CGIA: “L’aumento dell’Iva è un dramma per il made in Italy”

Martedì l’aliquota ordinaria dell’Iva è salita alla percentuale record del 22% e l’Ufficio studi della CGIA di Mestre ha individuato, sulla base della spesa media annua delle famiglie italiane, quali saranno i prodotti ed i servizi che subiranno i maggiori aggravi.

Al vertice di questa drammatica classifica troviamo i mobili, gli elettrodomestici e la manutenzione della casa. A fronte di una spesa annua delle famiglie italiane pari a 68,5 miliardi di euro, l’aumento dell’Iva comporterà un aggravio annuo di queste voci di 567 milioni di euro. Al secondo posto troviamo l’abbigliamento e le calzature. Con una spesa famigliare annua pari a 66,5 miliardi di euro, il ritocco dell’Iva porterà un gettito aggiuntivo di 550 milioni di euro, pari al 19,3% del maggior gettito totale atteso.

A subire l’aggravio più pesante – dichiara Giuseppe Bortolussi segretario della CGIAsaranno gli acquisti dei prodotti made in Italy che costituiscono l’asse portante del nostro manifatturiero. Pertanto, il probabile calo dei consumi che interesserà queste voci avrà degli effetti molto negativi anche sulla miriade di piccole e medie imprese che già oggi operano in condizioni di grave difficoltà a seguito di una tassazione a livelli record, ad una burocrazia eccessiva ed asfissiante e di una crisi che continua a produrre i suoi effetti negativi”.

Bortolussi: “L’aumento dell’Iva? Da scongiurare subito”

Torna all’attacco il segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi, giudicando sbagliata l’idea che evitare l’imminente aumento dell’Imposta sul valore aggiunto non costituisca una priorità per il Paese, perché “con una pressione fiscale che quest’anno toccherà il suo record storico, evitare qualsiasi nuovo aumento della tassazione, tra cui quello dell’Iva, costituisce un’assoluta priorità” per l’esecutivo guidato da Enrico Letta.

Bortolussi concorda sul fatto che evitare l’aumento dell’Iva “non risolverà tutti i problemi”, ma tuttavia, se l’aumento verrà confermato, la decisione “contribuirà a peggiorare il quadro economico” esistente. In conclusione il segretario aggiunge: “Chi ritiene che non sia così, probabilmente non ha compreso che se tra qualche giorno aumenterà l’aliquota ordinaria dell’Iva, i consumi delle famiglie saranno destinati a diminuire ulteriormente e ricordo che il 98% delle imprese italiane ha meno di 20 addetti e la stragrande maggioranza di queste produce o vende i propri servizi per il mercato interno. Se l’aumento dell’Iva non sarà evitato, quest’ultime risentiranno pesantemente degli effetti negativi di tale scelta”.

Ciao Imu, la vera stangata arriva dalla Tares

Per tanti motivi l‘abolizione dell’Imu è stata ed è uno specchietto per le allodole. Intanto, la cosiddetta “service tax” che la sostituirà colpisce una platea più vasta ed è quindi facile che faccia aumentare il carico complessivo aumenti o che il benessere della popolazione diminuisca; così è accaduto con la prima eliminazione dell’Ici, pagata con riduzione dei trasferimenti agli enti locali e un comprensibile peggioramento dei servizi, oltre aumento all’aumento delle tasse locali.

Poi distoglie l’attenzione da altre tasse come la Tares, che debutta quest’anno sostituendo la Tarsu o la Tia: una stangata, soprattutto per gli imprenditori.

Secondo quanto stima la Cgia di Mestre, rispetto al 2012, gli aumenti medi stimati per l’anno in corso saranno molto pesanti:

• su un capannone di 1.200 mq l’aggravio sarà di 1.133 euro (+22,7%);
• su un negozio di 70 siamo a 98 euro in più (+19,7%);
• su una abitazione civile di 114 mq, l’applicazione della Tares comporterà un aumento di spesa di 73 euro (+29,1%).

La Tares dovrà infatti assicurare un gettito capace di coprire interamente il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, cosa non prevista con l’applicazione della Tarsu. Poi è prevista una maggiorazione su tutti gli immobili pari a 0,3 euro al metro quadrato, con la quale si finanzieranno i servizi indivisibili dei Comuni quali l’illuminazione pubblica, la pulizia e manutenzione delle strade.

