Male l’inflazione e il credito alle imprese nonostante il QE

L’Ufficio Studi della Cgia ha stilato un bilancio del Quantitative Easing avviata dalla Bce ormai quasi due anni fa, con lo scopo di riportare il tasso di inflazione al 2% e quindi dare un po’ di respiro all’economia italiana, un po’ in affanno.
Ma, nonostante negli ultimi due anni la BCE abbia comprato titoli di Stato per 1.344 miliardi di euro, i risultati del QE non sono stati particolarmente positivi specie, considerando che nell’ultimo anno il livello medio dei prezzi nell’Area dell’euro è cresciuto solo dello 0,3%.

Anche in Germania e in Francia, dove le previsioni di crescita economica per il biennio 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle società non finanziarie sono aumentati negli ultimi 12 mesi, l’inflazione è prossima allo zero mentre in Italia l’inflazione nel 2016 è stata negativa (-0,1%), mentre i prestiti alle imprese sono scesi del 2,4%.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi Cgia, ha dichiarato: “L’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Euro ha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria riducendo il costo del nostro debito pubblico, ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non abbia ottenuto i risultati sperati, tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese non ripartono e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe. Insomma, il bazooka di Draghi non ha sortito gli effetti sperati. Una quota rilevante di questi 222 miliardi di euro sono finiti alle nostre banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale”.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha voluto commentare i risultati del QE e la situazione di difficoltà in cui si trovano le banche: “Le regole si stanno assestando sempre più in alto. Prima l’Europa chiedeva alle banche un patrimonio dell’8 per cento degli impieghi; ora bisogna avere il 10-12 per cento circa. In altre parole, la banca per prestare 100 milioni deve avere un patrimonio di oltre 10-12. L’asticella che varia nel tempo per gli istituti di credito è un problema. Infatti, dura da 2 anni la corsa per adeguarsi alle nuove regole europee, applicate con rigidità e nel periodo peggiore, ovvero nel bel mezzo di una crisi. Al di là delle responsabilità, comunque, rimane un fatto; la nostra economia ha bisogno di un sistema creditizio efficiente e attento ai territori, in particolar modo alle piccole e medie imprese che continuano ad essere l’asse portante della nostra economia”.

Vera MORETTI

La situazione precaria della PA italiana

Che la nostra Pubblica Amministrazione non goda di buona salute, già lo sospettavamo, ma, forse, speravamo che la situazione non fosse proprio disperata.
E invece, confrontata con i paesi europei, ne viene fuori un panorama a dir poco desolante: in pratica, solo Grecia, Croazia, Turchia e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico sono messi peggio di noi, ma il nord Europa per noi rappresenta un esempio inarrivabile.

Si tratta di una speciale classifica che tiene conto di una serie di caratteristiche, a cominciare dalla qualità dei servizi ricevuti, ma anche l’imparzialità con la quale vengono assegnati e la corruzione.
Oltre ai dati medi nazionali, questa indagine consente di verificare anche le performance di ben 206 realtà territoriali. Il risultato finale è un indicatore che varia dal +2,781 ottenuto dalla regione finlandese Åland (1° posto in Ue) al -2,658 della turca Bati Anadolu (maglia nera al 206° posto). Il dato medio Ue è pari a zero.

L’Italia non è presente nelle prime trenta posizioni, per trovare la prima regione italiana si deve scendere al 36esimo posto, con Trento. Di seguito troviamo la Provincia autonoma di Bolzano al 39°, la Valle d’Aosta al 72° e il Friuli Venezia Giulia al 98°. Appena al di sotto della media Ue si posiziona al 129° posto il Veneto, al 132° l’Emilia Romagna e di seguito tutte le altre regioni italiane.

Il Sud ha una situazione particolarmente critica: ben sette regioni si collocano, infatti, nelle ultime 30 posizioni: la Sardegna al 178° posto, la Basilicata al 182°, la Sicilia al 185°, la Puglia al 188°, il Molise al 191°, la Calabria al 193° e la Campania al 202° posto. Solo Ege (Turchia), Yugozapaden (Bulgaria), Istanbul (Turchia) e Bati Anadolu (Turchia), presentano uno score peggiore della Pa campana. Tra le realtà meno virtuose anche una regione del Centro, il Lazio, che si piazza al 184° posto della graduatoria generale.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, ha commentato così questi risultati: “Con una Pa di questo livello gli effetti negativi si fanno sentire anche nel settore privato. Quando ci rapportiamo con il pubblico i ritardi, le informazioni inesatte, le procedure inutilmente complicate o addirittura vessatorie sono all’ordine del giorno. Tutto ciò si traduce in perdite di tempo e di denaro, magari per pagare consulenti in grado di aiutarci ad evadere tutta una serie di pratiche burocratiche spesso ridondanti. Ne risentono sia i comuni cittadini sia le imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, con danni che si ripercuotono sul sistema-Paese”.

