Niente conto in banca, meglio il materasso

Le banche non rappresentano più una sicurezza per 15 milioni di italiani: questo è il numero di coloro che, invece di depositare i propri soldi presso un istituto di credito, preferisce ricorrere al caro e vecchio materasso.

Si tratta di un ritorno al passato che fa segnare un vero e proprio record europeo.
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia Mestre, che ha emanato questi dati, ha dichiarato: “Questo record europeo è riconducibile a ragioni storiche e culturali ancora molto diffuse in alcune aree e fasce sociali del nostro Paese. Non possiamo disconoscere, ad esempio, che molte persone di una certa età e con un livello di scolarizzazione molto basso preferiscono ancora adesso tenere i soldi in casa, anzi ché affidarli ad una banca”.

Questa tendenza è avvalorata anche dall’abitudine, non ancora in disuso, di ricorrere al pagamento in contanti in molteplici occasioni e ciò porta, ovviamente, alla necessità di avere sempre soldi a portata di mano.
A ciò si somma l’esercito dei pensionati che ricorrono al libretto di risparmio negli uffici postali o che si appoggiano al conto corrente di un familiare.

Ha continuato Bortolussi: “Detto ciò è altresì vero che non sono poche le persone che diffidano delle nostre banche perché ritengono che le spese di gestione di un conto corrente siano troppo elevate. Un’accusa, quest’ultima, che gli istituti di credito respingono da sempre, ritenendo, tra le altre cose, che l’elevato costo sia da attribuire al livello di tassazione raggiunto in Italia. Un peso che non è riscontrabile in nessun altro Paese d’Europa”.

Lo studio della Cgia è stato realizzato su dati della Commissione europea che ha monitorato quanti cittadini europei con più di 15 anni di età non dispongono di un contro corrente bancario.
All’Italia, con quasi 15 milioni di persone senza un conto (pari al 29% degli italiani over 15) seguono Paesi come la Romania, con poco più di 9.860.000 persone (55% dei romeni over 15 ) e la Polonia, con poco meno di 9.700.000 cittadini (30%).
In Francia e nel Regno Unito i cosiddetti ‘unbanked’ sono poco più di un milione e mezzo (pari al 3% della popolazione con più di 15 anni). In Germania, invece, la soglia di coloro che non detengono un conto corrente si abbassa a poco più di un milione e quattrocentomila persone (pari al 2%).

Vera MORETTI

Stop all’Imu sulle case, su l’Imu sui capannoni?

Una delle asimmetricità più evidenti della battaglia sull’Imu che si sta combattendo in questi giorni è quella relativa alle tipologie di immobili che potrebbero essere esentate dal pagamento dell’imposta. Se si va sempre più decisamente verso una sospensione della rata di giugno per le abitazioni principali, capannoni e immobili adibiti ad attività produttive continueranno a pagarla.

Purtroppo però la notizia che circola ultimamente è ancora più devastante per le piccole e medie imprese e per i professionisti: l’eventuale abolizione dell’Imu sulla prima casa potrebbe essere finanziata con l’aumento dell’imposizione sulle attività produttive. Un’ipotesi che ha fatto andare su tutte le furie il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi: “Se fosse confermata, tale ipotesi sarebbe drammatica per le casse di milioni di piccole imprese, che sono sempre più a corto di liquidità. Si pensi che nel passaggio da Ici ad Imu, nel 2012 gli imprenditori hanno visto raddoppiare il prelievo sugli immobili“.

Un aggravio che si somma a quello complessivo del 2013 quando, con l’aumento di 5 punti del coefficiente moltiplicatore dell’Imu (60 a 65 punti), l’imposta sui capannoni costerà alle imprese circa 270 milioni di euro in più rispetto al 2012.

Come sarebbe possibile accettare un ulteriore aumento della tassazione sulle piccole attività, quando il Pil quest’anno registrerà una contrazione del -1,4%, i consumi delle famiglie del -1,6% e la disoccupazione salirà all’ 11,9% – commenta ancora Bortolussi? Oggettivamente, non è possibile pensare di uscire da questa situazione di crisi diffusa se si continuano a penalizzare le imprese“.

A supportare questa conclusione, tanto limpida e banale quanto poco tenuta in considerazione dal governo, la CGIA ricorda che gli alberghi sono stati gli immobili a destinazione produttiva che hanno pagato l’Imu più pesante: mediamente 11.429 euro (+4.740 euro rispetto al 2011). Dopo gli alberghi vengono i 7.325 euro della grande distribuzione (+3.020), i 5.786 euro dei capannoni (+2.385 euro), i 3.352 euro dei piccoli industriali (+1.376), i 1.835 euro degli uffici dei liberi professionisti (+1.030 euro), gli 894 euro dei commercianti (+494 euro) e i 700 euro i laboratori artigianali (+338 euro). Si può andare avanti così?