Dato preoccupante emerso dall’analisi dei bilanci dei Comuni italiani sul 2010 effettuata dalla Cgia è che lo scostamento tra quanto incassato con la Tarsu/Tia e il costo del servizio di raccolta e smaltimento ammonta a circa 0,9 miliardi di euro. Un dato sottodimensionato, dice l’associazione mestrina: nell’analisi mancano infatti i dati relativi alla Valle d’Aosta, inoltre non si è potuto tener conto del fatto che alcune Amministrazioni comunali esternalizzano il servizio di smaltimento dei rifiuti a società collegate.

Secondo il segretario della Cgia di Mestre Giuseppe Bortolussiquesta situazione rasenta il paradosso. Con la crisi economica e il conseguente calo dei consumi, le famiglie e le imprese hanno prodotto meno rifiuti. Inoltre, grazie all’aumento della raccolta differenziata avvenuto in questi ultimi anni un po’ in tutta Italia, il costo per lo smaltimento degli stessi è diminuito. Detto ciò, con meno rifiuti e con una spesa per lo smaltimento più contenuta tutti dovrebbero pagare meno. Invece, con la Tares subiremo un ulteriore aggravio della tassazione”.

Nel governo si litiga sulla pelle degli italiani

Nel governo litigano e si fanno le ripicche come i bambini dell’asilo e intanto i rischi che imprese e famiglie corrono se dovesse cadere l’esecutivo per qualche inutile dispetto e sgambetto sono alti, altissimi.

I conti li ha fatti, in questo senso, la Cgia di Mestre: “Nella malaugurata ipotesi che il Premier Letta fosse costretto a rassegnare le dimissioni – dichiara il segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi – gli italiani subirebbero una vera e propria stangata concentrata soprattutto nell’ultimo quadrimestre di quest’anno. Tra il pagamento dell’Imu sulla prima casa, l’aumento dell’Iva e l’applicazione della Tares si troverebbero a pagare oltre 7 miliardi di euro in più. In una fase economica così difficile e con il tasso di disoccupazione destinato a crescere ulteriormente, molte famiglie non sarebbero in grado di reggere questo choc fiscale”.

Considerando che entro la fine di quest’estate il Governo Letta deve definire l’applicazione di Imu, Iva e Tares, nel caso la maggioranza di Governo non dovesse reggere ecco il rischio che si corre:

IMU: i proprietari della prima casa dovranno versare entro il 16 settembre la prima rata IMU e a dicembre il saldo. Anche i proprietari di terreni, fabbricati rurali e alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative a proprietà indivisa adibite ad abitazione principale saranno chiamati al pagamento dell’imposta. Pertanto, ai 4 miliardi di Imu relativi all’abitazione principale se ne aggiungono altri 770,6 milioni di euro;

IVA: dal 1° ottobre è previsto l’aumento dell’aliquota ordinaria Iva che salirà dal 21 al 22%. Per i soli tre mesi di quest’anno saremmo chiamati a pagare un miliardo di euro in più;

TARES: è previsto che la nuova imposta sull’asporto rifiuti dia un maggior gettito, rispetto al 2012, di 1,94 miliardi di euro. Un miliardo è dovuto dalla maggiorazione prevista dalla nuova tassa per la copertura dei servizi indivisibili dei Comuni: pertanto, i contribuenti pagheranno 0,3 euro al metro quadrato. I restanti 943 milioni di euro sono stati da noi stimati quale aggravio minimo corrispondente alla differenza tra il costo del servizio di smaltimento rifiuti (derivante dal bilanci dei Comuni) e il gettito Tia/Tarsu contabilizzato l’anno scorso. Si ricorda che il gettito della Tares deve assicurare l’integrale copertura del costo di asporto e smaltimento dei rifiuti, obbligo che la Tarsu non prevedeva.

La benzina è cara? Colpa del Fisco

Il prezzo dei carburanti sta lievitando in questi ultimi giorni e, se gli automobilisti si lamentano, ne hanno ben donde.
A confermare i dubbi circa i listini esageratamente gonfiati di benzina e diesel, infatti, è intervenuta la Cgia di Mestre che, comparando i prezzi dei carburanti in tutta Europa, confermano che la benzina, Olanda a parte, è la più cara di tutte, a causa di accise e Iva che incidono sul prezzo alla pompa per il 59%, mentre sul diesel per il 55%.
Nessuno fa peggio di noi, invece, per quanto riguarda il diesel: non si trova Pese europeo dove il gasolio costa di più. E anche in questo caso il colpevole numero uno è il fisco.

A seguito di queste considerazioni, ecco la situazione dei prezzi dei carburanti di oggi.
Le medie nazionali vedono la benzina viaggiare a quota 1,829 cent7litro, mentre il diesel è a 1,732.
A livello paese, invece, i prezzi oscillano, per la benzina, da 1,819 di Eni a 1,832 cent/litro di Tamoil.
Il diesel, invece, viene proposto oggi da 1,720 di Eni a 1,739 cent/litro sempre di Tamoil.

