Con Partita Iva o con lavoro occasionale? La guida e il paragone costi benefici

Mettersi in proprio è sempre una scelta alquanto difficile da adottare. Molti gli aspetti da considerare quando si decide di avviare una attività autonoma. La prima scelta è senza dubbio quella relativa alla necessità o meno di aprire una Partita Iva.

Si può lavorare anche senza? Una domanda comune a molti aspiranti lavoratori autonomi. Ed una domanda a cui cerchiamo di dare risposta con questa guida dettagliata parlando anche di lavoro autonomo occasionale, per il quale la Partita Iva può essere anche inutile a volte.

Partita Iva, di cosa si tratta?

Prima di entrare nello specifico, meglio ricordare di cosa si tratta quando si parla di Partita Iva. In senso strettamente meccanico, la Partita Iva è un codice identificativo che viene assegnato ad un professionista, ad un lavoratore autonomo, una azienda o una impresa. Un codice numerico attraverso il quale l’autonomo viene identificato mediante collegamento diretto con il Fisco e con la Previdenza sociale.

Si tratta quindi di uno strumento quindi, attraverso il quale chi apre l’attività può lecitamente operare in Italia e può dichiarare legittimamente gli incassi avuti.

Quando è necessario aprire la Partita Iva

Se parliamo di costi benefici, di differenze tra chi ha la P.Iva e chi non la ha, è evidente che si sottintende che non sempre è obbligatorio aprirla per esercitare una attività piuttosto che una professione.

Non tutti i lavoratori sono in possesso della Partita Iva e non tutti sono obbligati ad aprirla. Quando una determinata attività viene svolta in maniera autonoma, continua ed abituale aprire la Partita Iva è obbligatorio. Non basta quindi il fatto di essere un lavoratore autonomo. Occorre pure che tale attività  risponda ai due fattori di continuità e abitualità. Aprire la Partita Iva non ha limiti di introiti, ricavi e incassi. Chi pensa che sotto i 5.000 euro di ricavi da una determinata attività, si possa fare a meno della Partita Iva, sbaglia.

L’obbligo di aprire una P.Iva dipende sostanzialmente dalla frequenza di una determinata attività. Per esempio, un professionista che svolge la sua attività in maniera saltuaria, non è costretto ad aprirla, perché ne può fare benissimo a meno. Ma occorre che questa attività svolta risulti inferiore a 30 giorni l’anno, per ciascun committente. Solo se si superano questi limiti, essendo l’attività non più occasionale, si entra nel perimetro dell’obbligatorietà e quindi non se ne può fare assolutamente a meno.

Costi e adempimenti con la Partita Iva

Aprire una P.Iva significa iscriversi anche obbligatoriamente al Registro delle Imprese. Un adempimento necessario per artigiani  e commercianti ma non per i professionisti sia iscritti ad un Albo che non iscritti.

Aprire una Partita Iva presuppone pure il versamento dei contributi previdenziali  e quindi l’iscrizione ad una determinata cassa previdenziale.

Occorre poi pagare le tasse e presentare ogni anno la dichiarazione dei redditi. Aprire di per se una Partita Iva non presenta costi. È la gestione a costare, anche se non in maniera fissa. Molto dipende dal Codice ATECO, dai coefficienti di redditività  dal volume di affari e dal regime fiscale scelto tra ordinario o forfettario.

Quando si può utilizzare il lavoro autonomo occasionale

Per lavorare senza il codice identificativo, si può optare per il cosiddetto lavoro occasionale o per la cosiddetta prestazione occasionale. In questo caso non è necessario nemmeno rilasciare fattura in quanto si può operare, nei confronti di ciascun committente, tramite ricevuta. Sulla ricevuta, se superiore a 77,47 euro, occorre applicare la marca da bollo di 2 euro.

Per evitare l’apertura, vanno messi in evidenza i limiti all’utilizzo del lavoro occasionale. L’unico limite previsto è quello dei 5.000 euro come soglia massima dei compensi annui. Con il lavoro occasionale, fino a 4.800 euro annui, non vige l’obbligo di presentare al dichiarazione dei redditi.

Partita Iva e mutuo, quali sono le difficoltà oggi

Partita Iva e mutuo due parole, ma tante le difficoltà che si incontrano se si vuole comprare casa e si è possessori di una partita Iva.

Partita  Iva e mutuo, si può fare!

Molti professionisti hanno sempre avuto difficoltà ad accedere al mutuo per l’acquisto della propria casa. Se dal punto di vista mutuo agevolato per le imprese, il Governo si sta muovendo, dall’altro si muovono i primi passi. Ma a dire il vero a cambiare è tutto il mercato del lavoro a livello mondiale.

Prima della pandemia da Covid-19 lo smart working o lavoro agile interessava davvero molte poche persone. Ma in questi due anni il sistema lavoro, nel suo complesso, è notevolmente cambiato. Ma non solo per questo aspetto. Perché il così detto “posto fisso” comincia a non avere la stessa importanza del passato. Sono molti gli italiani che lasciano il proprio lavoro per aprirsi la propria attività e partita Iva, e anche il mercato finanziario deve stare al passo con i tempi.

Partita Iva e mutuo, il vento sta cambiando

La buona notizia è che sembra che le banche vogliano adeguarsi a questa nuova situazione, cominciando a concedere mutui per l’acquisto della casa, anche ai possessori di partita IVA. Certo, non illudiamoci che oggi si apre bottega e domani si compra casa, ma del resto questo non è valido neanche per un dipendente neo assunto.

