Le imprese del Sud si incontrano a Taranto per fare rete

La crisi economica ha indebolito pesantemente le piccole e medie imprese del sud, molte delle quali sono state costrette a chiudere o a ridurre il personale.
Per questo motivo, una delle soluzioni migliori per reagire e tornare in pista è fare rete e proporre progetti creativi ed innovativi.

Lo ha dichiarato Filomena Tucci, responsabile Coordinamento Sud Italia di Confassociazioni: “Il Mezzogiorno è l’importante convitato di pietra in tutte le discussioni sulla crisi e sulle ricette per il rilancio della crescita: parte fondamentale e spesso dimenticata rappresenta il 35% della popolazione italiana e circa un quarto del PIL italiano. Il convegno “Le Vie del Mare. Una modernità senza tempo di una Terra Magna” che si svolge martedì 23 maggio presso l’IISS Pacinotti Fermi (con inizio alle ore 10.00) offre con il suo parterre di relatori un buon piano di lavoro per parlare del Sud, delle sue potenzialità inespresse, delle opportunità che può offrire”.

Il convegno si svolgerà a Taranto, che, secondo Alfredo Foresta, presidente di Visioni da Sud, associazione promotrice, “rappresenta da sempre l’emblema della Terra Magna, quel Sud intriso di cultura che ha generato lo sviluppo della civiltà. Oggi quello stesso Sud è il Mezzogiorno, cronica bocciatura dal 1870. Aldilà di pensieri negativi e catastrofici che possono spontaneamente sorgere valutando la realtà attuale, è opportuno guardare all’Italia e all’Europa in maniera propositiva e progressista – non dimentichiamo che le rotte marittime del Golfo di Taranto rappresentano ancora la più moderna infrastruttura che collega l’Europa all’Oriente – e dove il nostro Sud vuole recuperare il suo storico ruolo di Terra Magna” .

Ha poi concluso Filomena Tucci: “Il Sud può rispondere concretamente e positivamente alla crisi grazie al lavoro in rete. E il patrocinio di Confassociazioni, la rete delle reti, vuole rappresentare proprio questo pensiero. Uniti possiamo vincere e diventare modello di rilancio per l’Italia tutta, grazie al nostro patrimonio culturale, turistico, enogastronomico che tutto il mondo ci invidia. Per sostenere nel migliore dei modi tutto ciò è necessario sia lavorare sul capitale professionale e umano, sia optare per investimenti maggiori nelle infrastrutture materiali e immateriali per trovare nuove soluzioni a vecchi problemi. Come ad esempio riaprire l’interesse sui collegamenti via mare così da ovviare ad un problema storico e sempre più critico del Mezzogiorno e cioè il collegamento per le vie tradizionali”.

Vera MORETTI

Pil e crisi, le cifre di un massacro

La crisi economica ha fatto strage del tessuto produttivo italiano e anche il Pil del nostro Paese ha subito un pesante colpo dal quale si riprenderà con moltissima fatica. È un dato di fatto certificato anche dai numeri, come ha rilevato l’Ufficio studi della Cgia.

Gli artigiani mestrini hanno infatti rilevato che dal 2007, anno di inizio della crisi, il Pil italiano è calato di oltre l’8%, trascinando a fondo anche i consumi delle famiglie (-6,5%) e gli investimenti, crollati di quasi il 27,5 %. Il rovescio della medaglia è dato dalla disoccupazione che, al contrario del Pil, ha subito un’impennata di quasi il doppio: dal 6,1% del 2007 al 12,1% atteso per il 2015.

Questo contraltare di Pil e disoccupazione è un trend ben presente agli artigiani mestrini, che vogliono sensibilizzare il governo sullo scenario italiano a medio e lungo termine. Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo ,“il Premier Renzi fa bene a trasmettere ottimismo e fiducia. La situazione, tuttavia, rimane ancora molto delicata. Per recuperare il terreno perso ci vorrà molto tempo. Se nel prossimo futuro il Pil crescerà di almeno 2 punti ogni anno, il nostro Paese tornerà alla situazione pre-crisi solo nel 2020”.

La Cgia ricorda che per far ripartire il Pil è necessario ridare vita agli investimenti che, come scritto sopra, negli anni della crisi sono calati di oltre un quarto rispetto ai livelli precedenti. In termini netti, il calo del 27,5% di cui sopra equivale a -109,4 miliardi, al netto dell’inflazione.