Ha aggiunto Renato Mason, Segretario della CGIA: “La sanità al Nord, le forze dell’ordine, molti centri di ricerca e istituti universitari italiani presentano delle performance che non temono confronti in tutta l’Ue. Tuttavia è necessario rendere più efficienti i servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, affinché siano sempre più centrali per il sostegno della crescita, perché migliorare i servizi vuol dire elevare il prodotto delle prestazioni pubbliche e quindi il contributo dell’attività amministrativa allo sviluppo del Paese”.

Vera MORETTI

Debiti delle PA: a quanto ammontano?

La Cgia ha cercato si rispondere al quesito che riguarda i debiti della Pubblica Amministrazione nei confronti dei fornitori, che ancora non sono stati livellati, nonostante l’avvento, ormai due anni fa, della fatturazione elettronica.

Non ci sono dati ufficiali, poiché l’ammontare complessivo del debito viene monitorato solo dalla Banca d’Italia, e si tratterebbe di debiti, nei confronti delle aziende private, di 65 miliardi di euro, anche se si tratta di numeri che ancora non tengono conto del 2016.

Nonostante le cifre siano ancora alte, il fenomeno si è comunque ridotto negli ultimi anni, grazie soprattutto agli interventi messi in campo nel biennio 2013-14. In questo periodo, infatti, sono stati stanziati 56,2 miliardi di euro: agli enti debitori sono stati messi a disposizione 44,6 miliardi di euro (pari al 79 per cento del totale) in quanto alcuni enti non ne hanno fatto richiesta.

I pagamenti, il cui aggiornamento è comunque fermo al 20 luglio 2015, hanno toccato quota 38,6 miliardi, pari a quasi l’86% delle risorse messe a disposizione. Ma, in ogni caso, l’importo del debito rimane ancora spaventoso e non ha eguali nel resto d’Europa.

Qual è il motivo di questi ritardi e di questo debito che sembra destinato a non azzerarsi mai? Renato Mason, segretario della Cgia, punta il dito contro “Le lungaggini burocratiche, il cattivo funzionamento degli uffici pubblici, i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, l’abuso di posizione dominante del committente e la mancanza di liquidità sono le motivazioni che consegnano al nostro Paese la maglia nera in Ue della correttezza nei pagamenti. Nonostante dal 1° gennaio 2013 la legge stabilisca che il pubblico debba pagare entro 30 giorni, salvo non sia un’azienda sanitaria che allora lo può fare entro 60, queste disposizioni continuano a essere spesso disattese, con ricadute molto pesanti soprattutto per le piccole imprese che dispongono di un potere negoziale molto limitato nei confronti degli enti pubblici. Un problema, è bene sottolinearlo, che, purtroppo, non riguarda solo le transazioni commerciali con il pubblico, ma anche tra aziende private. Un malcostume generalizzato che non ha pari nel resto dell’Ue”.

Vera MORETTI

CGIA si oppone all’aumento delle accise sui carburanti

La CGIA ha dichiarato il suo dissenso nei confronti dell’eventuale aumento delle accise sui carburanti ipotizzato dal Governo, poiché ha ricordato che dal 2011 ci sono stati ben sette rincari, che ovviamente hanno contribuiti ad innalzare del 29% le accise sulla benzina e del 46% sul gasolio.

Questo significa che, ogni volta che i cittadini si recano in un’area di servizio, versano al fisco 0,728 euro ogni litro di benzina e 0,617 euro ogni litro di gasolio.

E ovviamente, questi continui ritocchi in eccesso hanno fatto salire sempre di più il presso dei carburanti. Nell’ultima rilevazione del 23 gennaio scorso, il prezzo al litro del gasolio per autotrazione ha toccato in Italia 1,397 euro: tutti gli altri Paesi dell’Area euro presentano dei prezzi nettamente inferiori ai nostri. Rispetto ai principali paesi Ue e di quelli confinanti, il pieno di gasolio costa agli italiani il 10,6% in più rispetto dei francesi, il 17,4% in più rispetto agli sloveni, il 17,5% in più nei confronti dei tedeschi, il 24,2% in più degli austriaci e il 24,3% in più degli spagnoli.

