Tutti pronti per il tax freedom day

Domani sarà un gran giorno per imprese e contribuenti italiani. Il 3 giugno si celebra infatti il cosiddetto tax freedom day, il giorno di liberazione fiscale, ovvero il primo giorno, dall’inizio dell’anno, in cui lavoriamo non per pagare le tasse ma per guadagnare qualcosa.

In questo 2016 il tax freedom day arriva dopo 154 giorni di lavoro, 3 giorni prima rispetto al 2015. In sostanza, per oltre 5 mesi abbiamo lavorato solo per pagare le tasse.

I calcoli per determinare il giorno esatto del tax freedom day sono stati fatti ancora una volta, come accade da oltre 15 anni a questa parte, dall’Ufficio studi della Cgia, i cui esperti hanno esaminato il dato previsionale del Pil nazionale e lo ha diviso per i 365 giorni dell’anno, ottenendo così un dato medio giornaliero.

Poi, la Cgia ha rapportato il gettito di imposte, tasse e contributi versati dagli italiani al fisco con il Pil giornaliero, ottenendo la data corretta del tax freedom day che, per l’anno in corso, arriva appunto domani, 3 giugno.

Per ottenere un dato il più vicino alla realtà, la Cgia ha calcolato la pressione fiscale del 2015 e del 2016 al netto del “bonus Renzi”, che nel bilancio pubblico è conteggiato come un aumento di spesa e non come una diminuzione del carico fiscale per quasi 11 milioni di lavoratori dipendenti con retribuzioni medio-basse.

Se rispetto al 2015 la situazione di quest’anno presenta un leggero miglioramento, lo stesso cosa non si può dire se la comparazione viene eseguita con il 1996 o il 2006. Rispetto a 20 anni fa, la situazione è peggiorata di 5 giorni (il tax freedom day era il 29 maggio), di 7 giorni rispetto al 1996 (peraltro anno bisestile).

Il perché abbiamo guadagnato 3 giorni sulla data del tax freedom day rispetto allo scorso anno, è ben spiegato dal coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Rispetto al 2015 il gettito complessivo del fisco è destinato a scendere di oltre 5 miliardi di euro. Quest’anno, infatti, le famiglie, ad eccezione di quelle proprietarie di ville, castelli e palazzi di pregio storico, non pagano la Tasi sulla prima casa, risparmiando circa 3,5 miliardi di euro. Le imprese, invece, non sono tenute al versamento dell’Imu sugli impianti imbullonati, da cui deriva una riduzione di gettito di 530 milioni di euro, mentre l’esenzione dell’Imu per i terreni agricoli vale 405 milioni. Le novità in materia di Irap, invece, prevedono l’abolizione dell’imposta per le imprese agricole e le cooperative di piccola pesca, con un risparmio di 167 milioni di euro. Il super ammortamento delle spese per investimenti al 140% e i nuovi crediti di imposta per le attività ubicate nelle aree svantaggiate del Paese garantiscono un minor gettito pari a 787 milioni di euro”.

Export italiano, i numeri del 2015

L’ export italiano ha vissuto nel 2015 un anno d’oro. Il made in Italy ha fatto registrare un saldo commerciale di 122,4 miliardi di euro lo scorso anno, spinto dai settori dell’automazione meccanica, della moda, del legno arredo e del food and beverage.

Una crescita, quella dell’ export italiano, che ha saputo resistere ai colpi della crisi. Come ha rilevato la Cgia, la progressione del nostro saldo commerciale è stata costante dall’ultimo calo, quello del 2009 a 88,4 miliardi: 92,3 miliardi nel 2010, 103,7 nel 2011, 119,5 nel 2012, 120,2 nel 2013, 122,3 nel 2014, fino ai 122,4 dello scorso anno.

Si diceva dei settori produttivi che maggiormente hanno contribuito allo slancio dell’ export italiano. La meccanica e i macchinari hanno fatto ancora una volta la parte del leone, con un surplus commerciale di circa 50 miliardi.

Al secondo posto, staccatissimo, il settore del tessile-abbigliamento-calzature, che ha contribuito all’ export italiano del 2015 con 17,6 miliardi; ultima piazza del podio occupata dai prodotti in metallo, che valgono 11,1 miliardi.