Vera MORETTI

Approfittare dei saldi per scongiurare l’aumento dell’Iva

In periodo di crisi, che potrebbe essere aggravato dall’aumento dell’Iva, per ora rimandato ma ancora incombente su di noi, la stagione dei saldi, da molti guardata con diffidenza, potrebbe rappresentare una vera ancora di salvezza.
Il motivo è presto detto: ad essere penalizzate dal probabile aumento dell’aliquota saranno, come sempre, le famiglie meno abbienti, che vedranno il loro potere d’acquisto ancora più ridotto. Per questo, approfittare dei ribassi rappresenterebbe una ghiotta opportunità.

A dimostrarlo, con uno studio dettagliato, è la Cgia di Mestre, che ha simulato l’incidenza percentuale dell’aumento Iva sullo stipendio annuo di un capo famiglia. Ciò che ne deriva è che l’incidenza sarebbe maggiore negli stipendi più bassi, mentre coloro che percepiscono salari annui cospicui quasi non si accorgerebbero della differenza.
Tra i nuclei famigliari, poi, quelli più numerosi subiranno gli aggravi maggiori.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, ha commentato così i risultati della ricerca. “Bisogna assolutamente trovare la copertura per evitare questo aumento, non si possono penalizzare le famiglie ed in particolar modo quelle più in difficoltà. Nel 2012 la propensione al risparmio è scesa ai minimi storici. Se dal primo ottobre l’aliquota ordinaria del 21% salirà di un punto, subiremo un ulteriore contrazione dei consumi che peggiorerà ulteriormente il quadro economico generale. E’ vero che l’incremento dell’Iva costa 4,2 miliardi di euro all’anno, ma questi soldi vanno assolutamente trovati per non fiaccare la disponibilità economica delle famiglie e per non penalizzare ulteriormente la domanda interna”.

Nelle simulazioni effettuate, tre diverse a seconda della tipologia del nucleo famigliare (single, lavoratore dipendente con moglie e un figlio a carico, lavoratore dipendente con moglie e 2 figli a carico), sono stati presi in esame 7 fasce retributive: in relazione alla spesa media risultante dall’indagine Istat sui consumi delle famiglie italiane, su ognuna è stato misurato l’aggravio di imposta in termini assoluti e l’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva su ogni livello retributivo.

In queste simulazioni si sono tenute in considerazione le detrazioni e gli assegni familiari per i figli a carico, le aliquote Irpef e le addizionali regionali e comunali medie nazionali. A seguito dell’aumento dell’aliquota Iva al 22%, si è ipotizzata una propensione al risparmio nulla per la prima fascia di reddito, pari al 2,05% per il reddito annuo da 20.000 euro, del 4,1% per quella da 25.000 euro e dell’ 8,2% per le rimanenti fasce di reddito. Quest’ultima percentuale corrisponde al dato medio nazionale calcolato dall’Istat nell’ultima rilevazione su base nazionale.

Cosa significa ciò? Che a ridurre le spese saranno le famiglie appartenenti a fasce di reddito medio-alte, quelle che rappresentano la maggioranza in Italia.

Per prevenire una situazione ancora più critica, dunque, si potrebbe, a questo punto, ricorrere ai saldi per fare le proprie spese. Da quasi una settimana, ormai, i negozi vendono i loro prodotti a metà prezzo: lasciarsi perdere questa occasione sarebbe un vero peccato.

Vera MORETTI

Santi, navigatori e burocrati

All’ultima assemblea generale di Confartigianato il presidente Giorgio Merletti è stato chiaro: “Le imprese italiane corrono contromano e a occhi bendati e sembra si faccia di tutto per spingerci oltre confine per trovare condizioni normali per fare impresa: il fisco italiano tassa il 68,3% degli utili lordi d’impresa, in Svizzera appena il 30,2%“.

Un’accusa durissima e circonstanziata, basata su cifre reali. Secondo Merletti, chi dovrebbe determinare le sorti dell’Italia “non comprende che l’artigianato e le piccole imprese sono il cuore, le mani e l’intelligenza del made in Italy” e che tasse e burocrazia le stanno uccidendo.

Dall’inizio della legislatura tecnica a oggi, il Parlamento ha approvato ben 491 norme a contenuto fiscale, ciascuna corredata da decreti attuativi e circolari esplicative. Una zavorra che, secondo Merletti, “non possiamo più permetterci il lusso di indossare la maglia nera in Europa per la pressione fiscale e burocratica. Vorremmo cominciare a scalare la classifica. E non diteci che non ci sono risorse per cambiare le cose. Molti interventi si possono fare a costo zero. Però bisogna volerlo“.