Infatti il lavoratore autonomo dovrà dimostrare, oltre al fatturato, anche le ultime due dichiarazioni dei redditi attraverso il modello unico e gli estratti conti. Ma ci sono degli istituti che possono intervenire con una garanzia aggiuntiva che ammonta al 50% del’importo del finanziamento concesso. Basta fare una rapida ricerca online e vedere le offerte sul mercato.

Ma cosa guarda con attenzione una banca?

La banca controlla con molta attenzione la storicità di un’attività. Quando si è liberi professionisti, l’attività è l’anima del professionista. Pertanto le due entità si fondo in una sola e l’una incide inevitabilmente sull’altra. Per questo motivi le banche si focalizzano:

  • sullo stato di salute del professionista e della sua attività;
  • sul tempo trascorso dal giorno in cui si è iniziata l’attività;
  • sulla presenza di eventuali debiti pregressi;
  • sulla disponibilità di un anticipo sul prezzo di acquisto della casa, pari ad almeno il 20% del valore dell’immobile.

Altre soluzioni da considerare

Altro modo che facilita l’accesso al credito ad una partita Iva è l’utilizzo di un garante. Cioè una terza persona che può soddisfare la banca, con il proprio reddito, qualora non potesse il professionista richiedente. Ma ci sono anche altre soluzioni. Ad esempio la stipula di una polizza a protezione del credito. Questa garantisce la banca il rientro del prestito anche nel caso in cui non si riesce a pagare il debito. Non è obbligatoria, ma aiuta molto in sede di richiesta del mutuo.

Infine è bene fare attenzione al loan to value proposto dalla banca in sede di preventivo o simulazione. Mentre per i lavoratori dipendenti è possibile finanziare almeno 80% del valore dell’immobile, il titolare di partita IVA magari non avrà questo limite massimo, ma può accedere con un loan to value più basso.

 

 

Partita IVA all’estero: come aprirla legalmente e lavorare in italia

In questa rapida guida scopriremo come aprire partita IVA all’estero legalmente e sviluppare così una società estera redditizia con lavoro in Italia. 

Come aprire una partita IVA all’estero e poter lavorare in Italia

Dunque, per poter aprire una partita IVA all’estero in modo legale occorre collocare una vera attività all’estero, non un’attività dai contorni dell’evasione fiscale o dell’estero-vestizione, ossia che sembra estera ma che in realtà non lo è. Si possono fare affari e risparmiare sulle tasse aprendo una partita IVA estera in modo legale e sfruttare due differenti modalità che sostanzialmente dipendono dal tipo di attività svolta e dal luogo in cui si vuol vivere (che sia in Italia oppure no).

Ci sono, quindi, strumenti giuridici per aprire una partita IVA all’estero senza incorrere in spiacevoli conseguenze.

In Italia non è proibito esercitare attività imprenditoriali all’estero, così come non è vietato operare con partita IVA straniera in Italia. In pratica ci sono due modalità per aprire partita IVA all’estero in modo legale; il primo metodo utilizzabile è quello di avere la partita IVA in un Paese estero ma lavorare in Italia, il secondo metodo è trasferirsi all’estero e da lì creare una partita IVA per un’attività che poi viene svolta all’estero.

Andiamo a vedere nello specifico come fare.

Aprire partita IVA all’estero e lavorare in Italia

Come detto, poco sopra, effettuare l’apertura della partita IVA all’estero e lavorare in Italia è fattibile ed è legale, difatti i redditi saranno riconducibili ad attività svolte in Italia.

In tale modo, per aprire la partita IVA estera si dovrà dichiarare in Italia tutte le attività svolte, a prescindere da dove sono situati gli uffici e il personale della propria società all’estero. Qualora si aprisse la partita IVA all’estero e si lavori in Italia, quindi vivendo in Italia, occorrerà dichiarare il proprio guadagno della attività, poiché la società appartiene a un italiano, che spende quei soldi in Italia, dunque il Fisco ne vorrà necessariamente sapere di più.

Aprire la partita IVA all’estero e lavorare in Italia mette, dunque nella posizione in cui anche il Paese in cui è registrata la suddetta società estera vuole sapere di più sui movimenti economici del titolare. Il risultato di tale operazione è inevitabilmente quello che dovrete pagare le tasse sia all’estero che in Italia. Va, comunque detto che le imposte estere verranno detratte da quelle italiane, e all’Italia dovrà essere pagata la differenza.

Aprire partita IVA all’estero, cos’altro c’è da sapere

Prima di aprire partita IVA all’estero è bene sapere alcune cose da non fare:

  1. Avere soci italiani. Infatti, una società con partita IVA estera che presenta solo soci italiani è sconveniente e potrebbe attirare l’attenzione del Fisco. Ci sono molti vantaggi nell’avere soci residenti nel Paese in cui viene aperta la società con partita IVA estera, ad esempio un socio straniero conosce le leggi del suo Paese meglio di te che invece ti stai approcciando ora a un mondo tutto nuovo.
  2. Scegliere un centro di interessi in Italia. Il Fisco italiano ha l’occhio puntato sulle “furbate” quindi evita di scegliere un centro di interessi in Italia, per evitare che l’agenzia delle entrate ipotizzi che la tua partita IVA all’estero sia solo una estero-vestizione.
  3. Aprire un sito web in Italia intestato a soggetti residenti in Italia è una delle cose che mette l’ attività in cattiva luce agli occhi del Fisco italiano. Pure se non sembra che ci possa essere qualcosa di male, aprire un sito web in Italia che sia intestato a soggetti residenti in Italia quando l’ attività si svolge all’estero, è un controsenso che può allertare il Fisco.

Ci sono invece alcune altre cose da sapere per poter avviare con successo l’attività.

