soluto dei propri crediti, possibilità che oggi hanno solo le imprese. Ci siamo dichiarati ovviamente favorevoli e abbiamo evidenziato alcuni aspetti di carattere fiscale che andrebbero chiariti per rendere operativa al meglio la futura modifica normativa”.

Il 4 marzo scorso, infatti, gli onorevoli Dino Alberti e Azzurra Cancelleri hanno depositato una risoluzione in Commissione Finanze alla Camera che impegna il Governo ad estendere al lavoro autonomo professionale la possibilità di cedere pro-soluto i propri crediti a banche e intermediari finanziari. Una risoluzione molto apprezzata da Confassociazioni

La crisi e il credit crunch hanno messo in ginocchio i professionisti, che devono anche vedersela con i ritardi nei pagamenti da parte dei committenti, sia privati che pubblici. Il reddito medio dei professionisti è crollato di oltre il 18% dal 2007. Solo 3 professionisti su 10 vengono pagati puntualmente, il 19,5% con un ritardo che va dai 3 ai 6 mesi e il 16,8% è costretto ad aspettare più di 6 mesi. In particolare, se il committente è pubblico, per il 20,7% il ritardo è di oltre 6 mesi, mentre il 6,8% dichiara addirittura di non essere mai stato pagato.

Con questa risoluzione – ha concluso Alemannosi evidenzia un rinnovato interesse verso il mondo del lavoro autonomo professionale. Dopo la Legge di stabilità, la presentazione da parte del Governo del Ddl sul lavoro autonomo come pure l’attenzione da parte di un gruppo parlamentare ne sono la conferma. Saremo sempre pronti a collaborare con chi vuole dare soluzione ai tanti problemi del settore. Confassociazioni e tutte le Associazioni che vi aderiscono, hanno sempre sostenuto il confronto costruttivo con le istituzioni al fine di dare supporto e voce al settore del lavoro autonomo professionale”.

In Italia 500mila pensioni erogate da quasi 40 anni

Uno dei temi sui quali, in Italia, siamo maggiormente sensibili, è quello delle pensioni. Additate da molti – a torto – come la principale causa del dissesto dei conti pubblici, ogni tanto fanno parlare di sé per dati e numeri interessanti.

Come quelli che emergono dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia, che comprendono le anzianità, e ai superstiti del settore privato, secondo i quali nel nostro Paese sono quasi 500mila (474mila) le persone che percepiscono pensioni da prima del 1980. Da questo computo sono però escluse le pensioni sociali, quelle degli ex dipendenti pubblici, gli assegni di invalidità previdenziale e gli assegni agli invalidi civili.

Dal conteggio sono esclusi anche i baby pensionati del pubblico impiego ritiratisi dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi nel caso di donne sposate con figli.

Con queste ultime esclusioni, il dato salirebbe non di poco. Inoltre, dai dati Inps risulta che per le pensioni di vecchiaia l’età media alla decorrenza, quando erogate, era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti scendeva a 41,3 anni.

Le pensioni erogate ai privati prima del 1986 sono più di 800mila e 527mila quelle di reversibilità. In alcuni casi, la stessa persona è titolare di entrambe le pensioni, qualora fosse già in pensione per vecchiaia oltre che superstite di un pensionato deceduto.

Se invece l’analisi si ferma agli assegni erogati prima del 1980 per ragioni differenti rispetto alla vecchiaia e alla reversibilità, quelli di invalidità sono 439.718 (con un’età alla decorrenza di 44,5 anni), quelli sociali poco meno di 25mila (24.308, con 33 anni l’età media alla decorrenza) e quasi 100mila (96.973) quelli di invalidità civile, con una media di 23,21 anni di età alla decorrenza.

Agevolazioni prima casa e separazione coniugale

La fine di un matrimonio porta con sé rimpianti e problemi non solo a livello personale, ma anche da un punto di vista fiscale. Specialmente per quanto riguarda la prima casa di proprietà. Per fortuna in questo ambito è arrivata una importante sentenza della Cassazione.

I giudici della Suprema Corte hanno stabilito che qualora a seguito di un accordo di separazione coniugale, un coniuge trasferisce all’altro la proprietà di un’abitazione comprata da meno di 5 anni sfruttando l’agevolazione prima casa, l’alienazione non fa decadere l’agevolazione della quale il coniuge alienante ha beneficiato al momento dell’acquisto. La decadenza non si ha nemmeno se il coniuge alienante non compra, entro un anno dalla cessione, una nuova prima casa.