Sul fronte della burocrazia, nell’ultimo anno le Pmi italiane hanno buttato in oneri amministrativi la bella cifra di 31 miliardi e l’ultimo anno e mezzo è stato particolarmente difficili per le imprese e per il Paese. Da metà novembre 2011 a giugno 2013 il numero delle aziende italiane è calato dell’1%, pari a circa 60mila imprese, 44mila delle quali artigiane per un calo pari al 3%. Un calo che, secondo Confartigianato, è legato a quello del Pil (-3,4%), del credito alle imprese (-6,4%) e inversamente proporzionale (guarda un po’…) all’incremento del debito pubblico (+6,4%).

Grandi alleate della burocrazia sono le tasse. Secondo un rapporto dell’Ufficio studi di Confartigianato, nel 2013 gli italiani ne pagheranno 38 miliardi in più, vale a dire 639 euro di maggiori imposte pro capite, rispetto alla media dei cittadini dell’eurozona. Il divario tra Italia ed Europa è dato dall’aumento della pressione fiscale che quest’anno in Italia raggiungerà il 44,6% del Pil: 2,4 punti in più rispetto al 42,1% registrato nella media dei Paesi dell’eurozona. Ma c’è dell’altro. Secondo il rapporto, se si considera il mancato gettito dell’economia sommersa, la pressione fiscale effettiva sale al 53,4% del sempre peggio. Torniamo a dire: come si fa a fare impresa così?

La burocrazia si mangia 100 giorni di lavoro all’anno

In un mondo perfetto gli imprenditori dovrebbero lavorare, fare business, produrre ricchezza e benessere. Nel mondo e nel Paese imperfetto nel quale viviamo perdono tempo, un sacco di tempo, a sbrogliare pratiche burocratiche.

La conferma arriva da Coldiretti, che in un’analisi ha stimato come nelle aziende la burocrazia faccia perdere fino a 100 giorni di lavoro all’anno che vengono sottratte all’attività di impresa per l’innovazione e la ricerca di nuovi mercati, in un difficile momento di crisi.

Nell’analisi si evidenzia anche come la burocrazia rappresenti uno dei fattori indicati come principale ostacolo dai giovani che vogliono aprire una attività agricola. La situazione, secondo Coldiretti, è particolarmente grave, ad esempio, in uno dei settori simbolo del made in Italy come il vino dove, dalla produzione di uva fino all’imbottigliamento e vendita, le imprese devono assolvere a oltre 70 attività burocratiche e relazionarsi con 20 diversi soggetti: dal ministero delle Politiche agricole alle Regioni, dalle Province ai Comuni, fino ad Agea, Organismi pagatori regionali, Agenzia delle Dogane, Asl, Forestale, Ispettorato Centrale qualità e repressione frodi, Nac, Guardia di Finanza, Nas, Camere di Commercio, organismi di controllo, consorzi di tutela, laboratori di analisi. Giusto quattro gatti…

Secondo l’associazione, il peso della burocrazia è anche nella quantità di norme di settore del vino: sono oltre 1000, contenute in circa 4000 pagine di direttive, regolamenti, comunicazioni, note e decisioni del Consiglio e della Commissione europea, leggi, decreti, provvedimenti, note, circolari e delibere nazionali e regionali.

Il carico sovrumano rischia ora di gravare ancora di più sulle imprese, con la messa a regime del nuovo sistema di certificazione e controllo dei vini a Denominazione. Secondo Coldiretti, “dimezzare il tempo perso dalle imprese con la burocrazia, attuando misure per un rapido processo di digitalizzazione della PA, per il coordinamento delle competenze nazionali e regionali, per l’unificazione di tutti gli adempimenti burocratici nel fascicolo aziendale” è uno degli obiettivi principali da perseguire, come illustrato nel documento “L’Italia che vogliamo”, presentato a tutti i gruppi politici.

La burocrazia costa alle Pmi 7000 euro all’anno

Chiedete al primo imprenditore con cui vi capita parlare qual è la cosa che lo terrorizza di più nel suo lavoro… La risposta non potrà che essere: la burocrazia. Una guerra quotidiana con carte e scartoffie, con timbri e autorizzazioni che costa ogni anno alle Pmi 31 miliardi di euro, pari a 7000 euro ad azienda.