Vera MORETTI

Toh, nel 2017 caleranno le tasse…

L’1 di gennaio è spesso portatore di aumenti e mazzate, ma il 2017 potrebbe essere, sotto il profilo delle tasse, un anno di svolta.

Secondo i calcoli della Cgia, grazie alle novità che scatteranno da Capodanno, a seguito delle decisioni prese con la legge di Bilancio 2017 e con le leggi di Stabilità degli anni precedenti, le famiglie dovrebbero risparmiare circa 2,9 miliardi di tasse e le imprese 4,5.

L’analisi, sottolineano però gli artigiani mestrini, è al netto di un’eventuale manovra correttiva e la quasi totalità delle misure sulle tasse previste nel 2017 non interesseranno allo stesso modo tutti i contribuenti italiani.

Grazie a queste novità – sottolinea il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeola pressione fiscale ufficiale dovrebbe scendere nel 2017 al 42,3%: 0,3 punti in meno di quella registrata nel 2016. Sebbene in calo, siamo comunque ancora lontani dal 41,5% registrato prima della crisi, quando il rapporto debito/Pil, ad esempio, era al 100%: un dato inferiore di oltre 30 punti a quello attuale”.

Per quanto riguarda tasse e famiglie, queste ultime saranno interessate da circa 15 provvedimenti. La più significativa sarà la proroga delle detrazioni per le ristrutturazioni edilizie e il risparmio energetico (607,7 milioni di euro), seguita dal bonus bebè (392 milioni), dai premi di produttività dei lavoratori dipendenti del settore privato (382,3 milioni), dal bonus cultura per i 18enni (290 milioni), dalla mancata proroga del contributo di solidarietà del 3% dovuto dai contribuenti con un reddito sopra i 300mila euro (275,4 milioni), dall’estensione della “no tax area” per i pensionati over 75 (246 milioni).

Sono circa una dozzina, invece, le principali novità fiscali che interesseranno le imprese riducendo le tasse. Le società di capitali, ad esempio, beneficeranno della riduzione dell’aliquota Ires, che passerà dal 27,5 al 24% (con una riduzione del peso fiscale di 2,9 miliardi). Gli imprenditori individuali e le società di persone che opteranno su base volontaria per l’Iri (Imposta reddito impresa) saranno sottoposti a un’aliquota fissa al 24% sugli utili non prelevati in luogo della tassazione Irpef (1,2 miliardi di sgravi). La proroga del maxi ammortamento al 140 per cento e l’iper ammortamento al 150 per cento dell’acquisto di macchinari ad alto contenuto tecnologico consentiranno un risparmio fiscale di 973 milioni di euro.

Inoltre, la proroga fino al 2020 del credito di imposta per la ricerca e lo sviluppo consentirà un risparmio fiscale di 727 milioni di euro. L’alleggerimento fiscale per gli agricoltori, tra cui la cancellazione dell’Irpef sui redditi nel triennio 2017-2019, garantirà invece uno sgravio annuo di 157,6 milioni. Grazie alla riduzione dell’aliquota contributiva al 25%, il popolo delle partite Iva risparmierà 108 milioni di euro di contributi previdenziali.

Dall’altro lato, non sarà più possibile accedere alle agevolazioni dell’Ace (Agevolazione per la crescita economica) per quasi 1,5 miliardi e gli artigiani e i commercianti vedranno aumentare i propri contributi Inps di circa 400 milioni di euro. In totale, la Cgia stima comunque 4,5 miliardi di tasse in meno.

Il mezzo flop del Quantitative Easing

Non sono pochi i dubbi che accompagnano la politica di Quantitative Easing messa in atto dalla Bce da più di un anno e mezzo; ossia, l’acquisto massiccio di titoli di Stato per provare a far ripartire l’economia, riportando il tasso di inflazione al 2%.

I risultati, infatti, sono piuttosto deludenti. Nonostante la Banca Centrale Europea abbia acquistato tramite Quantitative Easing titoli per oltre 1200 miliardi di euro e un’immissione mensile sul mercato di 80 miliardi al mese, gli effetti sull’economia reale ancora non si vedono, con inflazione intorno allo zero e prestiti alle imprese in calo.

Lo conferma un’analisi dell’Ufficio Studi della Cgia dalla quale emerge che, nonostante il Quantitative Easing, il livello medio dei prezzi nell’area euro è cresciuto solo dello 0,2% e i prestiti alle imprese sono calati dello 0,5%.

