Imu e Tasi? Tasse raddoppiate in quattro anni

Il bello di Imu e Tasi è che ogni giorno escono cifre nuove e in un certo senso sconvolgenti su queste due imposte. Dopo che ieri abbiamo parlato delle stime di Confartigianato sulle aliquote medie di Imu e Tasi in diverse zone d’Italia e sull’aumento della tassazione specialmente sugli immobili produttivi (negozi, uffici e capannoni) tra il 2012 e il 2014, oggi registriamo altre cifre, diffuse questa volta dalla Cgia.

Gli artigiani di Mestre hanno fatto il loro conti su Imu e Tasi per gli immobili strumentali e hanno rilevato che, tra il 2011 e il 2014, “la tassazione sugli immobili strumentali ha subito una vera e propria impennata: dai 5 miliardi di gettito dell’ultima Ici pagata, nel 2014 il prelievo ha superato i 10 miliardi”. Raddoppiata.

La Cgia è poi entrata nel dettaglio dell’aumento di Imu e Tasi per le diverse categorie d’immobili: +142% per gli uffici e gli studi; +137% per botteghe ed esercizi commerciali; +107% per laboratori artigianali; +101% per le banche; +94% per gli immobili a uso produttivo.

Interessanti anche i dati sul gettito di Imu e Tasi per categoria di immobile. I capannoni hanno prodotto il gettito più significativo, passato dai 3,17 miliardi del 2011 ai 6,15 miliardi del 2014 (+94%). Seguono negozi e botteghe artigiane (809 milioni nel 2011, 1,9 miliardi nel 2014, +137%), uffici e studi (da 545 milioni a 1,32 miliardi, +142%), laboratori (da 228 milioni a 473 milioni, +107%).

I calcoli su Imu e Tasi eseguiti dall’Ufficio studi della Cgia hanno utilizzato per ciascuna tipologia di imposta l’aliquota media risultante dalle delibere dei Comuni capoluogo di provincia; relativamente alle tipologie immobiliari, è stata ricavata la rendita catastale media utilizzando la banca dati dell’Agenzia delle Entrate.

Inoltre, nell’analisi della variazione del carico fiscale prodotto da Imu e Tasi, l’Ufficio studi della Cgia non ha considerato il “risparmio fiscale concesso dalla legge. Così come avvenuto nel 2014, anche per quest’anno la Tasi per le aziende è completamente deducibile dal reddito di impresa, mentre l’Imu lo è solo per una quota pari al 20%“.

Pagare tasse è un lavoro

Pagare tasse è un lavoro. Sembra un paradosso, ma se guardiamo al tempo che, mediamente, un italiano butta via per pagare tasse al fisco, scopriamo che è davvero così. I conti in tal senso li ha fatti ancora una volta la Cgia, la quale ha scoperto che lo scorso anno i contribuenti italiani hanno lavorato letteralmente per il fisco fino al 7 giugno, ossia per 158 giorni: 9 giorni in più rispetto alla media dei Paesi dell’area dell’euro e 13 rispetto alla media dei 28 Paesi che compongono l’Ue. E poi pagare tasse non è un impiego a tempo pieno?

L’Ufficio studi della Cgia è arrivato a questo dato esaminando il Pil nazionale di ciascun Paese registrato nel 2013, utilizzando la nuova metodologia di calcolo adottata dall’Eurostat, e lo ha suddiviso per 365 giorni dell’anno. Poi, ha considerato il gettito di imposte, tasse e contributi che i contribuenti europei hanno pagato al Paese di appartenenza e lo ha diviso per il Pil giornaliero. Il risultato ha poi consentito di calcolare il cosiddetto “giorno di liberazione fiscale”, ossia quello in cui di fatto si smette di lavorare solo per pagare tasse al proprio Paese dell’area dell’euro.

Guardando al di fuori dei nostri confini, solo la Francia fa rilevare un dato peggiore del nostro, pari a 174 giorni. In Germania si smette di lavorare per pagare tasse dopo 144 giorni, in Olanda dopo 136 e in Spagna dopo 123.

Interessante è poi il dato ottenuto dall’ufficio studi della Cgia relativamente alla serie storica del “freedom tax day” in Italia dal 1995 al 2013. Dalla metà degli Anni ’90 (147 giorni) al 2005 (143 giorni), i giorni di lavoro necessari per onorare il fisco e pagare tasse hanno subito una riduzione, ma poi sono cresciuti sino a toccare il record di 158 giorni nel 2012, confermato nel 2013.