Seguono i mobili (7,2 miliardi), gli apparecchi elettrici e gli elettrodomestici con 6,5 miliardi, altri materiali non metalliferi quali cemento, vetro, porcellana, refrattari e ceramica a quota 6,4 miliardi.

Negativo l’apporto all’ export italiano di altri settori quali il chimico-farmaceutico, il metallurgico, il settore dei computer. Da segnalare la ripresa, seppur minima ma venuta dopo anni di sprofondo, del settore degli autoveicoli: +290 milioni.

Per quanto riguarda i mercati di sbocco dell’ export italiano nel 2015, in prima fila tra i partner commerciali troviamo la Germania (30,3 miliardi di euro), la Francia (27,7 miliardi), gli Usa (24,6 miliardi), il Regno Unito (14,8 miliardi), la Spagna (11,2 miliardi) e la Svizzera (11 miliardi).

Lo scorso anno, rispetto a un anno prima, c’è stata un’ottima crescita delle vendite negli Emirati Arabi (+15,4%), negli Stati Uniti (+15,2%) e in Spagna (+10%), mentre va segnalato il crollo dell’ export italiano in Russia, -25,2%, a causa delle sanzioni commerciali che hanno colpito il Paese.

Abolizione bollo auto, chi ci perde e chi ci guadagna

La possibilità ventilata nei giorni scorsi di abolire il bollo auto aveva suscitato più perplessità che entusiasmo, per il fatto che sarebbe stato chiaro da subito che il mancato gettito derivante da questa abolizione sarebbe stato compensato con un aumento delle accise sui carburanti.

A fare i conti di questo aumento ci ha pensato, come al solito, la Cgia, che ha anche rilevato quali sarebbero gli automobilisti e le categorie professionali più penalizzate da questa impennata delle accise (almeno 0,16 euro al litro) a compensazione del taglio del bollo auto.

Sarebbe penalizzato chi, indipendentemente dalla cilindrata della propria auto, percorre più di 20mila chilometri all’anno; sarebbe avvantaggiato chi possiede una vettura di grossa cilindrata e percorre in media pochi chilometri.

In sostanza, secondo la Cgia, rischiano di essere penalizzati coloro i quali utilizzano l’auto per ragioni professionali: a taxisti, autonoleggiatori, agenti di commercio, piccoli trasportatori e agli artigiani che ogni giorno si spostano con i propri mezzi aziendali per eseguire interventi dalla clientela propria clientela, l’abolizione del bollo auto porterebbe più svantaggi che vantaggi.

Ecco perché gli artigiani mestrini auspicano che, con l’eventuale abolizione del bollo auto, vengano introdotti dei correttivi che tengano conto della specificità di molte imprese artigiane.

Per effettuare le proprie stime, la Cgia ha calcolato il prezzo alla pompa che un automobilista sarebbe costretto a sostenere a seconda dei consumi e del numero di chilometri percorsi con la propria auto, così come riportato dalle statistiche di settore, considerando che all’aumento dell’accisa seguirebbe un aumento del gettito Iva. Come costo annuo del bollo auto, la Cgia ha preso a campione gli importi applicati più frequentemente dalle varie regioni per le rispettive classi di cilindrata.

In sostanza, secondo i calcoli della Cgia, se il proprietario di un’auto a gasolio di 1.900 cc che attualmente paga 227 euro all’anno di bollo auto percorresse oltre 20mila km, perderebbe il beneficio dell’abolizione. Allo stesso modo per un’auto a benzina di 1.600 cc che ora paga 199 euro di bollo auto.

Per un’auto a benzina di piccola cilindrata (1240 cc), il risparmio si esaurirebbe con il raggiungimento dei 15mila chilometri all’anno, perché il costo del bollo auto è in media inferiore agli esempi analizzati in precedenza.

Export verso la Germania e sospensione di Schengen

Fin dalle prime avvisaglie di resistenze austriache al libero passaggio di profughi attraverso le frontiere con l’Italia, Brennero in primis, la Cgia ha cominciato a fare i calcoli sui danni che questi blocchi e queste resistenze potranno causare all’economia italiana sul fronte dell’ export. Recentemente, gli artigiani mestrini hanno quantificato il danno per l’ export italiano verso la Germania, il nostro principale partner economico.