I conti li ha fatti l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, su dati della Presidenza del Consiglio dei Ministri aggiornati al 31 dicembre 2012. Rispetto agli anni scorsi le cifre crescono perché, come ha detto il segretario della Cgia mestrina Giuseppe Bortolussi, sono state scoperte nuove “sacche di burocrazia”. Negli ultimi anni il legislatore ha approvato una serie di misure per combattere queste sacche che, una volta a regime, dovrebbero far risparmiare alle imprese quasi 8,5 miliardi di euro.

La Cgia spera che con il nuovo decreto sulla semplificazione appena presentato il vantaggio economico possa diventare operativo in tempi brevi. Secondo Bortolussi, “31 miliardi di euro corrispondono a 2 punti di Pil circa: una cifra spaventosa. La burocrazia è diventata una tassa occulta che sta soffocando il mondo delle Pmi. Nonostante gli sforzi e qualche buon risultato ottenuto, i tempi rimangono troppo lunghi e il numero degli adempimenti richiesti continua ad essere eccessivo“.

Spacchettando i dati dello scandalo, il settore che incide di più sui bilanci delle aziende è quello del lavoro e della previdenza (9,9 miliardi di euro l’anno, 2.275 euro a impresa). Seguono i costi per le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (4,6 miliardi, 1.053 di euro per azienda), il settore dell’edilizia (4,4 miliardi, 1.016 di euro per azienda), l’area ambientale (3,4 miliardi, 781 di euro per azienda), gli adempimenti fiscali (2,7 miliardi, 632 di euro per azienda), la privacy (2,6 miliardi, 593 di euro per azienda), la prevenzione incendi (1,4 miliardi, 323 di euro per azienda), gli appalti (1,2 miliardi) e la tutela del paesaggio e dei beni culturali (0,6 miliardi, 142 di euro per azienda).

Come pretendiamo che i nostri imprenditori riescano a fare business se sono presi da questo gorgo di superficialità?

Iva killer. Prime vittime le famiglie, poi le imprese

Chi pagherà l’aumento dell’Iva al 22%? In prima battuta le famiglie e, conseguentemente, le imprese e l’intero sistema produttivo italiano. È quanto ipotizza la Cgia di Mestre, secondo la quale se il Governo non riuscirà a scongiurare l’aumento, gli aggravi di imposta sulle famiglie saranno pesantissimi: 2,1 miliardi di euro nel 2013, 4,2 miliardi nel 2014.

La Cgia stima che, ipotizzando che i comportamenti di consumo delle famiglie italiane misurati secondo le rilevazioni Istat rimangano immutati, per un nucleo costituito da 3 persone l’aggravio medio annuo sarà di 88 euro. Nel caso di un nucleo familiare di 4 persone, l’incremento medio sarà invece di 103 euro.

Visto che per il 2013 l’aumento dell’Iva interesserà solo il secondo semestre, per l’anno in corso gli aumenti di spesa saranno la metà: 44 euro per la famiglia da 3 persone e 51,5 euro per quella da 4.

Quali saranno i principali beni e servizi a rincarare dall’1 luglio? Ricordando che il passaggio dal 21% al 22% dell’Iva ordinaria non inciderà sulla spesa dei beni di prima necessità come alimentari, sanità, istruzione, casa (ai quali si applica l’Iva al 10% o al 4%, o non si applica affatto), la Cgia stima che saranno vino e birra tra le bevande; e poi carburanti, riparazioni dell’auto, abbigliamento, calzature, mobili, elettrodomestici, giocattoli e computer.

Ecco perché, secondo la Cgia, i rincari che peseranno di più sulle famiglie italiane si verificheranno quando si farà il pieno all’auto o la si farà riparare (33 euro all’anno per una famiglia di tre persone, 39 euro per 4 persone), si acquisteranno capi di abbigliamento e calzature (18 euro all’anno per una famiglia di 3 persone, 20 euro per 4) o si acquisteranno mobili, elettrodomestici o articoli per la casa (13 e 17 euro).

Secondo Giuseppe Bortolussi, segretario dell’organizzazione mestrina, “bisogna assolutamente scongiurare questo aumento. Se il Governo Letta non lo farà, corriamo il serio pericolo di far crollare definitivamente i consumi che ormai sono ridotti al lumicino con gravi ripercussioni economiche non solo sulle famiglie, ma anche su artigiani e commercianti che vivono quasi esclusivamente della domanda interna. Rispetto al 2011 la riduzione della spesa per consumi delle famiglie italiane è stata del 4,3%, una variazione negativa molto superiore a quella registrata nel biennio 2008-2009, quando, al culmine della recessione, i consumi avevano segnato una caduta tendenziale del 2,6%“.