Una tendenza che interessa anche Paesi più forti del nostro, come Germania e Francia, nei quali le previsioni di crescita economica per il 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle imprese sono cresciuti nell’ultimo anno.

In Italia, la Bce ha acquistato tramite Quantitative Easing titoli di stato per 176,2 miliardi tra il 9 marzo 2015 e il 30 settembre 2016. A fronte di questo sforzo, negli ultimi 12 mesi, l’inflazione si è attestata al -0,1% e i prestiti alle imprese sono addirittura calati: -2,9%, pari a una contrazione di 26,4 miliardi.

Nello specifico, rileva la Cgia, le regioni che hanno risentito di più di questo calo dei prestiti alle imprese, nonostante il Quantitative Easing, sono state Marche (-10,1%), Lazio (-7%), Veneto (-6,6%) e Molise (- 6,3%).

Lucida l’analisi su questo flop del Quantitative Easing operata dal coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, secondo il quale i soldi arrivati dalla Bce sono rimasti nelle casse delle banche invece di essere impiegati per le finalità cui erano destinati.

L’acquisto di titoli del debito pubblico dei Paesi dell’euro – commenta Zabeoha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non stia raggiungendo i risultati sperati tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese sono in costante calo e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe, creando preoccupazione negli operatori e riducendo la fiducia delle imprese. Una quota rilevante di questi 176 miliardi di euro sono finiti agli investitori istituzionali ovvero alle banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale”.

Costi delle banche, mazzata all’italiana

In fondo a ogni luogo comune c’è sempre un minimo di verità. Prendiamo i costi delle banche, per i quali noi italiani ci lamentiamo da sempre, sostenendo che siano fin troppo cari. Ebbene, non è solo un luogo comune ma un dato di fatto.

Lo ha rilevato anche l’Ufficio Studi della Cgia, secondo il quale nel 2015 la percentuale delle commissioni nette sui ricavi delle nostre banche italiane (pari al 36,5%) è stata la più alta d’Europa.

Solo per fare un paragone, tra i principali Paesi Ue, in Francia è stata del 32,9%, in Austria del 27,5%, in Germania del 26,2% e nei Paesi Bassi del 17%.

Nel 2015 i ricavi netti derivanti dalle commissioni bancarie sono arrivati quasi a 30 miliardi di euro, 5 miliardi in più rispetto al 2008, anno di inizio della crisi.

Mazzata nella mazzata, secondo l’Ufficio studi della Cgia nei 7 anni di crisi dal 2008 al 2015, in Italia i costi dei conti correnti, delle carte di credito e degli altri servizi delle banche sono stati ben più elevati che in Europa: +20%, contro il +11,5% del Regno Unito, il +11,1% della Francia, il +6,5% della Spagna.

E ci sono persino Paesi nei quali i costi sono scesi: Germania -4,6%, Belgio -7%, Paesi Bassi addirittura -27%.

Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, c’è qualcosa che non quadra: “Se teniamo conto che con la crisi economica sono cresciute a dismisura le sofferenze in capo alla clientela e la contrazione dei tassi di interesse ha ridotto ai minimi termini i margini di redditività delle nostre banche, queste ultime, appesantite da costi fissi ancora troppo elevati hanno ritenuto più conveniente ridurre gli impieghi, e quindi i rischi, e aumentare i ricavi dalle commissioni sui conti correnti, sui servizi bancomat/carte di credito, i servizi di incasso/pagamento e dalle attività extra creditizie, come la vendita di titoli, valute e strumenti di capitale”.

Una conferma che è nelle cifre. Se dal 2008 al 2015 i ricavi netti delle banche italiane derivanti da operazioni di prestito sono scesi di 13 miliardi (-25,3%), l’incasso derivante dalle commissioni nette è cresciuto di 4,9 miliardi (+20%) e quello relativo alla voce “altri ricavi netti” (attività assicurative o di negoziazione di titoli, valute e strumenti di capitale) è salito di 11 miliardi, con una impennata del 556,5%.

A peggiorare il quadro, secondo la Cgia, anche il fatto che, nonostante siano in costante calo, anche i costi strutturali del nostro sistema bancario rimangono i più elevati d’Europa.