  1. Scegliere bene il Paese estero dove aprire partita IVA. Spesso gli italiani aprono la partita IVA estera in Paesi come Irlanda, Romania, Canarie, Leichtstein poiché sono ritenuti regimi fiscali favorevoli, con una pressione fiscale minore.
  2. Seguire le direttive della legge dello Stato in cui si apre la partita IVA e dimenticare come si gestisce un’azienda in Italia, siccome ogni Paese ha le proprie leggi.
  3. Occorre un professionista su cui contare che conosca le leggi del Paese estero e si informi per te, quindi si consiglia un socio del posto ed un professionista che gestisca la logistica.

Questo, dunque è quanto ci fosse di più utile e necessario da sapere in merito alla possibilità di aprire partita IVA all’estero e lavorare in Italia.

Partita Iva: passaggio da un regime a un altro, come funziona?

Come funziona il passaggio da un regime a un altro della partita Iva? Le partite Iva che abbiano i requisiti per poter aderire al meccanismo forfettario ma che non ne siano interessate, possono fuoriuscire da questo regime. In tal caso, si può adottare il regime ordinario della determinazione delle imposte sui redditi e di quella sul valore aggiunto.

Come avviene la scelta di aderire al regime ordinario di partita Iva?

Nel caso, dunque, che si voglia rinunciare alla partita Iva a regime forfettario per aderire a quella ordinaria è necessario comunicarlo nella dichiarazione annuale dell’Iva. Si procede con la scelta dello specifico campo del quadro VO della dichiarazione Iva che deve essere presentata. Tuttavia, il beneficiario che rinunci al meccanismo forfettario di partita Iva, oltre al regime ordinario, può scegliere quello semplificato.

Partita Iva a regime semplificato: che cos’è?

Possono aderire al regime semplificato di partita Iva:

  • le persone fisiche;
  • le società di persone;
  • gli enti non commerciali.

Per l’adesione è necessario che nel precedente esercizio il volume dei ricavi o dei compensi sia stato inferiore a 400 mila euro per le attività relative alla prestazione di servizi. Per le altre attività il limite è di 700 mila euro. Chi aderisce alla partita Iva a regime semplificato non deve tenere il libro giornale.

Il regime ordinario delle partite Iva: chi è obbligato?

La partita Iva a regime ordinario deve essere obbligatoriamente posseduta dai contribuenti che abbiano superato i limiti dei compensi e dei ricavi previsti per la contabilità semplificata. Sono altresì obbligate le società di capitali. Nel caso in cui una partita Iva che avrebbe i requisiti per il regime forfettario opti per il regime ordinario, permane il vincolo di tre anni. Al trascorrere del triennio, il regime si rinnova in maniera tacita per ogni anno susseguente. Il regime ordinario permane finché ci siano le condizioni della sua applicazione.

Dal regime di contabilità semplificata a quello forfettario delle partite Iva

Un contribuente che scelga di aderire al regime di contabilità semplificata della partita Iva può nuovamente tornare al regime forfettario. Lo può fare a partire dall’anno successivo a quello di adesione alla contabilità semplificata e non deve attendere il trascorrere dei tre anni. Rimane, in ogni modo, da verificare che abbia i requisiti per la partita Iva forfettaria e che non vi siano cause ostative.

Quando la partita Iva ordinaria può adottare il regime forfettario senza attendere i tre anni?

Ai passaggi tra regimi fiscali delle partite Iva è necessario specificare il funzionamento di un determinato meccanismo. Il contribuente che non ha i requisiti per adottare il regime forfettario deve transitare sul regime ordinario del reddito o nella contabilità semplificata. Si può tornare sempre al regime forfettario (in presenza dei requisiti richiesti) senza attendere il decorso dei tre anni pur trovandosi nel regime ordinario. Il legislatore, in questo caso, ha concesso la possibilità del transito perché la partita Iva ha adottato un passaggio che non è una sua opzione.

Partite Iva, cosa avviene nel passaggio dal forfettario al regime ordinario?

Risulta altresì importante stabilire cosa avviene nel passaggio dal regime forfettario delle partite Iva a quello ordinario. Il regime forfettario consente la rettifica dell’Iva per gli anni nei quali l’Imposta sul valore aggiunto è stata già detratta perché richiesto dall’ordinario. In questo modo, il meccanismo della rettifica permette la coerenza della detrazione avvenuta nei periodi susseguenti a quelli nei quali tale detrazione sia stata determinata. In tal caso si procedere ricalcolando l’imposta detraibile e versandola oppure recuperandone la differenza rispetto alla detrazione originaria.

Rettifica della detrazione Iva nel passaggio dal regime ordinario a quello forfettario

La rettifica della detrazione Iva deve essere eseguita sempre quando si passa dal regime ordinario di partita Iva a quello forfettario. Infatti, il primo consente la detrazione dell’Iva, il secondo no. Pertanto, l’Iva inerente i servizi e i beni non ancora ceduti o usati, deve essere rettificata in un’unica soluzione. Non si attende l’utilizzo dei beni e dei servizi. La rettifica dei beni ammortizzabili va fatta quando non siano stati superati i quattro anni dopo l’entrata in funzione dei beni stessi. In alternativa il termine sale a dieci anni dalla data di acquisto. Se si tratta di fabbricati o di loro porzioni, può essere adottato il termine di rettifica dei dieci anni.

Quando cessa il regime forfettario di partita Iva?