In aumento i disoccupati anche nel 2013

Le previsioni economiche non lasciano presagire nulla di buono e anche questo 2013 ormai avviato sembra destinato a farsi ricordare come un altro annus horribilis.

Tra i dati più pessimistici e preoccupanti ci sono quelli che riguardano i disoccupati: entro la fine dell’anno in corso, dovrebbero essere circa 520mila i nuovi esclusi dal mercato del lavoro.
Si tratta, ovviamente, di stime approssimative, che si sono basate sull’andamento del mercato di questi ultimi mesi e che potrebbero mutare, e che sono state calcolate dal Cgia di Mestre sulla base del numero di disoccupati e cassaintegrati a zero ore, in aumento rispetto al 2012.
Se le previsioni si confermassero, i cittadini senza lavoro diventerebbero 5.405.800, contro i 4.886.000 di fine 2012.

Giuseppe Bortolussi, segretario del Cgia di Mestre, ha commentato: “Per invertire la tendenza in atto bisogna agire su più fronti: ridurre il costo del lavoro, favorire una maggiore flessibilità che sia accompagnata da misure di sostegno al reddito per i lavoratori occupati a tempo determinato, ma, in particolar modo, assicurare un alleggerimento fiscale e burocratico sulle imprese. Se non aiutiamo soprattutto le miro imprese con meno di 10 addetti, che nel decennio scorso hanno garantito in UE il 58% dei nuovi posti di lavoro, sarà molto difficile abbassare il tasso di disoccupazione che alla fine di quest’anno è dato al 12%1”.

Vera MORETTI

A luglio l’aumento dell’Iva

L’estate si preannuncia calda, non solo per la temperatura, ma anche, e per qualcuno soprattutto, per l’aumento dell’Iva previsto per il prossimo luglio.

La Cgia di Mestre, infatti, effettuando un calcolo sui consumi delle famiglie, ha previsto un incremento di 103 per una famiglia media composta da quattro persone.
Su una famiglia di tre persone, l’incremento sarà di 88 euro.

A meno che il Governo non decida davvero di bloccare l’aumento dell’Iva dal 21 al 22%, dunque, questa operazione avrà un costo complessivo, a carico dei consumatori, di 2,1 miliardi di euro per il 2013 e di 4,2 per il 2012.

Ad aumentare saranno i prezzi di vino e birra, ma anche di carburanti, riparazioni auto, abbigliamento, calzature, mobili, elettrodomestici, giocattoli e computer.
Insomma, tutti beni di servizio sui quali sembra impossibile risparmiare.
Per quest’anno, entrando in vigore l’aumento a luglio, il costo sulle famiglie sarà dimezzato:
44 euro per la famiglia da 3 persone; 51,5 euro per quella da quattro.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dichiarato a proposito: “Bisogna assolutamente scongiurare questo aumento: se ciò non avverrà, corriamo il serio pericolo di far crollare definitivamente i consumi che ormai sono ridotti al lumicino. Questa è una crisi economica che va affrontata dalla parte della domanda: solo incentivando i consumi interni possiamo rilanciare la produzione. Altrimenti, siamo destinati ad accentuare la fase recessiva che comporterà un aumento delle chiusure aziendali e la crescita del numero dei senza lavoro“.

Vera MORETTI

Se i mestieri non tirano più…

Se il mestiere di riparatore di orologi non se la passa benissimo, sono tantissime altre le professioni che non vedono particolari luci nel proprio futuro. E la cosa paradossale è che tante di queste sono in crisi nonostante un aumento continuo della disoccupazione giovanile. Secondo la Cgia di Mestre, buona parte di loro è concentrata nei settori dell’artigianato e dell’agricoltura e potrebbero comportare entro i prossimi 10 anni la perdita di 385mila posti di lavoro ad alta intensità manuale.

Molte professioni storiche presenti nell’artigianato – dice Giuseppe Bortolussi, Segretario della Cgia di Mestrerischiano di scomparire. Non solo perché manca il ricambio generazionale, ma anche perché non sono più redditizie o non hanno più mercato. Oberati da tasse e da una burocrazia sempre più asfissiante, molte imprese chiudono i battenti, lasciando dei vuoti culturali che rischiamo di non riuscire più a colmare, nonostante la crisi abbia avvicinato molti giovani a queste attività“.