Il segretario della Cgia, Renato Mason, prova a immaginare quelle che potranno essere le strategie future per ovviare al salasso: “In primo luogo bisognerà perseguire uno sviluppo economico meno bancocentrico, anche attraverso l’attuazione di politiche pubbliche di sostegno alle imprese, abbassando i costi energetici, favorendo gli investimenti infrastrutturali, riducendo le tasse, tagliando il cuneo fiscale e incentivando l’internazionalizzazione della nostra economia. In secondo luogo, però, sarà necessario rassicurare gli istituti di credito dal raggiungimento di requisiti patrimoniali eccessivi in modo da rimettere in moto il flusso di denaro verso le imprese, in particolare per le piccole. Inoltre, le banche dovranno ritornare a gestire i propri bilanci con rigore e sobrietà, recuperando la fiducia dei risparmiatori che in questi ultimi anni si è affievolita”.

Artigiani e commercianti bersagliati dai furti

Non bastava la crisi infinita a mettere in ginocchio artigiani e commercianti. A rincarare la dose ci si mettono anche i ladri con i loro furti, almeno stando a quanto rilevato in un’analisi dall’Ufficio studi della Cgia, che ha elaborato i dati in materia forniti dal ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, e dall’Istat

I numeri sono impressionanti. Se, nel complesso, i furti in Italia sono in diminuzione, quelli nelle attività commerciali e nelle botteghe artigiane, circa il 10% del totale dei furti denunciati all’Autorità giudiziaria, sono invece aumentati del 170% negli ultimi 10 anni.

Gli ultimi dati disponibili analizzati dalla Cgia sono relativi al 2014 e, sottolineano gli artigiani mestrini, non è escluso che possano essere ancora peggiorati nel periodo non considerato. Due anni fa si sono registrate 106.500 denunce. Tra furti e “spaccate”, è si sono verificati in media 292 reati di questo tipo al giorno, 12 ogni ora, uno ogni 5 minuti. Il 77,3% dei furti nei negozi rimane impunito.

La Cgia rileva che le regioni con le situazioni più preoccupanti sono la Basilicata (81,4% di delitti impuniti), le Marche (81,7%), la Puglia (82,6%) e la Campania (85,9%).

Le attività più esposte al rischio di furti sono quelle che utilizzano pagamenti in contanti, come i distributori di carburante, le farmacie, gli esercizi pubblici, le gioiellerie/orologerie e le tabaccherie.

Le statistiche dicono anche che nel 2014 gli autori di furti in esercizi commerciali e artigianali che sono stati denunciati o arrestati sono stati poco più di 36.700. Di questi, oltre il 60% era straniero e il 40% circa di nazionalità italiana.

Anche se è molto probabile che i mandanti e i ricettatori siano cittadini italiani – commenta il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA, Paolo Zabeo -, le statistiche evidenziano che i furti negli esercizi commerciali sono sempre più ad appannaggio degli stranieri. Sia chiaro, non è il caso di alimentare alcun allarme sociale e tanto meno forme più o meno velate di intolleranza nei confronti di alcune comunità presenti nel nostro Paese. Tuttavia, a seguito dell’esplosione avvenuta in questi ultimi 10 anni, è auspicabile che il Governo conceda più risorse per contrastare con maggiore efficacia anche questi reati e si consolidi sempre di più l’azione di intelligence tra le nostre forze di polizia e quelle dei paesi di provenienza di questi delinquenti”.

L’impiego sempre più massiccio dei sistemi di videosorveglianza, delle inferriate, delle porte blindate, degli impianti di antifurto e il ricorso agli istituti di vigilanza hanno trasformato moltissime attività economiche in piccoli bunker – conclude Zabeo -; nonostante ciò, le statistiche ci dicono che le attività di prevenzione e di contrasto ai furti non sono riuscite a scoraggiare i malintenzionati. Anzi”.

Italia in deflazione? Ormai è certo

Deflazione è una parola che in pochi vogliono sentire ma che, nei fatti, è il presente dell’Italia. Lo confermano dati relativi ai prezzi al consumo, calati dello 0,2% nel rimo semestre 2016. Secondo un’analisi dell’Ufficio Studi della Cgia, la prospettiva per l’Italia è quella della prima deflazione dal 1959, con la variazione dei prezzi negativa. Con la differenza, ricorda la Cgia, che nel 1959 il Pil italiano era al +7%, mentre oggi si ragione in termini di zerovirgola.

L’Ufficio Studi della Cgia ha analizzato l’andamento dei prezzi su 200 voci di prodotto e ha registrato deflazione in 68 casi. Particolarmente significativa la situazione dei prodotti alimentari, quasi una trentina con il segno meno: pomodori (-7,2%), insalata (-2,4%), zucchero (-2,4%), gelati (-2,0%), pesche/nettarine (-1,8%), cereali per colazione (-1,6%), arance (-1,4%), farina/altri cereali (-1,2%), banane (-1,2%), yogurt (-1,2 %).