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, “ad esclusione del Belgio tutti i Paesi federali presentano una pressione fiscale molto inferiore alla nostra, con una macchina statale più snella ed efficiente ed un livello dei servizi offerti di alta qualità. Pertanto, è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale, definire e applicare i costi standard per abbassare gli sprechi e gli sperperi e, nel contempo, ridurre le tasse di pari importo”.

Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.

Lavoratori a partita Iva, guerra tra poveri

Abbiamo visto ieri come, secondo la Cgia di Mestre, i lavoratori a partita Iva sono di fatto i nuovi poveri. Tra questa guerra di straccioni, però, c’è sempre chi è più povero degli altri: nello specifico, si tratta delle lavoratrici a partita Iva. In un recente convegno svoltosi a Roma, l’Associazione 20 Maggio ha fatto il punto su questa sconcertante realtà analizzando alcuni dati dell’Inps secondo i quali la media dei compensi di tutti i lavoratori a partita Iva 2013 è di 19mila euro lordi annui. Una miseria, ma se si considera che a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini, il dato appare ancora più scandaloso. Gli uomini percepiscono in media redditi di 23.874 euro, mentre le donne di 12.185.

A proposito di cifre, l’Associazione fa notare che con un compenso lordo medio di 18.640 euro, il reddito netto annuo dei lavoratori a partita Iva iscritti alla Gestione separata si riduce a 8.679 euro, pari a 723 euro mensili. Osservando poi la distribuzione per fasce di età, si nota che su 1 milione e 259mila lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48% del totale) e il 33% ne ha più di 50 anni.

È quindi evidente che il lavoro parasubordinato riguarda soprattutto lavoratori e lavoratrici adulte e con famiglia, queste ultime in maggioranza nella fascia under 39; dopo questa età, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali di cui godono i collaboratori, tendono a lasciare il lavoro in concomitanza con la nascita dei figli. Inoltre, le più colpite dalla disparità di trattamento economico sono le fasce d’età dai 40 a i 49 anni, ossia le lavoratrici all’apice della carriera.

Per non parlare dei giovani lavoratori a partita Iva: tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230mila unità, con un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% nella fascia 25-29 anni. Attenzione alla soglia di povertà…

Lavoratori autonomi, i nuovi poveri

Quando ci sono di mezzo studi e ricerche della Cgia sui lavoratori autonomi, spesso i temi vengono affrontati in maniera volutamente provocatoria e “sopra le righe”, ma in questo caso la tematica è brutalmente cruda nel suo essere semplice ed evidente: secondo l’Ufficio Studi dell’associazione, tra i lavoratori autonomi 1 su 4 è a rischio povertà.

Il dato emerge da una ricerca secondo la quale nel 2013 il 24,9% delle famiglie in cui i lavoratori autonomi portano a casa il reddito principale ha vissuto con un reddito disponibile inferiore a 9.456 euro annui, che è la soglia di povertà calcolata dall’Istat.

Per le famiglie con reddito da pensioni, il 20,9% ha percepito entro la fine dell’anno un reddito inferiore della soglia di povertà, mentre per quelle dei lavoratori dipendenti il tasso si è fermato al 14,4%, ossia quasi la metà rispetto al dato riferito alle famiglie dei lavoratori autonomi.

Secondo la Cgia, dal 2008 al primo semestre di quest’anno i lavoratori autonomi che hanno chiuso l’attività sono stati 348.400, pari a una contrazione del 6,3%. Il numero dei lavoratori dipendenti, invece, si è ridotto di 662.600 unità, in termini percentuali un -3,8%. Sempre paragonando lavoratori autonomi e dipendenti, la Cgia fa notare che il reddito delle famiglie dei primi ha subito in questi ultimi anni un taglio di oltre 2.800 euro (-6,9%), mentre quello dei dipendenti è rimasto pressoché identico.

I lavoratori autonomi hanno sofferto specialmente al Sud. Tra il 2008 e il primo semestre di quest’anno la riduzione delle partite Iva nel Mezzogiorno è stata del 9,9% (pari a -160.000 unità), nel Nord Ovest del 7,8% (-122.800 unità), nel Nord Est del 4,3% e nel Centro dell’1,3 per cento.

Allarmato il commento del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi: “A differenza dei lavoratori dipendenti quando un autonomo chiude definitivamente bottega non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassaintegrazione in deroga e/o ordinaria/straordinaria. Una volta chiusa l‘attività ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di un nuovo lavoro. Purtroppo non è facile trovarne un altro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento costituiscono una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero”.

È quindi evidente che, a quasi sette anni dallo scoppio della crisi, il cosiddetto ceto medio è sempre più in difficoltà: oggi, quello composto dai lavoratori autonomi è il corpo sociale che più degli altri è scivolato verso il baratro della povertà e dell’esclusione sociale.