Queste le professioni a rischio individuate dalla Cgia: pellettieri, valigiai, borsettieri, falegnami, impagliatori, muratori, carpentieri, lattonieri, carrozzieri, meccanici auto, saldatori, armaioli, riparatori di orologi, odontotecnici, tipografi, stampatori offset, rilegatori, riparatori radio e Tv, elettricisti, elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria, sarti, materassai, tappezzieri, dipintori, stuccatori, ponteggiatori, parquettisti e posatori di pavimenti. Nel settore dell’agricoltura, invece, si rischia di non trovare più gli allevatori di bestiame nel settore zootecnico e i braccianti agricoli.

Per estrapolare questi dati, la Cgia ha calcolato il numero di occupati presenti oggi nelle principali professioni manuali compresi nella fascia di età 15-24 anni e in quella 55-64 anni. Poi ha misurato il tasso di ricambio, stilando una prima graduatoria per mestieri. Infine, ha stimato il numero delle figure che presumibilmente verranno a mancare nei prossimi 10 anni per ciascuna attività.

Premesso che non siamo in grado di prevedere se nei prossimi anni cambieranno i fabbisogni occupazionali del mercato del lavoro italiano – conclude Bortolussisiamo comunque certi di tre cose. La prima: fra 10 anni la grandissima parte degli over 55 censiti in questa mappa lascerà il lavoro per raggiunti limiti di età. La seconda: vista la contrazione delle nascite avvenuta in questi ultimi decenni, nel prossimo futuro si ridurrà ancora di più il numero dei giovani che entreranno nel mercato del lavoro, accentuando così la mancanza di turn-over. La terza: visto che i giovani ormai da tempo si avvicinano sempre meno alle professioni manuali, riteniamo che il risultato ottenuto in questa elaborazione sia molto attendibile“.

Debiti PA, ma lo Stato paga o dorme?

Fin da subito sono state molte le analisi critiche fatte al decreto sbloccacrediti. Nonostante l’iter complesso che ha portato alla sua nascita (o forse proprio per questa complessità…), in tanti hanno voluto vederci chiaro. Tra di loro la Cgia di Mestre, una delle prime, tramite il suo segretario, Giuseppe Bortolussi, a fare quattro conti e un po’ di stime sulla distribuzione delle risorse che lo Stato moroso dovrebbe versare alle imprese.

L’analisi di Bortolussi è tagliente: “Al netto dei 6,5 miliardi di rimborsi fiscali – tasse che i contribuenti italiani hanno ‘pagato in più’ – e dei 26 miliardi di euro che il Ministero dell’Economia e delle Finanze farà confluire in un apposito fondo a disposizione degli Enti locali e delle Regioni prive di liquidità, risorse che dovranno comunque essere recuperate tra le pieghe dei loro bilanci e restituite con gli interessi, pare di capire che l’Amministrazione centrale metterà a disposizione solo 500 milioni di euro all’interno del pacchetto relativo all’allentamento del Patto di stabilità interno“.

Prendendo come buona la stima di 91 miliardi di euro quale debito della Pubblica Amministrazione nei riguardi delle imprese, la Cgia è comunque convinta che siano molti di più: nell’indagine campionaria della Banca d’Italia non si tiene infatti conto delle imprese al di sotto dei 20 addetti, che costituiscono il 98% di tutte le aziende presenti in Italia e di quelle operanti nei servizi sociali e sanitari. Inoltre, l’indagine è limitata al 31-12-2011. Quindi, dei 91 miliardi di debito complessivo, ben 44 miliardi sono in capo a Regioni ed Asl mentre gli altri 47 miliardi si distribuiscono tra Comuni, Province e Stato centrale.

“Purtroppo – conclude Bortolussi –, dalle stime della Banca d’Italia non è possibile misurare quant’è il debito da attribuire all’Amministrazione centrale. Tuttavia, non c’è sicuramente proporzione tra lo sforzo richiesto alle Regioni, alle Asl ed agli Enti locali e quello che dovrà fare lo Stato centrale, visto che di suo sborserà, in questa prima fase, solo 500 milioni di euro“. Alla faccia dei proclami a effetto…

In aumento l’apertura di nuove partite Iva

Le agevolazioni fiscali e le srls a 1 euro introdotte dal Governo nel 2012 hanno favorito l’apertura di nuove partite iva.

Complice anche la crisi, che ha lasciato molti lavoratori senza lavoro, nell’anno appena trascorso sono state aperte 549.000 nove partite Iva, il 2,2% in più rispetto al 2011.
Di queste, il 38,5%, pari a 211.500, sono state aperte da giovani con meno di 35 anni, per un incremento, in questa fascia ‘età, dell’8,1%.