La deflazione registrata in comparti come l’hi-tech (computer fisso -12,7 %) e i prodotti energetici (gasolio auto -12,5% e benzina -7,6%) è stata invece generata da fattori contingenti: il progresso tecnologico nel primo caso, il prezzo del petrolio al di sotto dei 50 dollari al barile per tutto il primo semestre del 2016 nel secondo.

L’altra faccia della medaglia deflazione sono i rincari, che hanno colpito diversi settori: i servizi postali (+9,8%), i palmari/tablet (8,2 %) e alcuni alimentari come patate +8,2%, olio d’oliva +5,3%, mele +3,2% e pere +3,1 %.

Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, sono chiari i motivi di questa deflazione: “Il fatto che tanti prodotti alimentari abbiano subito un forte deprezzamento è indice delle difficoltà in cui versano le famiglie italiane. Nonostante i consumi abbiano registrato una leggera ripresa, rimangono molto lontani dai livelli raggiunti prima della crisi. Dal 2007 ad oggi, infatti, sono diminuiti di circa 6 punti percentuali. Nonostante il rafforzamento del Quantitative Easing da parte della Banca Centrale Europea, la domanda è ancora fiacca e questo influisce sul livello dei prezzi che continuano a scendere, riducendo in misura preoccupante i margini di guadagno delle imprese”.

Tasse, al Nord il doppio che al Sud

L’Italia è un Paese squilibrato dal punto di vista della produzione della ricchezza e, di conseguenza, da quello del peso delle tasse. Lo ha certificato l’Ufficio Studi della Cgia, il quale ha analizzato la graduatoria sul peso delle tasse che gli italiani pagano all’erario e agli enti locali, scoprendo che al Nord le entrate tributarie pro capite annue sono in media di 10.229 euro, mentre al Sud sono di 5.841 euro, poco più della metà. Al Centro siamo a 9.485 euro.

La regione più tartassata è la Lombardia, dove in media ogni contribuente paga all’anno 11.284 euro di tasse, seguita da Lazio (10.426 euro), Trentino Alto Adige (10.320 euro), Emilia Romagna (10.310 euro), Liguria (9.747 euro) pro capite. In fondo alla classifica Campania (5.854 euro pro capite), Sicilia (5.556 euro) e Calabria (5.183 euro).

Come sono suddivise queste tasse? Secondo la Cgia, su un totale nazionale di 8.572 euro pro capite di entrate tributarie nel 2014, 6.989 euro finiscono nelle casse dello Stato (l’81,5% del totale), 903 euro alle Regioni (10,5%), 680 euro Agli Enti locali (7,9%).

Come si diceva all’inizio, la disparità di valori nel versamento delle tasse è data dal fatto che è differente il valore aggiunto delle regioni. Infatti, rileva la Cgia:

  • su 60,8 milioni di abitanti in Italia, il 45,7% risiede al Nord e solo il 34,4% al Sud;
  • a fronte di 24,3 milioni di occupati nel Paese, il 51% lavora al Nord e il 27,3% al Sud;
  • con una ricchezza annua pari a 1.612 miliardi (Pil nazionale), il 55,2% è prodotta al Nord e il 22,8% al Sud;
  • la spesa complessiva annua sostenuta dalle famiglie italiane ammonta a 994 miliardi: di questi, il 52,8% è riconducibile al Nord e il 26,4% al Sud;
  • in termini di imponibile Irpef, il valore assoluto nazionale è pari a 777,5 miliardi di euro, di cui il 54,5% al Nord e il 24,3% al Sud.

Infine se, da una parte, come ricorda la Cgia, per il 2016 la pressione fiscale è destinata ad attestarsi al 42,8% (-0,7% rispetto al 2015), dall’altro, entro la fine di quest’anno il Governo dovrà trovare 15,1 miliardi di euro per “sterilizzare” la clausola di salvaguardia introdotta con la legge di Stabilità 2015, altrimenti dal 2017 subiremo un forte aumento dell’Iva.

Nel 2016 – conclude il coordinatore dell’Ufficio Studi, Paolo Zabeoil fisco ci concede una tregua. In attesa della riduzione dell’Ires dal 2017 e nella speranza che il Governo mantenga la promessa di abbassare l’Irpef dal 2018, quest’anno le famiglie beneficiano, in particolar modo, dell’abolizione della Tasi sulla prima casa che ci fa risparmiare 3,6 miliardi di euro di tasse”.