Il regime forfettario della partita Iva cessa a iniziare sempre dall’anno successivo. Non può cessare nel corso dell’anno, come avveniva in precedenza con il regime dei minimi, già abrogato nel 2016. Pertanto, l’adozione di un nuovo regime di partita Iva decorre dall’anno successivo a quello nel quale si sono manifestati i motivi per i quali si è avuta la fuoriuscita.

Partita Iva, cosa fare in caso di lavoro extra del dipendente statale

Come deve comportarsi un dipendente del pubblico impiego, assunto con contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno, nel caso in cui dovesse svolgere delle attività extra? Le norme impediscono al lavoratore statale di aprire partita Iva. Ma spesso capita di svolgere lavori extra per i quali il lavoratore non deve far richiesta di autorizzazione all’ente pubblico. Rientrano in queste attività, ad esempio, lo svolgimento di lezioni tecniche o quelle di tenere dei corsi via web.

Apertura partita Iva e prestazioni lavorative entro i 5 mila euro annui

Non potendo aprire la partita Iva, il dipendente del pubblico impiego potrebbe ricorrere alla prestazione occasionale. Emerge, in ogni modo, la necessità di conoscere qual è il volume di compensi che il lavoratore percepisce all’anno per l’attività occasionale. Infatti, determinati obblighi fiscali derivano dal superamento del tetto dei 5 mila euro all’anno.

Attività occasionali extra lavorative, quando bisogna iscriversi alla Gestione separata dell’Inps?

Ai fini dell’obbligo di apertura della partita Iva, in questo caso il superamento dei 5 mila euro risulta irrilevante. Infatti, la condizione per l’apertura della partita Iva è il carattere di abitualità di svolgimento di una certa attività. Se il dipendente del pubblico impiego, con le attività extra lavorative, non dovesse superare il tetto dei 5 mila euro annui, allora può essere esonerato rispetto all’obbligo di iscriversi alla Gestione separata dell’Inps.

Cosa avviene se con dei lavori si superano i 5 mila euro di compensi?

L’obbligo di iscrizione alla Gestione separata dell’Inps sussiste, invece, nel caso in cui dall’attività autonoma ne derivi un volume di compensi che superino i 5 mila euro annui. Con l’iscrizione alla gestione separata, infatti, chi svolge attività occasionali dovrà versare i contributi previdenziali.

Come si calcolano i contributi previdenziali nella Gestione separata Inps?

Per l’iscrizione alla Gestione separata Inps l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali sussiste per un terzo in capo a chi svolge l’attività. I restanti due terzi competono a chi ha commissionato l’attività stessa. Tuttavia, il versamento sussiste solo sulle somme che eccedono i 5 mila euro. Nel caso in cui l’attività occasionale viene svolta con la cessione dei diritti di autore non vi sono limiti di compensi e sulle somme non sono soggette ai contributi.

Procacciatore d’affari con partita IVA, apertura e costi: regime fiscale e contributi previdenziali

Abbiamo visto in un precedente articolo, come per un procacciatore d’affari occasionale sia possibile operare in assenza di una partita IVA, in caso dei mancati requisiti richiesti. Diversamente, in questa informativa vogliamo parlare di quanto costa e come aprire una partita IVA per procacciatore d’affari.

Brevemente, ripercorriamo insieme la figura del procacciatore d’affari, chi è e di cosa si occupa.

Cosa fa un procacciatore d’affari?

Il procacciatore d’affari opera nel settore commerciale, il suo compito è di mettere in contatto chi propone un servizio o un prodotto con possibili clienti interessati e, dunque, potenziali acquirenti. Tutto questo, a prescindere dalla tipologia di prodotti o servizi offerti: egli può mettere in contatto un fornitore con un distributore, un costruttore con un investitore immobiliare e via discorrendo.

Il procacciatore d’affari occasionale non è obbligato all’apertura della partita IVA, a meno che, non subentri il requisito reddituale e la modalità di lavoro continuativa e non più sporadica. In tal senso, il freelance diventa a tutti gli effetti un lavoro autonomo titolare di partita IVA, quindi, inquadrato come commerciante. In quanto tale, sarà tenuto al versamento delle tasse e a quello dei contributi previdenziali, inoltre, al rispetto delle regole imposte dal regime fiscale scelto. Ma prima di entrare nel vivo degli aspetti fiscali quanto contributivi, occorre fare una distinzione tra tre figure professionali che, per certi versi, potrebbero essere visti come similari.

Differenza tra procacciatore d’affari, mediatore e agente di commercio

Partiamo dalla figura professionale più nota, l’agente di commercio. Egli opera spesso nel mercato per conto di una o più aziende, quindi in modo diretto. Ma spesso, può operare anche indirettamente, ossia su mandato di un’agenzia. Solitamente, l’agente si occupa di proporre e vendere prodotti a rivenditori al dettaglio ma anche ad altri esercizi aperti al pubblico.

L’agente di commercio svolge la propria attività in modo continuativo, seguendo uno stesso contratto anche per molto tempo, quasi sempre con il vincolo di esclusività nei confronti del datore di lavoro. Pur rimanendo un lavoratore autonomo possessore di partita IVA, capita di sovente che l’agente possa lavorare per la stessa azienda per un periodo prolungato nel tempo.

Il procacciatore d’affari, invece, è più concentrato su singole trattative, in quanto è spesso richiesta la sua presenza in situazioni particolari o che riguardano beni di grande valore, come automobili di lusso. Il suo rapporto con l’azienda non è lungo, dura il tempo che serve e il contratto con cui opera ha spesso minori tutele, ad esempio: non è previsto a fine contratto il TFR.

