Anche i commercialisti contro il ddl concorrenza

Dopo le perplessità sollevate nei giorni scorsi dai notai, anche i commercialisti esprimono i propri dubbi sul ddl concorrenza, definito “contraddittorio e lontano dagli obiettivi di semplificazione che dice di voler perseguire”.

Il giudizio del Consiglio nazionale dei commercialisti sul ddl concorrenza è netto e critico, come sottolinea anche in una nota il presidente nazionale della categoria, Gerardo Longobardi. “Le misure volte a favorire la liberalizzazione delle professioni penalizzano alcune categorie professionali e ne avvantaggiano altre, senza perseguire, a parer nostro, l’obiettivo della semplificazione. È quindi una semplificazione a somma zero. Per contro, nonostante la dichiarata volontà di favorire il consumatore, il disegno di legge lo priva di qualsiasi effettiva tutela circa la garanzia del rispetto delle condizioni minime  imposte dalla legge”.

I commercialisti, come del resto i notai, criticano soprattutto la norma del ddl concorrenza che prevede la possibilità di semplificare il trasferimento di beni immobili ad uso non abitativo il cui valore catastale non superi i 100mila euro, con l’autenticazione della sottoscrizione dell’atto da parte dei soli avvocati. “Se la ratio della norma è quella di allargare la platea dei professionisti a quelli che autenticano la firma del cliente nel mandato alle liti, non si comprende perché siano stati esclusi dalla previsione normativa i commercialisti, che abilitati alla difesa tributaria dei contribuenti, già autenticano la firma di questi ultimi. Se invece la ratio era quella di individuare professionisti dotati di specifica competenza in materia, ricordiamo che i commercialisti, accanto ai notai e agli avvocati, già’ dal 2005 vengono delegati alle operazioni di vendita dei beni immobili nel processo esecutivo”, dice Longobardi, il quale ne ha anche per le nuove norme relative agli atti di trasferimento delle partecipazioni di S.r.l. introdotte dal ddl concorrenza.

La modalità proposta dal Governo – spiega infatti Longobardinon fornisce al consumatore garanzie di certezza e qualità del servizio come avviene in forza della normativa attuale. Quella della cessione delle quote di s.r.l. e della costituzione di vincoli sulle stesse è un’attività ad oggi riservata al notaio e al commercialista. Si tratta di attività che i professionisti esercitano già in un regime di parziale liberalizzazione, per le competenze specifiche che ad essi sono riconosciute dalle rispettive leggi professionali. La cessione delle partecipazioni di s.r.l. e la costituzione di vincoli su quote può implicare l’emersione di questioni attinenti a delicate problematiche societarie e civilistiche che solo professionisti iscritti all’albo e con adeguata formazione possono risolvere. La redazione di questi atti dovrebbe essere appannaggio di professionisti con adeguate competenze nella materia del diritto societario e che per legge sono tenuti al rispetto della normativa antiriciclaggio”.

Per concludere le critiche al ddl concorrenza, Longobardi sottolinea che, “se l’obiettivo dell’esecutivo era quello di liberalizzare taluni servizi professionali, non si comprende come mai, rispetto ad alcune anticipazioni della vigilia, sia saltata la soppressione dall’ordinamento forense dell’esclusiva agli avvocati dell’assistenza, della rappresentanza e della difesa nelle procedure arbitrali rituali. Un ulteriore elemento che contribuisce a rendere contraddittorio un disegno di legge che, a dispetto delle dichiarazioni d’intenti, non semplifica, liberalizza dove non dovrebbe liberalizzare e difende esclusive oramai indifendibili”.

I commercialisti e la Certificazione Unica

L’Agenzia delle Entrate ha chiarito nei giorni scorsi, attraverso un comunicato stampa, che non subiranno sanzioni i professionisti che dovessero inviare oltre il 9 marzo 2015 la Certificazione Unica sui redditi non dichiarabili nel modello 730.

I commercialisti italiani, di fronte ai chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate sulla Certificazione Unica si ritengono “moderatamente soddisfatti”. Secondo il presidente del Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili Gerardo Longobardi, “la decisione dell’Agenzia è andata incontro alla nostra proposta di presentare entro il 9 marzo solo i dati che devono effettivamente confluire nella dichiarazione precomplilata. Idea che abbiamo sempre manifestato durante i diversi incontri avuti con il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, e con il viceministro all’Economia, Luigi Casero”.

Longobardi si riferiva alla proposta dei commercialisti sulla Certificazione Unica manifestata alcuni mese fa durante l’audizione in Commissione di vigilanza sull’Anagrafe tributaria, riproposta poi ai primi di febbraio durante gli altri incontri con l’Agenzia delle Entrate e il Mef.

Si tratta di un risultato importante – ha sottolineato Longobardi riguardo al chiarimento sulla Certificazione Unica -, al quale si è giunti grazie a quel dialogo costante con le Istituzioni che il Consiglio nazionale ha messo in atto fin dal suo insediamento. La decisione di ieri è la conferma che il dialogo a tutti i livelli premia sempre”.

Rientro capitali, attenti al flop

Si chiama voluntary disclosure, si legge rientro capitali dall’estero e rischia di essere un buco nell’acqua. Secondo una simulazione effettuata su tre diverse ipotesi dalla Fondazione nazionale dei commercialisti, il costo complessivo dell’adesione al rientro capitali è estremamente variabile da caso a caso e, rispetto al valore finale dell’investimento, il costo andrà da un minimo del 5%, ad un massimo del 97% azzera l’importo dell’investimento.

Secondo i commercialisti italiani, la legge sul rientro capitali, anche per la sua estrema complessità e nonostante il vantaggio che deriva dall’abbattimento delle pene, rischia di non raggiungere gli obiettivi di gettito e di tramutarsi in un flop per le casse dello Stato.