A rendere noti questi dati, che testimoniano come, di fronte a una situazione di estrema criticità, l’Italia giovane non è stata a guardare, è la Cgia di Mestre, su dati del ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento delle Finanze.

L’incremento maggiore è stato registrato al Sud, con il 37,8% del totale, mentre l’aumento del numero di partite Iva riconducibili a donne under 35 è stato del 10,1%.

Vera MORETTI

Redditometro, i dubbi di tributaristi e artigiani

di Davide PASSONI

Come c’era da aspettarsi, non sono mancate le prese di posizione contro il redditometro da diverse associazioni professionali e di categoria. Quando non si tratta di veri e propri attacchi, ci si trova comunque di fronte a perplessità o, quantomeno, a inviti alla cautela.

Come dimostra l’Istituto Nazionale Tributaristi il cui presidente, Riccardo Alemanno, sottolinea come “ogni strumento che possa fare emergere imponibile sottratto a tassazione è da accogliere positivamente, quindi anche la nuova versione del cosiddetto redditometro può essere estremamente utile nella lotta all’evasione fiscale“.

Chiarito ciò, Alemanno mette in guardia dalle inevitabili difficoltà applicative del nuovo strumento informatico, soprattutto laddove viene richiesto al contribuente di documentare spese ed investimenti, di giustificare tutte le forme di reddito o comunque di entrate di denaro. “Senza volere entrare nel merito dal punto di vista giuridico, uno strumento che sicuramente burocratizzerà la vita delle famiglie, ma il cui fine, ovvero fare emergere i redditi non dichiarati, è sicuramente condivisibile anche per il mantenimento e possibilmente dell’incremento degli aiuti al welfare“.

Naturalmente, secondo Alemanno, un giudizio ponderato potrà essere dato solo avere provato, nel concreto e con casi reali il nuovo strumento di controllo. Ai cittadini dovrà essere dato un congruo periodo di tempo per recuperare i documenti giustificativi di investimenti, reddito e spesa. “Inoltre sarà fondamentale il ruolo delle banche dati delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici nonché degli istituti di credito: la loro capacità di incrociare dati e documenti potrebbe sollevare il contribuente dal presentare documentazione già in loro possesso, cosa che nel recente passato ha invece incontrato grosse problematiche“.

Insomma uno strumento che “se serve a colpire chi possiede beni di lusso ed ha un alto tenore di vita ma dichiara redditi bassi, senza fornirne giustificazione, ben venga; se invece si tramuterà in una sorta di controllo della vita delle persone e delle famiglie, allora vorrebbe dire che se ne è sbagliato l’uso“.

Anche la Cgia di Mestre ha recentemente sollevato qualche perplessità sugli esiti che il redditometro dovrebbe originare. Secondo l’associazione mestrina, che ha analizzato con attenzione la “Relazione Tecnica” al DL n° 78/2010 del 31 maggio 2010, che ha dato origine al nuovo redditometro, con la sua applicazione l’erario dovrebbe incassare nel 2013 quasi 815 milioni di euro: 100 milioni grazie all’attività accertativa e altri 715 circa per mezzo della dissuasione che provocherà nei confronti dei contribuenti. Insomma, come direbbero gli americani… peanuts, noccioline, a confronto con le cifre vere dell’evasione in Italia.

Ci rendiamo conto che stiamo parlando di effetti economici sulle entrate poco più che marginali – ha infatti tuonato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre –? Con l’applicazione del Redditometro abbiamo gettato nel panico milioni di famiglie italiane per nulla. Sia chiaro: io spero che il redditometro stani gli evasori totali, colpisca chi le tasse non le paga, ma se le previsioni di incasso sono queste, concentrate per la stragrande maggioranza sull’autotassazione, il pericolo che il redditometro tradisca le aspettative è molto probabile“. E avanti così…

Imu? C’è chi non l’aumenta

Da quando è stata introdotta dal governo Monti, l’Imu è stata sempre accompagnata da polemiche e pessime notizie. Per fortuna, oggi, di notizia ne arriva una buona. Secondo un’indagine effettuata dalla Cgia di Mestre, nelle grandi città un sindaco su due (il 49,4%) non aumenterà l’aliquota base dell’Imu sulla prima casa, pari oggi al 4‰. Altri 35 colleghi, invece (il 43,2% del campione), l’alzeranno l’aliquota, mentre in soli 6 comuni (il 7,4% del totale) sarà diminuita: i comuni “marziani” sono, nel dettaglio Biella, Lecce, Mantova, Nuoro, Trieste e Vercelli.