Letta: “Nel 2014 le tasse caleranno per tutti”

«Le tasse sulle famiglie italiane nel 2013 sono scese e la tendenza continuerà anche nel 2014». Il premier Enrico Letta sceglie  Twitter per commentare i dati di ieri della Cgia di Mestre che ha certificato il calo del carico fiscale. «È una bella notizia che noi conoscevamo già. Accolgo pertanto con soddisfazione l’analisi che riconosce al Governo l’inversione di tendenza sulla crescita delle tasse, con un risparmio che, per le famiglie, è comunque considerevole» ha commentato, invece, il vicepresidente del Consiglio Angelino Alfano citando i dati della Cgia. «Adesso –  afferma il leader del NCD – occorre continuare per fare nel 2014 ancora di più. È questo il motivo forte che ci ha spinto a portare avanti il Governo nell’interesse esclusivo degli italiani e il tanto già fatto ci spinge dunque a proseguire in questa direzione». 

“Con l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e con l’incremento delle detrazioni Irpef per i figli a carico – aveva dichiarato il segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi – nel 2013 queste misure hanno assunto una dimensione economica superiore a tutti gli aumenti registrati nel corso dell’anno. Grazie a ciò, le famiglie hanno potuto godere di una riduzione del carico fiscale rispetto al 2012. Con il taglio del cuneo che premierà solo i lavoratori dipendenti, dal 2014 i risparmi saranno più pesanti per i livelli retributivi più bassi, mentre tenderanno a ridursi man mano che cresce il reddito. Questo beneficio – che ammortizzerà l’aumento dovuto all’introduzione della Tasi, all’aggravio dell’Iva e al ritocco all’insù delle addizionali e del carburanti – non riguarderà le famiglie composte da pensionati e lavoratori autonomi che non potranno beneficiare del taglio del cuneo fiscale. Queste famiglie, pertanto, saranno chiamate, molto probabilmente, a pagare di più rispetto a quanto hanno versato quest’anno”.

Jacopo MARCHESANO

Vado, fallisco, non torno

Niente da fare. Sembra proprio che l’emorragia di imprese non voglia cessare mai. Alla faccia di chi parla di ripresa e di luce in fondo al tunnel. Secondo i dati Cerved, società specializzata nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito, visionati dall’Ansa in Italia assistiamo a un nuovo record di fallimenti: quasi 10mila nei primi 9 mesi dell’anno. Bum. Il settore più colpito è quello dei servizi, con un aumento dei fallimenti del 14% rispetto all’anno precedente, seguito dal manifatturiero (+11%) e da quello edile (+ 9,7%).

Un aumento secco del 12% rispetto allo stesso periodo del 2012, mentre la crescita nel terzo trimestre è del 9%. A rincarare la dose, Cerved sottolinea che il numero di imprese è a livello “massimo osservato da più di un decennio nel periodo gennaio-settembre”.

La regione più colpita è la Lombardia, con 2.250 fallimenti nei primi nove mesi (+13%), male anche l’Emilia Romagna e il Veneto (+19%) e il Lazio (+15%), mentre fanno registrare dati in controtendenza la Liguria (-11%) e l’Umbria (-18%).

Le statistiche di Cerved rilevano che a portare i libri dal giudice sono soprattutto le società di capitale (+12%), le società di persone (+10%) e le altre forme giuridiche si attestano al +11%.

Un altro triste record è quello delle liquidazioni volontarie. Nel terzo trimestre del 2013 hanno avviato procedure di liquidazione volontaria 14mila aziende che non avevano precedenti procedure, il 5,3% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Da gennaio a settembre sono state oltre 50mila le liquidazioni. Ad aumentare sono state le liquidazioni delle società che non hanno depositato alcun bilancio negli ultimi 3 anni, mentre sono calate dello 0,9% le liquidazioni tra le società di persone. Aumenti a ritmi inferiori rispetto al 2012 per le liquidazioni tra le società di capitale che avevano almeno un bilancio valido nelle ultime tre annualità: sono state quasi 25mila le liquidazioni nei primi nove mesi dell’anno.

Al di là delle rilevazioni Cerved, secondo alcuni osservatori la causa di questo aumento non sarebbe dovuta solo alla crisi economica, ma anche alla legislazione che favorisce chi chiude per non pagare i debiti allo Stato.