La Cgia sottolinea che, nonostante il saldo commerciale negativo con la Germania registrato nel 2015 (-5,7 miliardi di euro), l’Italia ha esportato merci e servizi per oltre 51 miliardi di euro, principalmente in macchinari (7,5 miliardi), autoveicoli (5,1 miliardi), prodotti metallurgici (4,1 miliardi) e chimici (3,8 miliardi), alimentari (3,5 miliardi), prodotti in metallo (3,4 miliardi), apparecchiature elettriche (3,1 miliardi).

Uno stallo al Brennero, secondo la Cgia, colpirebbe in primis la fascia produttiva pedemontana lombardo-veneta, con ripercussioni fino al Piemonte e all’Emilia Romagna. Nel 2015 Lombardia, Veneto, Emilia e Piemonte hanno prodotto più dei due terzi dell’ export italiano verso la Germania.

Nel 2015, la provincia con la più alta vocazione all’ export verso la Germania è stata Milano (3,1 miliardi), seguita da Brescia (2,7 miliardi), Torino (2,5 miliardi), Bergamo (2,3 miliardi), Vicenza (1,9 miliardi), Treviso (1,7 miliardi) e Verona (1,6 miliardi).

Secondo il segretario della Cgia Renato Mason, “tutta la Pedemontana lombardo-veneta sarebbe penalizzata dall’eventuale chiusura/sospensione dell’area Schengen. I nostri distretti industriali dell’automazione meccanica, dell’alimentare, dell’arredo casa e della moda hanno una grossa vocazione all’ export, soprattutto verso la Germania. Con tempi di consegna non più prevedibili, il costo delle merci potrebbe aumentare notevolmente, penalizzando tutto il nostro made in Italy che ha nella qualità, ma anche nel prezzo, i suoi punti di forza”.

Brennero, la frontiera maledetta

La barriera al Brennero che l’Austria sta allestendo per controllare i flussi migratori e i controlli che, con il mese di maggio, dovrebbero partire sui mezzi in transito attraverso la frontiera italo-austriaca potrebbero causare gravissimi danni all’economia dei due Paesi.

Al di là degli aspetti ideologici del caso, c’è infatti un pesante risvolto economico che deriverebbe da una militarizzazione del Brennero. Qualche conto su quanto costerebbe all’Italia una sospensione di Schengen lo aveva fatto la Cgia qualche tempo fa. Ora la stessa Cgia, quantifica anche il “peso” delle merci in transito attraverso il Brennero analizzando i dati di Alpinfo-Ufficio federale trasporti svizzero, relativo al 2013, ultimo anno per il quale risultano disponibile.

Ebbene, secondo gli artigiani, un terzo delle merci che entrano ed escono su gomma dall’Italia attraverso le Alpi passano per il Brennero: 29 milioni di tonnellate sugli 89 milioni complessivi che passano le Alpi a bordo dei Tir.

A queste merci vanno aggiunti anche 11,7 milioni di tonnellate di merci che viaggiano su rotaia, quantità che fa salire il totale delle merci che attraversano ogni anno il Brennero a oltre 40 milioni di tonnellate. Tempi di attesa superiori alle 2-3 ore per i controlli, come si prospetta nella migliore delle ipotesi, sarebbero un colpo durissimo per il tessuto economico italiano e austriaco.

Una preoccupazione che è anche sentita dalle imprese austriache. Come ha dichiarato a Il Sole 24Ore Christoph Leitl, presidente della Camera di commercio federale austriaca, organismo che riunisce 500mila aziende, “l’ultima cosa che vogliamo è una barriera al Brennero”.

Secondo Leitl, il danno per l’economia austriaca potrebbero essere di 1,2 miliardi di euro all’anno, mentre Michael Berger, console commerciale dell’Austria per l’Italia, ha dichiarato sempre al Sole che “secondo i calcoli delle imprese di trasporto, nella situazione attuale si contano danni per 2,5 milioni di euro al giorno e se la chiusura fosse generalizzata il conto salirebbe a 8,5 milioni”.

Per l’Austria, gli effetti di un tappo al Brennero si sommerebbero a quelli già pesanti derivanti dai controlli messi in atto dalla Germania nei confronti di chi entra nel Paese passando proprio dall’Austria, oltre al blocco della rotta balcanica, che provoca pesanti ritardi per le merci in entrata e uscita verso Croazia e Serbia.

Insomma, le decisioni isolazioniste dell’Austria rischiano di avere controindicazioni pesanti sul piano economico più che su quello strettamente politiche.