Il vantaggio che il procacciatore d’affari ha sull’agente di commercio, sta nella facoltà di non seguire necessariamente le direttive di un datore di lavoro, di non essere, più anche altro, soggetti a rispettare degli orari o turni di lavoro, a vincoli di zona territoriali e soprattutto non subiscono il vincolo dell’esclusività. D’altronde, il compito del procacciatore d’affari è mettere in contatto le due parti, senza occuparsi della finalizzazione della vendita né della sottoscrizione di alcun contratto.

Il mediatore opera nel settore del commercio, ma si concentra sulle trattative, in quanto il suo compito è trovare una soluzione economica o contrattuale che possa soddisfare entrambi le parti.

Le differenza tra le tre suddette figure, sono evidenti non solo dal tipo diverso di attività svolta, almeno per quanto concerne la sua conduzione e finalizzazione, ma soprattutto dall’inquadramento fiscale e contributivo, nel quale gli obblighi da rispettare sono diversi. Ad esempio, l’agente di commercio è tenuto ad iscriversi all’ENASARCO, mentre il procacciatori d’affari solo alla Gestione Commercianti dell’INPS.

Procacciatore d’affari e apertura partita IVA

Come già ampiamente parlato nell’articolo inizialmente citato, il procacciatore d’affari in presenza di determinati requisiti (continuità e di reddito) è costretto ad aprire una partita IVA. Per farlo, egli deve effettuare la procedura tramite ComUnica, che avverte tutti gli enti, come l’INPS o la Camera di Commercio. Se ci sono le giuste conoscenze e competenze, si può procedere autonomamente alla scelta del Codice ATECO che identifica il tipo di attività e il settore di riferimento in cui vuole operare il procacciatore d’affari, così come vale per qualunque lavoratore che decide di avviare una propria attività commerciale.

Senza perderci in chiacchiere e in elenchi infiniti, possiamo anticipare che il codice ATECO per Procacciatori d’affari di vari prodotti senza prevalenza di alcuno è il 46.19.02. Dal codice ATECO, dipende il coefficiente di redditività o le regole da seguire per i contributi previdenziali dell’attività.

Il regime fiscale del procacciatore d’affari

Dovendo svolgere la propria attività come titolare di partita IVA, il procacciatore d’affari dovrà scegliere sin da subito quale regime fiscale adottare: forfettario, ordinario in contabilità semplificata od ordinaria. La differenza operata nella scelta dipenderà dal reddito conseguito. Nel regime forfettario si basa sul coefficiente di redditività, nel regime ordinario è determinato dai ricavi meno i costi sostenuti.

Come funziona il regime forfettario

Quando il procacciatore d’affari è in possesso di tutti i requisiti richiesti, tra cui un reddito percepito fino a 65.000 euro, il regime forfettario è certamente la scelta migliore da effettuare. Le tasse pagate dal lavoratore in questione corrispondono, come per tutte le altre categorie di ditte individuali che adottano tale regime, il 15% delle tasse, che scende al 5% per i primi cinque di attività in caso di start-up, sempre che la stessa attività non sia stata svolta nei tre anni precedenti l’apertura della partita IVA.

Come già accennato, il procacciatore d’affari dovrà conoscere il proprio coefficiente di redditività derivante dal codice ATECO di appartenenza. La percentuale rimanente costituirà un importo forfettario delle spese sostenute per l’attività. A questo punto, il lavoratore in questione dovrà moltiplicare i compensi lordi ricevuti per tale coefficiente e applicare l’imposta dovuta del 15% o del 5% per conoscere l’entità delle tasse da pagare.

Nel regime forfettario la fatturazione elettronica non è obbligatoria, pertanto, può essere emessa una ricevuta cartacea con una marca da bollo pari a 2 euro per compensi superiori a 77,47 euro.

Il regime ordinario in contabilità semplificata

Il procacciatore d’affari che non è in possesso dei requisiti richiesti per accedere al regime fiscale forfettario, dovrà optare per quello ordinario in contabilità semplificata. In tal caso, il reddito sarà conteggiato sulla differenza tra ricavi meno spese. Sul risultato verrà applicata la percentuale IRPEF a seconda dello scaglione di appartenenza. Inoltre, il lavoratore sarà soggetto ad IVA.

Come funziona il regime ordinario

Il regime ordinario in contabilità ordinaria, riguarda solo il procacciatore d’affari, così come per tutte le altre imprese, che avrà superato il limite dei 400.000 euro annui per le attività di prestazione di servizi, che salgono a 700.000 per le altre attività. In tal caso, la scelta è obbligata.

Iscrizione alla Gestione Commercianti INPS

Come già detto in precedenza, il procacciatori d’affari non è tenuto all’iscrizione all’ENASARCO, ma solo alla Gestione Commercianti INPS. I contributi da versare saranno misti, fissi entro un certo reddito (3.900 euro circa su 15.548); variabili a seconda del fatturato con aliquota variabile in base all’età sulla quota di reddito eccedente.

I costi della partita IVA per procacciatori d’affari

  • Le imposte pari al 15% o al 5% (se ci sono le condizioni), del reddito lordo a cui sottrarre il 38% delle spese;
  • I contributi fissi più quelli variabili.

Associazione culturale con codice fiscale: come funziona?

Il primo passo da compiere nella creazione di un’associazione culturale è quello di stabilire che tipo di associazione si voglia costituire. Ovvero, è necessario capire cosa si voglia fare e con chi farlo. Il passaggio successivo, oltre alla redazione dell’atto costitutivo e dello statuto, è quello di decidere se aprire un’associazione con il solo codice fiscale oppure con la partita Iva.