Fallimenti, un 2013 nero. Come fare per invertire la tendenza?

di Davide PASSONI

Uno degli aspetti più odiosi che la crisi si porta con sé è quello dei fallimenti per i ritardati pagamenti. In Italia, infatti, sono oltre 3 milioni le imprese che soffrono di problemi di liquidità dovuti al ritardo dei pagamenti. Una cifra pari al 70% del totale. Le perdite per i mancati incassi toccano i 40,5 miliardi di euro all’anno.

Secondo la Cgia di Mestre, le cause di questo orrore tutto italiano vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi che intercorrono nelle transazioni commerciali con le altre imprese e con la Pubblica amministrazione. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 96; nel secondo caso, scandalo degli scandali, si arriva fino a 180 giorni. In entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner economici dell’Ue. Il dato è stato ricavato dalla Cgia elaborando un’analisi condotta da Intrum Justitia.

I problemi legati ai ritardi nei pagamenti, ricorda la Cgia, sono all’origine di una moltitudine di problemi che le piccole imprese devono affrontare quotidianamente. La contrazione nell’erogazione del credito avvenuta in questi ultimi anni di crisi economica, nonché la dilatazione dei tempi con i quali le imprese (soprattutto quelle di piccola dimensione) vengono pagate dai propri committenti, hanno contribuito a mettere sul lastrico moltissime realtà. Grazie all’introduzione dell’Iva per cassa – che dal 1° dicembre di quest’anno consente alle aziende con un fatturato inferiore ai 2 milioni di euro di versare l’Iva allo Stato solo dopo il pagamento avvenuto – e a una legge che dovrebbe ridurre i tempi medi di pagamento, le piccole imprese hanno qualche strumento in più per difendersi in questa fase economica così difficile. Ma la strada da percorrere è ancora lunga, visto che per educare lo stato ladro l’unica vera soluzione sarebbe quella di adottare forme di resistenza civile come lo sciopero fiscale.

Questo è solo uno dei fattori che, ogni anno, portano al fallimento e alla chiusura di migliaia di imprese. Anche questo 2013 non ha fatto eccezione e il 2014 arriva sotto il segno dell’incertezza. Questa settimana Infoiva cercherà di capirne di più.

Nel governo si litiga sulla pelle degli italiani

Nel governo litigano e si fanno le ripicche come i bambini dell’asilo e intanto i rischi che imprese e famiglie corrono se dovesse cadere l’esecutivo per qualche inutile dispetto e sgambetto sono alti, altissimi.

I conti li ha fatti, in questo senso, la Cgia di Mestre: “Nella malaugurata ipotesi che il Premier Letta fosse costretto a rassegnare le dimissioni – dichiara il segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi – gli italiani subirebbero una vera e propria stangata concentrata soprattutto nell’ultimo quadrimestre di quest’anno. Tra il pagamento dell’Imu sulla prima casa, l’aumento dell’Iva e l’applicazione della Tares si troverebbero a pagare oltre 7 miliardi di euro in più. In una fase economica così difficile e con il tasso di disoccupazione destinato a crescere ulteriormente, molte famiglie non sarebbero in grado di reggere questo choc fiscale”.

Considerando che entro la fine di quest’estate il Governo Letta deve definire l’applicazione di Imu, Iva e Tares, nel caso la maggioranza di Governo non dovesse reggere ecco il rischio che si corre:

IMU: i proprietari della prima casa dovranno versare entro il 16 settembre la prima rata IMU e a dicembre il saldo. Anche i proprietari di terreni, fabbricati rurali e alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative a proprietà indivisa adibite ad abitazione principale saranno chiamati al pagamento dell’imposta. Pertanto, ai 4 miliardi di Imu relativi all’abitazione principale se ne aggiungono altri 770,6 milioni di euro;

IVA: dal 1° ottobre è previsto l’aumento dell’aliquota ordinaria Iva che salirà dal 21 al 22%. Per i soli tre mesi di quest’anno saremmo chiamati a pagare un miliardo di euro in più;

TARES: è previsto che la nuova imposta sull’asporto rifiuti dia un maggior gettito, rispetto al 2012, di 1,94 miliardi di euro. Un miliardo è dovuto dalla maggiorazione prevista dalla nuova tassa per la copertura dei servizi indivisibili dei Comuni: pertanto, i contribuenti pagheranno 0,3 euro al metro quadrato. I restanti 943 milioni di euro sono stati da noi stimati quale aggravio minimo corrispondente alla differenza tra il costo del servizio di smaltimento rifiuti (derivante dal bilanci dei Comuni) e il gettito Tia/Tarsu contabilizzato l’anno scorso. Si ricorda che il gettito della Tares deve assicurare l’integrale copertura del costo di asporto e smaltimento dei rifiuti, obbligo che la Tarsu non prevedeva.