Gli investimenti – conclude Zabeosono una componente rilevante del Pil. Se non miglioriamo la qualità dei prodotti, dei servizi e dei processi produttivi siamo destinati a impoverirci. Senza investimenti questo paese non ha futuro. Ricordo, altresì, che le imprese contribuiscono per oltre il 60% del totale nazionale degli investimenti. Queste ultime, pertanto, saranno chiamate a giocare un ruolo determinante. Per fare ciò, il sistema creditizio, anche alla luce delle operazioni TLTRO e Quantitative Easing, dovrà sostenere le imprese con nuova liquidità: altrimenti, con quali risorse gli imprenditori potranno rilanciare gli investimenti?”.

Crisi economica alle spalle? Le Pmi ci credono

I dati su Pil e occupazione diffusi nei giorni scorsi dall’Istat hanno alimentato facili entusiasmi che hanno portato molti a pensare che, oltre ad esserci messi il peggio alle spalle, la crisi economica stia ormai per finire. In realtà, il termometro vero per capire a che punto è questa crisi economica, oltre alla propensione delle famiglie ai consumi, sono le imprese, chi produce, chi con la crisi sta facendo i conti da otto anni, cercando di sopravvivere.

Ebbene, da questo lato arrivano segnali incoraggianti. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Congiunturale di Fondazione Impresa, una buona parte di piccole imprese italiane sostiene che la crisi economica sia finita.

Secondo la ricerca, nel primo semestre 2015, il 35,9% delle piccole imprese italiane – al di sotto dei 20 addetti – sostiene di aver superato la crisi economica. Una quota che aumenta tra le piccole imprese manifatturiere e tra quelle dei servizi: il 46,7% del manifatturiero dichiara infatti di “essere fuori dal tunnel” contro il 39,4% di quelle che operano nei servizi.

Meno ottimiste che operano nel settore del commercio e quelle dell’artigianato: il 22,3% delle prime dichiara di essere uscito dalla crisi economica, contro il 25,8% delle seconde. Segno che questi due settori, che hanno sofferto più di altri i morsi della crisi, faticano a riprendersi in maniera completa.

Le imprese che dichiarano di essersi lasciate alle spalle la crisi economica sono quelle che, probabilmente, potranno pensare di tornare a investire dopo che, negli ultimi anni, hanno di fatto adottato una strategia conservativa per difendere le proprie quote di mercato anziché cercare di ritagliarsene di nuove.

Secondo le rilevazioni dell’Istat, infatti, ben il 70,5% delle imprese ha scelto di mantenere le proprie quote tra il 2011 e il 2012, negli anni più bui della crisi economica. Una percentuale di aziende trasversale a tutti i settori economici e di ogni dimensione.

Del resto, già il fatto che l’indagine dell’Osservatorio Congiunturale di Fondazione Impresa abbia avuto un campione sul quale insistere è importante, perché si tratta di imprese che hanno resistito alla crisi economica a differenza delle oltre 82mila fallite tra il 2008 e il 2014, secondo dati Cerved. Una mattanza che ha lasciato sul campo oltre un milione di posti di lavoro.

Busta paga sempre più povera

Siamo abituati a parlare e a sentir parlare degli effetti che la crisi ha sull’andamento della macroeconomia, ma non sempre ci fermiamo a riflettere su quanto incide nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, sulle retribuzioni. In sostanza, quali sono gli effetti della crisi economica sulla busta paga degli italiani?

A questa domanda ha provato a dare una risposta l’Osservatorio JobPricing, costruito in collaborazione con il sito di Repubblica.it. E ha provato a darla basando la propria analisi sui dati forniti dai lettori del quotidiano in merito alla propria busta paga.

Si tratta quindi di dati parziali, che non rivestono un valore statistico rilevante ma che aiutano a capire come, dall’inizio della crisi (2008) a oggi, la contrazione dell’economia non abbia influito negativamente solo sull’occupazione ma anche sulla busta paga di molti di noi.