Le tasse calano? Balle

E meno male che tutti i governi, di destra o di sinistra, che si sono alternati negli ultimi anni al governo dell’Italia hanno sostenuto di voler abbassare le tasse. Peccato che sia successo esattamente il contrario, almeno stando a quanto emerge dai conteggi effettuati dall’Ufficio studi della Cgia.

Ebbene, stando a questi calcoli, negli ultimi 6 anni le imposte nazionali e locali hanno continuato ad aumentare. Le prime, al netto del bonus Renzi, sono salite del 6,1%, le tasse locali dell’8%.

Aumento invertito in termini di valore assoluto: +21,6 miliardi per le tasse nazionali, +7,7 miliardi per quelle locali. In termini netti, dal 2010 a oggi, nonostante la pesante crisi economica, imprese e famiglie hanno sostenuto uno sforzo fiscale aggiuntivo in tasse di 29,3 miliardi di euro.

La Cgia ha anche rilevato che la composizione del gettito per livello di Governo è rimasta sostanzialmente identica. Su un totale di entrate tributarie di 483,2 miliardi nel 2015, al netto del bonus Renzi, il 21,6% del gettito ha finanziato le casse di Regioni e Comuni (104,4 miliardi), mentre il 78,4% è andato all’erario (378,8 miliardi). Nel 2010 la situazione era pressoché identica.

La Cgia ha anche analizzato nel dettaglio l’andamento delle principali tasse locali dal 2010 al 2015 e ha rilevato che solo l’Irap è calata in modo sensibile: -4,2 miliardi (-13%). Tutte le altre tasse sono cresciute in maniera piuttosto marcata: l’addizionale regionale Irpef è cresciuta di 3,1 miliardi (+39%) e l’addizionale comunale di 1,4 miliardi (+51%).

Sul fronte dell’imposta sugli immobili, il fisco locale ha dato il meglio di sé. Se nel 2010 l’Ici ha fatto incamerare ai comuni 9,6 miliardi, nel 2015 Imu e Tasi hanno portato nelle casse locali 21,3 miliardi, +120%. E meno male che le tasse calano…

Le tasse mascherate dello Stato

Che lo Stato sia spesso ladro, è convinzione che Infoiva ha da tempo. E, a dimostrazione del fatto che la nostra convinzione è anche una solida realtà, arriva un’analisi effettuata dall’Ufficio studi della Cgia dalla quale emerge che nel 96% dei casi le tasse pagate dalle famiglie dei lavoratori dipendenti sono prelevate alla fonte – dalla busta paga o incluse nei beni o nei servizi acquistati -, mentre solo il restante 4% è versato al fisco attraverso un’operazione di pagamento allo sportello, sia esso bancario o postale.

Nel dettaglio, la Cgia ha calcolato che nel 2016 la famiglia tipo presa a modello dell’analisi (marito e moglie lavoratori dipendenti con un figlio a carico) pagherà circa 17mila euro di tasse, un carico fiscale a dir poco vergognoso.

Nello specifico, il marito preso come modello è un operaio specializzato con reddito da lavoro dipendente pari a 22.627 euro (circa 1.513 euro/mese per 13 mensilità), mentre la moglie è impiegata in una piccola azienda artigiana, con reddito da lavoro dipendente pari a 17.913 euro (circa 1.235 euro/mese).

La famiglia in questione alle prese con le tasse abita in un appartamento di 94 mq calpestabili, la cui rendita catastale è di 522 euro, e possiede due auto, di cilindrata pari a 1.800cc e 1.200cc con le quali vengono percorsi rispettivamente 15.000 km e 5.000 km all’anno. Ecco il dettaglio delle tasse pagate, suddiviso in 3 voci.

prelievo “alla fonte”. Pesa il 65% carico fiscale annuo, 11.098 euro. Comprende i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef;

tasse “nascoste”. Pesano il 31% del carico fiscale annuo, 5.230 euro. Iva, accise collegate alla benzina e alle bollette di luce e gas, tasse e imposte comprese nell’assicurazione auto, nei bolli dei conti correnti e dei dossier titoli, canone Rai;

tasse “consapevoli”. Pesano il 4% del carico fiscale annuo, 696 euro. Bollo auto e Tari.