Differenza tra associazione culturale con partita Iva da quella con il solo codice fiscale

La differenza tra le due tipologie di associazioni culturali, con partita Iva o con il solo codice fiscale, risiede essenzialmente nel fatto che l’associazione con il codice fiscale può svolgere solo la normale attività istituzionale, mentre l’associazione con partita Iva può attivarsi anche per l’attività commerciale subordinata a quella istituzionale. Nel primo caso, l’attività istituzionale è rivolta ai soci tesserati. Lo stesso anche nel caso di attività di tipo commerciale: anche quest’ultima è rivolta ai soci tesserati o per la fornitura di servizi  a realtà terze. In ogni caso, l’apertura della partita Iva permette all’associazione di beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalla legge numero 398 del 1991.

Codice fiscale obbligatorio per un’associazione culturale

È importante rilevare che il codice fiscale è sempre obbligatorio per la società culturale come lo è sempre per ogni tipologia di associazione che si voglia costituire. La partita Iva, invece, può essere aperta anche in un secondo momento. L’unica differenza è che, se l’associazione chiede l’attribuzione del codice fiscale e, contestualmente, l’apertura della partita Iva, i due numeri coincidono. Se, invece, l’apertura della partita Iva avviene in un momento successivo i due numeri sono differenti.

Associazione culturale: come si richiede il codice fiscale?

La richiesta del codice fiscale di un’associazione culturale, come per tutte le altre tipologie di associazioni, va fatta all’Ufficio del registro dell’Agenzia delle entrate. È necessario compilare il modello AA5/6 in due copie, una per l’associazione e una per l’Agenzia delle entrate. Si può scaricare il modulo anche on line, collegandosi al sito dell’Agenzia delle Entrato. L’Ufficio del Registro chiede anche la fotocopia dell’Atto costitutivo dell’associazione e lo statuto. Inoltre, viene richiesto anche il documento valido del presidente dell’associazione o di un delegato nel caso in cui la domanda dovesse essere presentata da un delegato del presidente. Questi documenti vanno allegati al modello di richiesta del codice fiscale.

Codice fiscale, come si compila il modello AA5/6?

Per la compilazione del modello AA5/6 è necessario barrare, nel quadro A, la casella “Attribuzione del numero di codice fiscale” e inserire la data  di costituzione dell’associazione. Il quadro B riguarda il soggetto d’imposta. E, pertanto, bisogna scrivere il nome, per esteso, dell’associazione e inserire il numero 12 nel campo della “natura giuridica”. La scelta successiva del codice attività varia in base alla tipologia di associazione che si desidera costituire. Per inserire le cifre è necessario fare riferimento ai codici Ateco e alla loro classificazione in base alla tipologia di attività. Di seguito, il richiedente deve indicare l’indirizzo, il Cap, il comune e la provincia della sede legale dell’associazione.

Indicazione del presidente dell’associazione nel modello di richiesta codice fiscale

Il modello AA5/6 continua con il quadro C che riporta le informazioni sul rappresentante. In questo quadro, si devono indicare i dati del presidente dell’associazione e nello spazio “Codice carica” si deve riportare il numero 1. Le due pagine successive si devono lasciare vuote, anche se bisogna stamparle e consegnarle all’Agenzia delle entrate. Va compilata l’ultima pagina dove occorre riportare gli allegati al modello. Il presidente, o un suo delegato, devono barrare le lettere A, B e C, inserire la data e la firma. Le successive parti vanno lasciate vuote.

Associazione culturale con partita Iva, come funziona?

Le associazioni costituite per svolgere delle attività commerciali devono richiedere l’attribuzione della partita Iva. La richiesta si fa presso l’ufficio dell’Agenzia delle entrate dove le associazioni sono residenti. È importante rilevare che, contestualmente all’apertura della partita Iva, le associazioni devono depositare l’atto costitutivo e lo statuto presso l’Agenzia delle entrate.

Deposito dell’atto costitutivo e dello statuto dell’associazione presso l’Agenzia delle entrate

È necessario, tuttavia, che le associazioni in fase di costituzione richiedano l’attribuzione del codice fiscale all’Agenzia delle entrate prima di registrare l’atto costitutivo e lo statuto. La richiesta va presentata mediante presentazione del modello AA5/6. Il successivo deposito, presso l’Agenzia delle entrate, dell’atto costitutivo e dello statuto comporta una spesa di 200 euro che comprende il costo dei valori bollati e l’imposta di registro. Di questa spesa è esente l’associazione costituita per finalità di volontariato.

Quali associazioni devono richiedere la partita Iva?

Per le associazioni culturali costituite con l’intendo di non svolgere servizi commerciali è sufficiente avere il solo codice fiscale. Se le associazioni invece sono costituite per svolgere anche attività di commercio, di vendita di prodotti o di servizi, è necessaria la richiesta di attribuzione della partita Iva. L’attività commerciale deve essere svolta in maniera abituale.

Associazioni che svolgono attività commerciale: come si richiede la partita Iva?

Per richiedere la partita Iva, le associazioni che svolgono attività commerciale devono compilare il modello AA7/10. Si tratta del modello di richiesta di apertura, di variazione e di chiusura della partita Iva per soggetti diversi dalle persone fisiche. Nel modello, si deve riportare, innanzitutto, il codice fiscale dell’associazione. Il quadro A è quello inerente l’inizio dell’attività con attribuzione del numero di codice fiscale e di partita Iva. Nel quadro B, viene si definisce il soggetto d’imposta: in questa sezione del modello si deve definire la denominazione o ragione sociale, la sede legale, amministrativa o, in mancanza, la sede effettiva. Inoltre si deve compilare il domicilio fiscale, l’attività esercitata e il luogo di esercizio. Nel caso in cui l’associazione svolga più attività è necessario riportare quella prevalente.