La sentenza, la n. 5156 depositata il 16 marzo 2016, stabilisce l’irragionevolezza della decadenza dall’agevolazione sfruttata al momento dell’acquisto della casa, poiché il trasferimento dello stesso avvenuto in attuazione dei patti di separazione non è vincolato ad alcun corrispettivo e non rappresenta un atto di donazione.

Una sentenza importante che ridisegna un ambito poco considerato della normativa legata alle agevolazioni per l’acquisto della prima casa.

Segnali positivi dai pagamenti alle imprese

Ci sono diversi fattori che possono essere presi in considerazione per capire se l’aria della crisi si è fatta meno pesante. Uno di questi riguarda i pagamenti verso le imprese e i numeri delle società protestate.

Secondo l’Osservatorio Cerved sui Protesti e Pagamenti delle imprese italiane, lo scorso anno si è registrato un numero di società protestate minore rispetto ai livelli pre-crisi del 2007 e i tempi medi di liquidazione delle fatture si sono abbassati ai livelli del 2012.

Secondo l’Osservatorio, nel 2015 sono state protestate in Italia 28mila società non individuali, un numero inferiore a quello del 2007 e minore del 19% rispetto a quello del 2014. Sul fronte dei pagamenti, i tempi di attesa dei fornitori per il saldo delle fatture sono stati di circa 76 giorni, contro gli 81 del 2012. Calo anche per i termini concordati in fattura e i ritardi.

L’Osservatorio ha anche rilevato che i dati dei protesti e dei pagamenti relativi al 2015 sono risultati in miglioramento un po’ in tutta Italia, anche se il Sud continua a scontare tempi ancora troppo dilatati per i pagamenti. Allo stesso modo, settori come la produzione e la distribuzione di beni di largo consumo non hanno beneficiato di un miglioramento sensibile.

Interessante il commento di Gianandrea De Bernardis, Amministratore Delegato di Cerved: “Dopo i cali registrati nel numero di chiusure aziendali e liquidazioni volontarie, le rilevazioni su protesti e tempi dei pagamenti confermano che il 2015 è stato un anno positivo per le imprese italiane. Per il nostro tessuto economico non si è trattato di un percorso indolore: le aziende più fragili sono uscite dal mercato e i fornitori sono diventati più cauti nel concedere credito commerciale. La conseguenza è un sistema che esce dalla crisi con meno imprese ma più virtuose, che pagano i fornitori con maggiore regolarità”.

Fiere italiane tra competitività e minacce

Il settore delle fiere in Italia gode di buona salute, ma ci sono alcuni fattori che ne possono minare la redditività, la competitività se non addirittura l’esistenza stessa. Se n’è parlato nei giorni scorsi a Venezia, durante l’assemblea di inizio anno dei soci di Aefi, l’Associazione Esposizioni e Fiere Italiane.

Quali sono questi fattori di rischio per il comparto fiere? Secondo quanto emerso dai lavori dell’assemblea, sono principalmente tre: la tassazione immobiliare dei padiglioni fieristici, la possibilità di operare secondo regole europee in tema di trasparenza e l’assetto societario delle fiere.

Nella sua relazione, il presidente di Aefi, Ettore Riello, è partito dall’importante traguardo che l’associazione è riuscita a raggiungere con il “riconoscimento del ruolo delle fiere, arrivato a inizio 2015 dal Ministero dello Sviluppo Economico, che ha inserito a pieno titolo le fiere nel Piano di promozione straordinaria per il Made in Italy”, ricordando però che “tale risultato, verrà completamente vanificato se non accompagnato da un altrettanto sensibile politica fiscale sugli immobili, definendo un livello di tassazione sostenibile”. 

“Quello che chiediamo e auspichiamo – ha proseguito Riello è che la tassazione, per quanto riguarda l’applicazione dell’Imu, sia più equa nei confronti dei padiglioni fieristici, trattati come strutture commerciali, e non calcolando i giorni effettivamente utilizzati per le esposizioni con disposizioni univoche su tutto il territorio nazionale. Da tempo il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate sono al lavoro per cercare di trovare una soluzione e modificare la normativa. I continui rinvii iniziano a mettere le fiere in seria difficoltà”.