Con questa analisi, la Cgia ha voluto sottolineare come lo Stato ladro sia bravo a farci pagare le tasse senza farci apparentemente soffrire, come se fosse un vampiro buono. Ricorda Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia: “Nel momento in cui ci rechiamo in banca o alle poste per pagare il bollo dell’auto, la Tari o l’Imu, psicologicamente percepiamo maggiormente il peso economico di questi versamenti rispetto a quando subiamo il prelievo dell’Irpef o dei contributi previdenziali direttamente dalla busta paga. Nel momento in cui mettiamo mano al portafoglio prendiamo atto dell’entità del pagamento e di riflesso scatta una forma di avversione nei confronti del fisco. All’opposto, quando i tributi vengono riscossi alla fonte, l’operazione è astrattamente meno indolore, perché avviene in maniera automatica”.

Made in Italy, quanto è costato l’ embargo alla Russia

Abbiamo più volte ricordato come l’ embargo economico applicato dall’Ue alla Russia dal 2014 abbia danneggiato più le economie dei Paesi esportatori verso Mosca anziché quella russa. Una conferma ulteriore arriva dall’Ufficio studi della Cgia, secondo in quale le sanzioni verso la Russia sono costate al made in Italy 3,6 miliardi di euro, con un export passato dai 10,7 miliardi del 2013 ai 7,1 miliardi di euro del 2015 (-34%).

Secondo la Cgia, le regioni più danneggiate dall’ embargo sono Lombardia (-1,18 miliardi), Emilia Romagna (-771 milioni) e Veneto (-688,2 milioni) che insieme hanno totalizzato oltre il 72% del calo dell’export verso la Russia.

Analizzando i settori maggiormente danneggiati dall’ embargo verso Mosca, la Cgia ha rilevato che dei 3,6 miliardi di minori esportazioni, 3,5 vengono dal comparto manifatturiero. I settori nei quali i volumi di affari sono calati in maniera più significativa sono quelli dei macchinari (-648,3 milioni di euro), dell’abbigliamento (-539,2 milioni), degli autoveicoli (-399,1 milioni), delle calzature/articoli in pelle (-369,4 milioni), dei prodotti in metallo (-259,8 milioni), dei mobili (-230,2 milioni) e delle apparecchiature elettriche (-195,7 milioni).

Lucido e condivisibile il commento del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Anche alla luce degli attacchi terroristici avvenuti nei giorni scorsi a Bruxelles, è giunto il momento che l’Unione europea riveda la propria posizione nei confronti di Mosca. Rispetto al 2014, le condizioni geo-politiche sono completamente cambiate. Per ripristinare la pace nell’area mediorientale e per combattere le frange terroristiche presenti in Europa, la Russia è un alleato strategico indispensabile per il mondo occidentale. Proseguire con le misure restrittive nei confronti della Russia che, ricordo, scadranno il prossimo mese di luglio, sarebbe poco oculato e controproducente”.

Quanto ci costa sospendere Schengen?

Mentre i flussi migratori mettono in crisi l’Unione europea, divisa tra diffidenza e accoglienza, c’è chi sostiene che il ripristino dei controlli alle frontiere con una sospensione almeno temporanea del trattato di Schengen sia una soluzione almeno temporanea per filtrare gli arrivi.

Non è chiaro a tutti, però, che sospendere Schengen ha dei costi che, secondo l’Ufficio Studi della Cgia, potrebbero essere salatissimi. Per i Paesi, per le imprese, per le persone. Nel caso dell’Italia, la Cgia ha ipotizzato che una sospensione di Schengen avrebbe sul nostro Paese una una ricaduta economica negativa fino a 10 miliardi di euro all’anno.

La Cgia ha fatto delle stime ipotizzando uno scenario con controlli di polizia alle frontiere poco invasivi e uno con controlli più stringenti e rigorosi, con questi ultimi che allungherebbero di molto i tempi per l’ingresso nel nostro Paese, oltre che delle persone, anche dei beni e delle merci.

In entrambi gli scenari il settore colpito per primo da una sospensione di Schengen sarebbe l’autotrasporto. Per i Tir si allungherebbero notevolmente i tempi di ingresso/uscita alle frontiere, con un conseguente aumento del prezzo delle merci importate/esportate e delle ricadute macro economiche che interesserebbero l’Italia: riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e calo dei consumi interni, con costi derivanti dall’aumento dei prezzi che oscillerebbero tra i 4,8 e i 9,8 miliardi di euro all’anno a seconda dello scenario.