Associazioni: il modello AA7/10 per l’apertura della partita Iva

Nel quadro C del modello AA7/10 si deve riportare il rappresentante dell’associazione (nel quadro F si inseriscono gli eventuali altri rappresentanti o soci). Il quadro D va compilato nei successivi casi di operazioni straordinarie e trasformazioni sostanziali soggettive, come scissione totale o conferimento, cessione e donazione di ramo d’impresa. Per la tipologia di attività che l’associazione andrà a svolgere è importante la compilazione del quadro G. In questa sezione si inseriscono le informazioni inerenti le altre attività esercitate e gli altri luoghi in cui saranno esercitate le attività o conservate le scritture contabili.

Compilazione on line del modello AA7/10

Il modello AA7/10 per l’apertura della partita Iva può essere scaricato e compilato direttamente on line collegandosi al sito ufficiale dell’Agenzia delle entrate. È sufficiente seguire le istruzione per la presentazione semplice e veloce. Le associazioni che abbiano intenzione di svolgere attività commerciale, come si capisce, devono comportarsi come una qualsiasi piccola o media impresa che inizia la propria attività. In tale vesti, l’associazione può scegliere anche il regime fiscale più conveniente.

Regimi fiscali agevolati delle associazioni

Un’associazione che abbia richiesto l’attribuzione di partita Iva in quanto svolge attività commerciale, potrebbe optare per il regime fiscale semplificato. La scelta potrebbe garantire vari vantaggi fiscali e offrire un regime forfettario di tassazione, sia per quanto riguarda le imposte dirette che l’imposta sul valore aggiunto.

 

Venditore porta a porta senza partita Iva per redditi fino a 5mila euro

Il venditore porta a porta può svolgere la propria attività senza partita Iva se il suo reddito non supera i 5mila euro all’anno. Entro tale limite, infatti, il venditore è considerato operatore economico occasioale e pertanto non è obbligato ad aprire la partiva Iva. Nel caso di venditore con partita Iva, con redditi sopra i 5mila euro, scatta l’obbligo alle regole Iva ordinarie. Tra gli obblighi si comprende anche il diritto alla detrazione dell’imposta sugli acquisti dei beni e dei servizi riguardanti l’attività svolta.

Chi è il venditore porta a porta?

Sul punto è intervenuta anche l’Agenzia delle entrate con la risoluzione numero 18/E/2006. L’Agenzia è stata chiamata a espireme il proprio parere in merito al trattamento fiscale da riservare, ai fini Iva, alle provvigioni erogate agli incaricati alla vendita diretta a domicilio. Secondo le novità introdotte dalla legge numero 173 del 17 agosto 2005, l’incaricato alla vendita diretta a domicilio è “colui che, con o senza vincolo di subordinazione, promuove, direttametne o indirettamente, la raccolta di ordinativi di acquisti presso privati consumatori per conto di imprese esercenti la vendita diretta a domicilio”.

Venditore a domicilio con redditi sotto i 5.000 euro annui

Il comma 4 dell’articolo 3, della legge numero 173 del 2005 qualifica come occasionale l’attività dell’addetto alla vendita diretta a domicilio, senza vincolo di subordinazione e senza contratto di agenzia, fino a conseguire un reddito all’anno non superiore ai 5.000 euro. L’Associazione scrivente che ha chiesto il parere dell’Agenzia delle entrate intende la norma nel senso che fino al raggiungimento del reddito annuo di 5.000 euro, il soggetto addetto ad attività di vendita diretta a domicilio non si debba considerare passivo ai fini Iva.

Venditori porta a porta, il limite si intende come reddito e non come volume di affari

Il limite individuato dall’articolo in questione comporta, per i soggetti addetti alle vendite a domicilio, l’assoggettamento ad Iva delle provvigioni percepite nell’esercizio della propria attività. Dalla norma ne consegue che il limite dei 5.000 euro si intende come reddito e non come volume d’affari. Pertanto, nel verificare il superamento del tetto, si vanno a verificare anche le eventuali spese collegate con lo svolgimento dell’attività porta a porta.

Determinazione delle spese del venditore a domicilio

Per la determinazione delle spese del venditore porta a porta si fa riferimento al comma 6 dell’articolo 25 bis, del Decreto del Presidente della Repubblica numero 600 del 1973.  L’articolo prende in considerazione proprio i venditori a domicilio. Infatti stabilisce che “i compensi siano assoggettati a imposizione attraverso l’applicazione di una ritenuta alla fonte con l’aliquota applicabile al primo scaglione di reddito commisurata all’ammontare delle provvigioni percepite ridotto del 22% a titolo di deduzione forfetaria delle spese di produzione del reddito”. Pertanto, l’attività dei venditori porta a porta si intende abituale, e dunque rilevante ai fini Iva, se nell’anno solare si percepisce un reddito, al netto della deduzione forfettaria delle spese indicata dall’articolo 25 bis, superiore a 5.000 euro.

Quando il venditore porta a porta deve aprire la partita Iva?

Si può ben definire anche il momento in cui il venditore porta a porta deve aprire la partita Iva. L’obbligo all’Iva scatta alla prima operazione che comporta il superamento della soglia dei 5.000 euro. Questa interpretazione è coerente con l’orientamento espresso dall’Inps nella circolare numero 103 del 2004. L’Inps ha esprsso il chiarimento in merito all’obbligo di iscrizione alla gestione separata per gli incaricati alla vendita diretta. Nel dettaglio, l’articolo 44 del decreto legge numero 269 d del 2003 dispone proprio che “a decorrere dal 1° gennaio 2004 gli incaricati alle vendite dirette a domicilio sono iscritti alla Gestione separata Inps solo qualora il reddito annuo derivante da detta attività sia superiore a euro 5mila”.