Sul fronte delle regole europee Riello ha anche sottolineato l’importanza del sistema fieristico italiano, secondo in Europa, che subisce però la forte concorrenza dei tedeschi e dei francesi. In particolare il sistema tedesco è fortemente finanziato dagli enti territoriali, soprattutto dai Lander e dalle Camere di Commercio per quanto riguarda le strutture espositive, e dai ministeri competenti per le attività delle singole manifestazioni.

Sul tema dell’assetto societario, l’assemblea ha preso atto che, nonostante le continue attività dell’Associazione, ancora non è stata definita e riconosciuta la specificità delle partecipazioni delle Camere di Commercio nelle fiere (art. 10, L. 7 agosto 2015, n. 124) che, per la particolarità e la complessità dell’attività che svolgono, sono “essenziali” e “necessarie per lo svolgimento delle funzioni istituzionali“. “Ritengo che i soci pubblici debbano restare nell’assetto societario delle fiere, affinché le manifestazioni fieristiche continuino ad essere competitive e ad accompagnare le imprese italiane nel loro processo di crescita”, ha aggiunto Riello.

Infine, una stoccata da parte di Riello al decreto attuativo della Riforma Madia sulle partecipate pubbliche, che obbliga gli enti fieristici a operare sul mercato secondo una logica di trasparenza gestionale. “E’ inaccettabile. Le fiere operano nel libero mercato e per continuare a essere competitive devono poter operare secondo la specifica normativa applicata in Europa. In caso contrario, saremmo l’unico sistema fieristico al mondo ad avere un assetto diverso, concedendo così un grande vantaggio ai nostri competitor stranieri”.

Canone Rai, gli apparecchi che lo pagano

Ricordate quando, un paio d’anni fa, si sollevò un polverone alla notizia che avrebbero dovuto pagare il canone Rai anche computer, tablet e affini? Apriti cielo! Una valanga di proteste, consumatori imbestialiti e una sollevazione popolare ridussero la Rai a più miti consigli.

Tanto che ora, dopo la trovata del canone Rai in bolletta, per evitare altre gaffe, il ministero dello Sviluppo economico ha precisato quali sono gli apparecchi “atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni” il cui possessore, come precisato dalle Entrate, è assoggettabile al canone Rai, a prescindere dalla quantità di utilizzo che di questi apparecchi fa.

Ebbene, non sono altro che le apparecchiature dotate di sintonizzatore per la ricezione del segnale, sia terrestre sia satellitare, di radiodiffusione dall’antenna radiotelevisiva. Ragion per cui sono soggetti al canone Rai anche gli apparecchi a cui è stato rimosso il sintonizzatore di cui erano originariamente provvisti.

La precisazione del ministero fa sì che si debba pagare il canone anche se si possiedono apparecchi televisivi utilizzati solo per la trasmissione interna di nastri o DVD registrati o come schermo per videogiochi. Per questi utilizzi, infatti, non è esclusa l’adattabilità alla ricezione delle trasmissioni televisive.

Insomma, con la precisazione si cerca di far pagare il canone Rai nel maggior numero possibile di casi. Ci sono però degli apparecchi, né atti né adattabili alla ricezione della radiodiffusione, che sono quindi esenti dal canone. Ecco quali.

  • pc senza sintonizzatore tv;
  • monitor per computer;
  • casse acustiche;
  • videocitofoni.

Il canone Rai va invece pagato per sia per le apparecchiature atte sia per quelle adattabili alla ricezione della radiodiffusione. Le prime sono:

  • ricevitori tv fissi;
  • ricevitori tv portatili;
  • ricevitori tv per mezzi mobili;
  • ricevitori radio fissi;
  • ricevitori radio portatili;
  • ricevitori radio per mezzi mobili;
  • telefono mobile con ricevitore radio/tv (DVB-H);
  • riproduttore multimediale con ricevitore radio/tv (lettore Mp3 con radio integrata).

 

Le seconde sono:

 

  • videoregistratore con sintonizzatore tv;
  • chiavetta USB munita con sintonizzatore radio/tv;
  • scheda per computer con sintonizzatore radio/tv;
  • decoder per il digitale terrestre;
  • ricevitore radio/tv satellitare;
  • riproduttore multimediale con ricevitore radio/tv, senza trasduttori.