L’indagine dell’associazione mestrina è stata effettuata su un campione di 81 capoluoghi di provincia (prima del recente riassetto del governo), esaminando le delibere relative ai comuni pubblicate sul sito del Dipartimento delle Finanze, con dati aggiornati al 26 ottobre 2012: cinque giorni prima della scadenza entro la quale tutti i Comuni hanno deliberato l’aliquota per calcolare la seconda o la terza rata dell’imposta, in pagamento entro metà dicembre.

La Cgia è anche entrata nel dettaglio dei tartassati. Secondo i calcoli, per un’abitazione di tipo civile A2 i più tartassati dall’Imu sulla prima casa saranno i torinesi, con un importo medio della seconda rata pari a 718 euro (totale annuo 1.055 euro). Poi Genova, con una seconda rata pari a 561 euro (totale annuo 902 euro). Medaglia di bronzo (bella soddisfazione…) per Bologna: seconda rata da 440 euro e totale annuo a 879.

Commenta così Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia mestrina: “Visto che il 76,3% delle famiglie italiane sono proprietarie dell’abitazione in cui risiedono, l’Imu è vissuta con ansia, vuoi per le ristrettezze economiche in cui vive gran parte dei contribuenti italiani, vuoi per il fatto che negli ultimi 4 anni l’imposta sulla prima abitazione non era dovuta. Ora, che tutti i Comuni hanno deliberato l’aliquota da applicare sulla prima casa, 18 milioni di famiglie italiane stanno ricominciando a fare i conti per capire quanto dovranno pagare di saldo entro il prossimo 16 di dicembre. […] La situazione non è ancora definitiva. Il Governo si è riservato la facoltà di variare l’aliquota base addirittura entro il 10 dicembre 2012: solo 6 giorni prima del termine del pagamento del saldo. E’ da augurarci che a ridosso della scadenza non ci venga richiesto un ulteriore ritocco che metterebbe ancor più in difficoltà i magri bilanci delle famiglie italiane“.

La Cgia ribadisce l’importanza delle Regioni

Lo scandalo della Regione Lazio ha portato molti a desiderare che le Regioni, come istituzioni, vengano abolite. Non bastasse l’astio per le province…

Per questo, l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha condotto uno studio che pone l’attenzione, al contrario, sull’importanza di esse.
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha inoltre ricordato come, se in precedenza i poteri delle Regioni, benchè citati dalla Costituzione, fossero in effetti gestiti dallo Stato, ora il potere è decentrato ad ogni regione singola, come conseguenza della riforma del 2001.

Lo Stato, da allora, detiene le redini di giustizia, difesa, politica estera, mentre le Regioni detengono i poteri su tutte quelle funzioni non riservate esplicitamente riservate allo Stato. In un decennio, le Regioni italiane hanno speso hanno speso 89 miliardi di euro in più, a fronte di una crescita della spesa del 74,6%, considerando l‘aumento dell‘inflazione fino al 23,9%. Ben 49,1 miliardi sono andati alla sanità.

Bortolussi, pur riconoscendo sprechi, sperperi ed inefficienze, che andrebbero il più possibile monitorati ed eliminati, ha dichiarato che “nell’ultimo decennio l’aumento della spesa delle Regioni è imputabile al nuovo ruolo istituzionale conferito loro e dalle nuove competenze assunte. In primis la gestione e l’organizzazione della sanità, ma anche dell’industria e del trasporto pubblico locale. Vi sono poi alcune materie nelle quali le Regioni hanno oggi una potestà esclusiva, mentre in precedenza dovevano sottostare ai limiti normativi dello Stato. Tra queste ricordo l’artigianato, l’agricoltura, il commercio, la formazione professionale, il turismo e l’ambiente”.

L’impennata delle spese regionali, inoltre, è dovuta anche ad un altro fattore, comune in quasi tutte le Regioni, da Nord a Sud: l’aumento dei costi socio-sanitari che le Regioni hanno dovuto farsi carico a seguito dell’invecchiamento della popolazione ma anche a causa di misure straordinarie adottate per sostenere la popolazione straniera giunta nel nostro Paese. A conferma di ciò è il dato della spesa cresciuta maggiormente in questo ultimo decennio, che riguarda l’assistenza sociale (+154,4%).

A livello di singola Regione, invece, la spesa pro capite più elevata si registra in Valle d’Aosta, con un importo pro capite pari a 13.139 euro. Seguono la Provincia autonoma di Bolzano, con 9.544 euro, e quella di Trento, con 8.860 euro. Le più parsimoniose, invece, sono le Marche, con 2.583 euro di spesa pro capite, la Puglia, con 2.342 euro e la Lombardia, con 2.202 euro.

Vera MORETTI