Secondo l’osservatorio, negli ultimi 7 anni gli stipendi più penalizzati dalla crisi sono stati quelli agli estremi opposti della catena produttiva: gli operai hanno perso quasi 1.700 euro di potere d’acquisto complessivo e i dirigenti si sono trovati un totale di quasi 6mila euro in meno in busta paga.

I livelli intermedi come quelli degli impiegati hanno tenuto botta (-254 euro), mentre una ai quadri è andata decisamente peggio: -4mila euro e più.

Nel realizzare la propria indagine, JobPricing ha preso come base la Ral nella parte fissa, calcolando la perdita del potere d’acquisto sull’inflazione Istat per i beni ad altra frequenza d’acquisto. Il risultato: busta paga sempre più povera, grazie alla crisi.

Meno crisi, almeno sul web…

Se è vero che la rete è lo specchio dei tempi che cambiano, lo è ancora di più per quello che riguarda l’impresa, grande o piccola che sia. Un’impresa che, da sette anni a questa parte, ha a che fare con la crisi e con il linguaggio nuovo che essa a portato, online e offline.

Un linguaggio che, a sette anni appunto dallo scoppio della grande crisi, sembra finalmente cambiare, almeno in rete. Stando infatti a un’analisi della Camera di commercio di Milano svolta insieme a VOICES from the Blogs, spin off dell’Università degli Studi di Milano, e realizzata sulle news online dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2014, nel 2014 si parla meno della crisi rispetto al 2013 (-17%) e sono più che raddoppiati i messaggi positivi sull’uscita dal tunnel della crisi: dal 2,2% al 4,8% del totale.

Rimane purtroppo costante il messaggio sulla gravità della crisi, che è oggetto di circa un messaggio su dieci sul tema, mentre si dimezzano in un anno le valutazioni del fenomeno legate ai settori, soprattutto a quello finanziario, o ai riferimenti geografici territoriali o internazionali: da circa un messaggio su dieci a  circa uno su cinque.
Nella classifica delle parole relative alla crisi, in entrambi gli anni c’è in testa “crisi economica”, seguita nel 2014 da “grave crisi”, momento di crisi” ma anche da “uscire dalla crisi”. Nel 2013 al secondo posto c’è “tempi di crisi”, poi “Regione”, Europa”, “grave crisi”.
Secondo la rilevazione della Camera di commercio, se il numero complessivo di post scritti su siti di news on-line che contenevano al loro interno la parola crisi sono stati complessivamente 740mila in 2 anni, la loro pubblicazione si suddivide in circa 406mila per il 2013 (pari al 54,8% del totale) e circa 334mila per il 2014 (pari al 45,2% del totale).

Per quanto riguarda invece i picchi di dibattito sulla crisi, questi sono stati a ottobre 2013, il più alto, e a aprile sempre dello stesso anno. Nel 2014, invece l’andamento è più costante, con punte a febbraio, settembre e fine anno. Se ne parla meno ad agosto in entrambi gli anni. Evidentemente, anche la crisi – o meglio, chi parla di lei – ha preferito prendersi una vacanza…

Risparmiatori italiani pessimisti sul 2015

Nonostante dal governo ci sia chi (leggi il ministro Padoan) lancia segnali confortanti per l’economia italiana nel 2015, i risparmiatori italiani hanno paura. Lo certifica l’ultima indagine dell’indice Altroconsumo Finanza, che ha misurato la fiducia dei risparmiatori italiani a dicembre 2014. Ebbene, questo indice ha registrato un dato pari a 94,2, che è un segno di pessimismo moderato. Secondo la scala di valutazione dell’indice, un valore tra zero e 100 indica pessimismo, uno tra 100 e 200 ottimismo. Quello che colpisce, è che il dato segue un 94,8 registrato a settembre (già di per sé sintomo di preoccupazione) ed è molto al di sotto della media degli ultimi 12 anni, che ha fatto segnare un valore di 99.

I risparmiatori italiani temono quindi che il 2015 vedrà un impoverimento della loro situazione familiare. Lo certifica anche il dato relativo alla fiducia di quello che, da sempre, è considerato il bene rifugio degli italiani per eccellenza, il mattone: fiducia ai minimi, con un valore di 96,5. Se si considera che, per i risparmiatori italiani, questo indice è sceso in area di pessimismo solo tre volte dal 2002, e tutte dopo il 2012, il dato fa riflettere.