E se il venditore porta a porta con partita Iva non raggiunge il tetto dei 5.000 euro?

Da ultimo è necessario prendere in considerazione l’ipotesi che il venditore porta a porta con partita Iva non raggiunga il tetto dei 5.000 euro annui. In questa fattispecie non si può parlare di perdita della soggettività ai fini Iva del venditore. Infatti, con l’apertura della partita Iva, l’addetto alla vendita diretta si presume che svolgerà la propria attivià in forma abituale e non occasionale. Appare ragionevole sostenere che, i venditori porta a porta titolari di partita Iva non possono più considerarsi occasionali. E, nell’esercizio della propria attività, possano individuarsi i caratteri della continuità e della sistematicità propri dell’abitualità della professione.

 

Partite Iva forfettarie: la verifica del limite dei 30mila euro coincide con la fine del periodo di preavviso

Per le partite Iva ricadenti nel regime forfettario, la cessazione del lavoro coincide con il momento in cui termina il periodo di preavviso e non con il momento effettivo delle dimissioni. L’importante specifica, contenuta nell’interpello numero 268 del 2021 dell’Agenzia delle entrate, è utile ai fini della verifica del tetto dei 30mila euro di reddito. Il superamento della soglia rappresenta, infatti, una causa ostativa proprio al regime forfettario.

Il limite dei 30mila euro di reddito per il regime forfettario

Il caso sul quale l’Agenzia delle entrate è stata chiamata a esprimersi riguarda un lavoratore dipendente che, nel 2020, aveva presentato le proprie dimissioni. Le dimissioni rappresentano un atto unilaterale recettizio per la cui efficacia non è richiesta l’accettazione da parte del datore di lavoro. Lo slittamento della cessazione del lavoro alla fine del periodo di preavviso e non al momento delle dimissioni impone di verificare, nel caso del lavoratore, i redditi del 2020.

Richiesta di apertura partita Iva con regime forfettario

Nel quesito posto all’Agenzia delle entrate si legge che il contribuente ha rassegnato le dimissioni volontarie in una data dell’anno 2020, e di aver proseguito il rapporto di lavoro sino a inizio del 2021 per il periodo di preavviso. Il lavoratore, nel periodo di imposta del 2020, ha ottenuto un reddito da lavoro alle dipendenze superiore ai 30mila euro. Lo stesso intende fare richiesta di attribuzione di partita Iva per esercitare l’attività di lavoratore autonomo a regime forfettario.

Limite di reddito per la partita Iva a regime forfettario

Considerando, dunque, il limite dei 30mila euro di reddito da lavoro dipendente ostativo ai sensi del comma 57, lettera d-ter, dell’articolo 1 della legge numero 190 del 2014, il lavoratore chiede se potrà avvalersi del regime forfettario. In particolare, il richiedete vorrebbe sapere se il superamento della soglia di reddito per l’anno 2020 rappresenti una condizione ostativa per l’apertura della partita Iva forfettaria nel 2021.

Partite Iva forfettarie, il limite del reddito si riferisce all’anno precedente

I chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate, nell’interpello numero 368 del 2021, evidenziano che il limite dei 30mila euro di reddito non opera se il rapporto di lavoro alle dipendenze è cessato nel corso dell’anno precedente. La ragione di questo chiarimento consiste nel favorire il lavoratore, rimasto senza impiego, a iniziare una nuova attività.

Chiarimenti Agenzia delle entrate sul regime forfettario

Tuttavia, il richiedente ritiene di rientrare nel regime forfettario nel 2021. La sua convinzione risiede nel fatto che le dimissioni siano state presentate nel 2020, anno precedente a quello di apertura della partita Iva. La risposta dell’Agenzia delle entrate, in ogni modo, parte da quanto specificato dalla legge numero 190 del 2014. All’articolo 57, infatti, si precisa che non possono avvalersi del regime forfettario i soggetti che “nell’anno precedente hanno percepito redditi da lavoro dipendente e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, eccedenti l’importo di 30mila euro”. Inoltre, “la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto di lavoro è cessato”. Altrimenti è dovuta, essendo il rapporto di lavoro cessato nel 2021 e non nel 2020.

Cessazione del lavoro da dipendente e apertura partita Iva a regime forfettario

E, pertanto, ai fini della non applicabilità della causa di esclusione rilevano “solo le cessazioni di lavoro intervenute nell’anno precedente a quello di applicazione del regime forfettario”. Nel caso del lavoratore, il rapporto di lavoro si è protratto fino al 2021 per il rispetto del periodo di preavviso. Ed è solo a partire dalla data di effettiva cessazione del lavoro che vengono meno le retribuzioni e gli altri diritti connessi al rapporto di lavoro. Quindi il rapporto è in essere fino al termine del preavviso.

Per l’Agenzia delle entrate il richiedente potrà avvalersi del forfettario solo nel 2022

Pertanto, l’anno effettivo di cessazione del lavoro, il 2021, coincide con l’anno di apertura della partita Iva beneficiando del regime forfettario. Il richiedente potrà dunque aprire la partita Iva nel 2021 con la quale avviare la propria attività. Ma solo a partire dal 2022 potrà beneficiare del regime forfettario avendo superato nel 2020 il tetto dei 30mila euro. E la verifica, essendo il rapporto terminato a inizio anno, è dovuta per i redditi del 2020, essendo nel 2021 ancora in essere il rapporto di lavoro.