Le principali variabili che influenzano il costo dell’operazione per il rientro capitali, dicono i commercialisti, sono rappresentate dal Paese e dall’anzianità dell’investimento, oltre che dalla tipologia di evasione eventualmente commessa. Ecco i dettagli:

Investimenti effettuati da soggetti non imprenditori in Paesi White list o in Black List, che dovessero stipulare un accordo con l’Italia entro 60 giorni
Un costo per il rientro dei capitali pari al 4,61%. È il caso in cui il rientro capitali risulta più conveniente. In questa ipotesi, indipendentemente dal periodo in cui l’investimento è stato effettuato, i periodi accertabili non possono essere più di cinque (tranne i casi di rilevanza penale tributaria dell’illecito eventualmente commesso), per cui il rientro capitali si risolve nel pagamento delle imposte sostitutive sui rendimenti finanziari dell’investimento e delle corrispondenti sanzioni in misura ridotta oltre a quelle, parimenti ridotte, relative all’omessa o incompleta compilazione del quadro RW del modello Unico.

Investimenti effettuati da soggetti non imprenditori in Paesi Black List che non stipuleranno un accordo con l’Italia
Il costo per il rientro capitali diventa decisamente più consistente, arrivando al 67,29%. In tali ipotesi, i periodi accertabili possono estendersi fino al doppio e quindi anche per gli investimenti più “stagionati”, l’IRPEF potrà essere recuperata sull’intero importo iniziale dell’investimento in base alle aliquote marginali applicabili sul reddito complessivo del contribuente. Per quanto concerne le sanzioni, le riduzioni previste in caso di rientro capitali saranno calcolate su una base costituita dal doppio dei minimi edittali.

Investimenti effettuati da un imprenditore individuale che evade imposte sui redditi, IRAP e IVA
In questo caso il rientro capitali può comportare il pressoché totale azzeramento del capitale, poiché il costo complessivo dell’operazione di rientro sfiora il 100% (96,80%). L’unico motivo che potrebbe spingere all’adesione alla procedura di collaborazione volontaria in questo caso potrebbe essere costituito dai benefici sotto il profilo penale della stessa, ossia dal fatto di volersi avvalere delle cause di non punibilità previste per i reati “coperti” dalla disclosure. In questo caso, la prospettiva è del tutto disincentivante e le casse dello Stato rischiano di restare vuote.

Il cuore grande (online) dei commercialisti italiani

Online il sito di Communitas, la onlus dei commercialisti italiani (www.communitasonlus.it). Sul sito sono pubblicati news, documenti e video relativi ai progetti dell’Associazione.

Nata nel 2011, la onlus Communitas si propone la raccolta di fondi da destinarsi a scopi benefici per il miglioramento della qualità della vita, lo sviluppo dell’autonomia e della dignità delle persone in stato di disagio fisico, psichico, economico, sociale o familiare.

Dopo aver seguito per conto del Consiglio nazionale dei commercialisti un progetto realizzato in collaborazione con la Croce rossa italiana, dedicato ad alcuni ragazzi con disabilità lieve colpiti dal terremoto dell’Aquila, Communitas è ora impegnata nell’iniziativa “Commercialisti per l’Emilia“, una raccolta fondi a favore dei commercialisti vittime delle due scosse sismiche del 20 e 29 maggio, promossa anch’essa dal Consiglio nazionale della categoria. Quasi 11mila gli euro già raccolti, a pochi giorni dal lancio dell’iniziativa.

Accordo tra i Commercialisti italiani e spagnoli: l’esame di stato non potrà essere evitato

E’ stato stipulato un importante accordo tra commercialisti italiani e spagnoli per bloccare chi si abilita in Spagna per evitare il nostro esame di Stato. L’accordo è stato stipulato tra il presidente degli Economistas, i commercialisti spagnoli, Valentin Pich Rosell e il presidente dei commercialisti italiani, Claudio Siciliotti e prevede di valutare attentamente ogni richiesta di iscrizione al proprio Albo proveniente da soggetti che, laureatisi in Italia, hanno ricevuto da università spagnole la dichiarazione di equipollenza del titolo accademico italiano, senza però aver effettuato in Spagna nessuna ulteriore attività formativa teorico-pratica.

Il fenomeno del “turismo professionale” è sempre più praticato fin da quando la direttiva comunitaria 36 del 2005 ha stabilito la possibilità di esercitare l’attività professionale in un altro Paese dell’Unione europea. “La Direttiva 2005/36/CE  ha come funzione di fondo quella di fornire uno strumento concreto per consentire a chi esercita l’attività professionale di spostare realmente, da un Paese all’altro, la sede dei propri interessi professionali e di svolgere la medesima attività per la quale si è abilitato nel Paese di origine“.

La direttiva vuole eliminare ostacoli relativi alla circolazione ma non eliminare gli esami di abilitazione previsti da ciascun Paese. Il Consigliere nazionale dei commercialisti Andrea Bonechi commenta: “Questo protocollo è frutto della volontà del Cndcec di recidere in partenza ogni tentativo di abusi di questo genere. Una chiara posizione assunta già nell’ambito della conferenza dei servizi ministeriali per il riconoscimento delle qualifiche professionali estere e l’accordo con gli amici spagnoli, sono il risultato di approfondimento e condivisione di principi e valori che tanti, troppi vorrebbero eludere. Un discorso che vale anche per quelle associazioni di lavoratori autonomi, anche intellettuali, affannosamente in cerca di riconoscimenti di matrice pubblica per inventare qualifiche professionali per attività oggi interamente libere ed in pieno regime di concorrenza”.

M.Z.