Ricordiamo che, bontà sua, la tv di Stato non chiede il pagamento del canone Rai a chi possiede solo la radio.

Nuovi codici nel modello 730 / 2016

Importanti variazioni al modello 730 / 2016. L’Agenzia delle Entrate ha infatti emanato un provvedimento per modificare le istruzioni approvate a gennaio e correggere alcuni errori presenti nel modello 730 / 2016, oltre a recepire alcun quesiti arrivati dai Caf.

Le modifiche più rilevanti riguardano proprio il recepimento dei dubbi dei Caf, in particolare l’aggiunta di due codici, 5 e 6, a pagina 59 delle istruzioni di compilazione del modello 730 / 2016, colonna 1, righi da E61 a E63.

Con i due codici vengono identificate due nuove tipologie di interventi che godono della detrazione del 65% per le opere destinate al risparmio energetico, a partire dall’anno d’imposta 2015: il codice 5 individua l’acquisto e la posa in opera di schermature solari a protezione di superfici vetrate, mentre il codice 6 riguarda le spese per l’acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con generatori di calore alimentati da biomasse combustibili.

Inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha modificato le specifiche tecniche di trasmissione del modello 730 / 2016 attraverso un apposito provvedimento.

Quanto ci costa sospendere Schengen?

Mentre i flussi migratori mettono in crisi l’Unione europea, divisa tra diffidenza e accoglienza, c’è chi sostiene che il ripristino dei controlli alle frontiere con una sospensione almeno temporanea del trattato di Schengen sia una soluzione almeno temporanea per filtrare gli arrivi.

Non è chiaro a tutti, però, che sospendere Schengen ha dei costi che, secondo l’Ufficio Studi della Cgia, potrebbero essere salatissimi. Per i Paesi, per le imprese, per le persone. Nel caso dell’Italia, la Cgia ha ipotizzato che una sospensione di Schengen avrebbe sul nostro Paese una una ricaduta economica negativa fino a 10 miliardi di euro all’anno.

La Cgia ha fatto delle stime ipotizzando uno scenario con controlli di polizia alle frontiere poco invasivi e uno con controlli più stringenti e rigorosi, con questi ultimi che allungherebbero di molto i tempi per l’ingresso nel nostro Paese, oltre che delle persone, anche dei beni e delle merci.

In entrambi gli scenari il settore colpito per primo da una sospensione di Schengen sarebbe l’autotrasporto. Per i Tir si allungherebbero notevolmente i tempi di ingresso/uscita alle frontiere, con un conseguente aumento del prezzo delle merci importate/esportate e delle ricadute macro economiche che interesserebbero l’Italia: riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e calo dei consumi interni, con costi derivanti dall’aumento dei prezzi che oscillerebbero tra i 4,8 e i 9,8 miliardi di euro all’anno a seconda dello scenario.

Poi, ci sarebbero i turisti giornalieri e del week-end, che potrebbero decidere di non trascorrere qualche giorno di vacanza in Italia per il ripristino dei controlli pre – Schengen con conseguente aumento dei tempi di attesa: il danno per la nostra bilancia turistica andrebbe da 233 a 465 milioni di euro l’anno.

Ultimo ma non meno importante, l’impatto economico che il ripristino dei controlli alle frontiere avrebbe sui lavoratori frontalieri che dovrebbero restare in fila per attraversare il confine, stimato dalla Cgia tra i 53 e i 105 milioni di euro.

In totale, quindi, a seconda che si profili uno scenario più o meno invasivo, secondo i calcoli della Cgia l’eventuale sospensione di Schengen potrebbe comportare per l’Italia un costo tra i 5,1 e i 10,3 miliardi di euro, pari a un impatto sul Pil variabile tra lo 0,3% e lo 0,6%.

Ricorda il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Le cronache riportano che dallo scorso gennaio la riattivazione dei controlli voluta dalla Svezia sul famoso ponte Oresund, quello che collega Copenhagen a Malmo, ha allungato i tempi di percorrenza di quasi un’ora, con un costo per i pendolari di circa 150mila euro al giorno. Il blocco a singhiozzo attivato in questi ultimi mesi dal Belgio sui confini francesi, invece, ha allungato le code di 30 minuti. Attese, ovviamente, che penalizzano soprattutto le aziende di autotrasporto che si sobbarcano interamente questi costi aggiuntivi”.