Dall’altra parte, l’indice generale relativo alla voglia di investire da parte dei risparmiatori italiani è salito a quota 110,2 dal 106,3 di settembre, segno che vogliono reagire al rischio di un declino economico facendo fruttare il proprio il patrimonio. Contemporaneamente, però, i dati sulla volontà di investire in azioni o di acquistare obbligazioni, sono in calo, anche se sempre in area di ottimismo: 104,5 per le azioni, 104,3 per le obbligazioni. Un’altalena che è lo specchio perfetto dell’incertezza che attanaglia la nostra economia.

Adiconsum contro gli 80 euro di Renzi

Bordata di Adiconsum contro gli 80 euro: non hanno rilanciato i consumi, meglio tassare le transazioni finanziarie, dice il presidente nazionale Pietro Giordano. “Ha ragione il Segretario Generale della Cisl, Anna Maria Furlan: altro che rilancio dei consumi. Con una recessione ancora imperante e una deflazione che rischia di far deflagrare il sistema economico nazionale, gli 80 euro del Governo Renzi sono stati assorbiti dalla tassazione locale e dall’aumento della tassazione attraverso le accise sui carburanti, che oramai superano il 60% del costo della benzina, visto che si continuano a mantenere tasse di scopo anacronistiche, come la guerra di Eritrea o il disastro del Vajont”.

Secondo Giordano e Adiconsum “per superare la crisi e rilanciare i consumi bisognerà passare da un’economia basata sulla finanza, che non produce occupazione, anzi la erode, e che spesso è invece paragonabile ad un ‘casinò finanziario’ che serve solo a far ‘ingrassare’ sempre di più i già ricchi, quando non produce titoli spazzatura e bolle finanziarie che fanno esplodere l’intero sistema economico e sociale del globo, ad un’economia reale”.

“Si vari finalmente – conclude Giordano, voce di Adiconsum – la tassa sulle transazioni finanziarie (0,05%) su ogni compravendita di strumenti finanziari, con particolare riferimento al mercato dei derivati, che hanno costi di transazione molto più ridotti sul mercato spot. Si genererebbe così un gettito annuale di 200 miliardi di euro su scala europea e di 650 miliardi di dollari su scala globale. Gettito che andrebbe destinato al welfare, alla cooperazione, allo sviluppo e alla lotta contro i cambiamenti climatici, senza colpire i piccoli risparmiatori o i fondi pensione”.

Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.

Lavoratori a partita Iva, guerra tra poveri

Abbiamo visto ieri come, secondo la Cgia di Mestre, i lavoratori a partita Iva sono di fatto i nuovi poveri. Tra questa guerra di straccioni, però, c’è sempre chi è più povero degli altri: nello specifico, si tratta delle lavoratrici a partita Iva. In un recente convegno svoltosi a Roma, l’Associazione 20 Maggio ha fatto il punto su questa sconcertante realtà analizzando alcuni dati dell’Inps secondo i quali la media dei compensi di tutti i lavoratori a partita Iva 2013 è di 19mila euro lordi annui. Una miseria, ma se si considera che a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini, il dato appare ancora più scandaloso. Gli uomini percepiscono in media redditi di 23.874 euro, mentre le donne di 12.185.

A proposito di cifre, l’Associazione fa notare che con un compenso lordo medio di 18.640 euro, il reddito netto annuo dei lavoratori a partita Iva iscritti alla Gestione separata si riduce a 8.679 euro, pari a 723 euro mensili. Osservando poi la distribuzione per fasce di età, si nota che su 1 milione e 259mila lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48% del totale) e il 33% ne ha più di 50 anni.

È quindi evidente che il lavoro parasubordinato riguarda soprattutto lavoratori e lavoratrici adulte e con famiglia, queste ultime in maggioranza nella fascia under 39; dopo questa età, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali di cui godono i collaboratori, tendono a lasciare il lavoro in concomitanza con la nascita dei figli. Inoltre, le più colpite dalla disparità di trattamento economico sono le fasce d’età dai 40 a i 49 anni, ossia le lavoratrici all’apice della carriera.

Per non parlare dei giovani lavoratori a partita Iva: tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230mila unità, con un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% nella fascia 25-29 anni. Attenzione alla soglia di povertà…