Poi, ci sarebbero i turisti giornalieri e del week-end, che potrebbero decidere di non trascorrere qualche giorno di vacanza in Italia per il ripristino dei controlli pre – Schengen con conseguente aumento dei tempi di attesa: il danno per la nostra bilancia turistica andrebbe da 233 a 465 milioni di euro l’anno.

Ultimo ma non meno importante, l’impatto economico che il ripristino dei controlli alle frontiere avrebbe sui lavoratori frontalieri che dovrebbero restare in fila per attraversare il confine, stimato dalla Cgia tra i 53 e i 105 milioni di euro.

In totale, quindi, a seconda che si profili uno scenario più o meno invasivo, secondo i calcoli della Cgia l’eventuale sospensione di Schengen potrebbe comportare per l’Italia un costo tra i 5,1 e i 10,3 miliardi di euro, pari a un impatto sul Pil variabile tra lo 0,3% e lo 0,6%.

Ricorda il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Le cronache riportano che dallo scorso gennaio la riattivazione dei controlli voluta dalla Svezia sul famoso ponte Oresund, quello che collega Copenhagen a Malmo, ha allungato i tempi di percorrenza di quasi un’ora, con un costo per i pendolari di circa 150mila euro al giorno. Il blocco a singhiozzo attivato in questi ultimi mesi dal Belgio sui confini francesi, invece, ha allungato le code di 30 minuti. Attese, ovviamente, che penalizzano soprattutto le aziende di autotrasporto che si sobbarcano interamente questi costi aggiuntivi”.

La Cgia: pressione fiscale reale al 50,2%

La pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie è uno dei fattori che, in Italia, ostacolano maggiormente una vera ripresa. Ciò che più dà fastidio è che la pressione fiscale reale è molto diversa da quella “ufficiale”, che emerge molto spesso dalle stime governative. Questo perché la pressione fiscale reale è influenzata dall’economia sommersa.

Quest’ultima tra il 2011 e il 2013 è cresciuta di 4,85 miliardi di euro, a quota 207,3 miliardi di euro, il 12,9% del Pil, mentre quella al netto dell’economia non osservata è calata di 36,8 miliardi, sotto quota 1.400 miliardi.

Partendo da questi dati, l’Ufficio studi della Cgia ha stimato, in via molto prudenziale, che l’incidenza percentuale dell’economia non osservata sul Pil è rimasta la stessa anche dal 2013 al 2015, ed è arrivato a calcolare in quasi 211 miliardi di euro il peso dell’economia sommersa sul Pil nazionale lo scorso anno 2015, con rilevanti ricadute dal punto di vista fiscale.

Come ha commentato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 al lordo dell’operazione bonus Renzi, la pressione fiscale ufficiale in Italia è stata pari al 43,7%. Tuttavia, il peso complessivo che il contribuente onesto sopporta è di fatto superiore ed è arrivato a toccare la quota record del 50,2%”.

Secondo gli artigiani mestrini, la progressione della pressione fiscale ufficiale e ufficiosa negli ultimi 4 anni è stata costante: nel 2011 erano pari al 41,6% e al 47,4%, nel 2012 al 43,6% e al 49,9%, nel 2013 al 43,5% e al 49,9%, nel 2014 al 43,6% e al 50,0%, nel 2015 al 43,7% e al 50,2% (per il 2014 e il 2015 si tratta di stime).

Per avere un quadro di riferimento chiaro, la Cgia ricorda che “la pressione fiscale è data dal rapporto tra l’ammontare complessivo del prelievo (imposte, tasse, tributi e contributi previdenziali) e il Prodotto interno lordo (Pil) che si riferisce non solo alla ricchezza prodotta in un anno dalle attività regolari, ma anche da quella “generata” dalle attività sommerse (cioè non in regola con il fisco) e da quelle illegali che consistono in uno scambio volontario tra soggetti economici (contrabbando, prostituzione, traffico di sostanze stupefacenti)”.

Lapidario il commento del segretario della Cgia, Renato Mason: “E’ evidente che con un peso fiscale simile sarà difficile trovare lo slancio per ridare fiato all’economia del Paese in una fase dove la crescita rimane ancora molto debole e incerta”.