Prestiti alle imprese? Meglio i titoli di stato

Come sempre accade, anche quando si parla di imprese il bicchiere si può vedere mezzo pieno o mezzo vuoto. Prendiamo i prestiti alle imprese. Secondo i dati presentati dall’Ufficio studi della Cgia, se da un lato il crollo dei prestiti alle imprese sta rallentando, dall’altro per le banche si è registrata un’impennata delle sofferenze che ha avuto sui prestiti alle imprese un riflesso negativo.

Entrando nello specifico delle cifre, da ottobre 2013 a ottobre 2014, i prestiti alle imprese hanno subito un calo di 6 miliardi (pari al -0,7%), mentre dalla fine di ottobre 2011, da quando la stretta dei prestiti alle imprese (o credit crunch) è iniziata, la stretta è di 95 miliardi di euro (-9,4%). Ebbene, nello stesso periodo (ottobre 2013-ottobre 2014) le sofferenze sono cresciute del 25,5% (29 miliardi), mentre dall’ottobre 2011 siamo nell’ordine dell’85,6 di crescita (66 miliardi).

Naturalmente, di fronte a questo scenario le banche hanno deciso di ridurre i prestiti alle imprese privilegiando gli investimenti in Bot, Btp, Cct e Ctz da ottobre 2011 a ottobre 2014 si è passati da uno stock di asset governativi di 208,6 miliardi a 414,3 miliardi. Acquistati con i soldi (255 miliardi) che la Bce ha erogato a tassi vantaggiosissimi alle banche affinché li immettessero nella economia reale. Leggi, effettuassero prestiti alle imprese.

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, “è ancora prematuro stilare un giudizio definitivo. Comunque, secondo i dati di via Nazionale riportati qualche settimana fa dalla stampa specializzata, nello scorso mese di ottobre le banche italiane hanno investito 18,4 miliardi di euro in Btp che rappresentano il 70 per cento dei 26 miliardi di euro che hanno preso in prestito dalla Bce nell’asta TLTRO del settembre scorso. Cosa che non è passata inosservata a Francoforte, visto che Mario Draghi ha annunciato che in occasione delle prossime aste i prestiti dovranno essere assolutamente erogati a famiglie e imprese. Un invito che speriamo sia seguito alla lettera dai nostri istituti di credito”.

Inutile dire che i prestiti alle imprese sarebbero la priorità per cercare di far ripartire l’economia ed evitare i fallimenti. Ma dalla Cgia sono comunque realisti. “Questa operazione non va demonizzata – conclude Bortolussi -. A seguito di questi copiosi investimenti nei titoli di Stato ci siamo riappropriati del nostro debito pubblico che 4 anni fa era per il 40,4 per cento nelle mani degli investitori stranieri; oggi, invece, tale quota è scesa al 34 per cento. Certo, a seguito della contrazione degli impieghi non sono state poche le attività che hanno chiuso i battenti. Pertanto è necessario cambiare rotta”.

La grande mazzata delle tariffe pubbliche

Italiani brava gente, da prendere a mazzate tanto non dice mai niente. Un attacco in rima è quasi come un titolo in rima, un abominio nel giornalismo, ma di fronte ai numeri sulle tariffe pubbliche che testimoniano ancora una volta come noi italiani, cittadini e imprenditori, siamo sempre e solo cornuti e mazziati possiamo anche lasciare correre.

L’Ufficio Studi della Cgia ha infatti calcolato che tra il 2010 e il 2014 le tariffe pubbliche in Italia sono cresciute di ben il 19,1%, a fronte di una media europea dell’11,8%. Peggio di noi ha fatto solo la Spagna con un +23,7%, mentre l’Irlanda è riuscita nella dura missione di fare quanto noi in quanto a rincaro delle tariffe pubbliche. In Francia il rincaro medio delle tariffe pubbliche è stato del 12,9%, in Germania solo del 4,2%.

L’Ufficio studi della Cgia ha anche analizzato la tendenza che hanno seguito le principali tariffe pubbliche in Italia nell’ultimo decennio.

Tra il 2004 e i primi 11 mesi del 2014, in Italia si è registrato un incremento dell’inflazione pari al 20,5%, mentre la crescita delle tariffe pubbliche non è stata certo comparabile: acqua +79,5%, rifiuti +70,8%, elettricità +48,2%,  autostrade +46,5%, ferrovie +46,3%, gas +42,9%, mezzi pubblici +41,6%, taxi + 31,6%, poste +27,9%.

Tra queste tariffe pubbliche mancano all’appello solo i servizi di telefonia, che infatti hanno subito un calo: -15,8%, soprattutto per merito della concorrenza ampia e sana del settore.

Non poteva mancare la voce del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, specialmente per quanto riguarda, il paradosso dei servizi di raccolta rifiuti e delle relative tariffe pubbliche: “Nel nostro Paese i rincari maggiori hanno interessato le tariffe locali. Se per quanto concerne l’acqua i prezzi praticati rimangono ancora adesso tra i più contenuti d’Europa, gli aumenti registrati dai rifiuti sono del tutto ingiustificabili. A causa della crisi economica, negli ultimi 7 anni c’è stata una vera e propria caduta verticale dei consumi delle famiglie e delle imprese: conseguentemente è diminuita anche la quantità di rifiuti prodotta. Pertanto, con meno spazzatura da raccogliere e da smaltire, le tariffe dovevano scendere, invece, sono inspiegabilmente aumentate. Si pensi che nell’ultimo anno, a seguito del passaggio dalla Tares alla Tari, gli italiani hanno pagato addirittura il 12,2 per cento in più, contro una inflazione che è aumentata solo dello 0,3 per cento”.

Del resto lo abbiamo detto all’inizio: nessuno è bravo come noi italiani a farsi spennare, anche e soprattutto se si parla di tariffe pubbliche.

Gli aumenti 2015 danneggiano gli autonomi

Siccome il 2015 si preannuncia come un altro anno difficile per imprese e professionisti, il Governo ha pensato bene di renderlo ancora più difficile mettendo in pista una serie di aumenti 2015 che penalizzeranno soprattutto questi ultimi e gli autonomi.

È vero, i rincari all’inizio di ogni anno sono un classico come la conta dei feriti dopo i botti di San Silvestro, ma questa volta, complice anche la congiuntura economica disastrosa, gli aumenti 2015 suonano ancora più stonati.

I conti li ha fatti la Cgia, che ha messo in fila i 12 aumenti 2015 che ci aspetteranno dall’1 gennaio in poi. Eccoli in rigoroso ordine alfabetico: acqua potabile; benzina e gasolio per autotrazione; birra e prodotti alcolici; contributi previdenziali artigiani e commercianti; contributi previdenziali gestione separata Inps; Iva per acquisto pellet; multe per violazione del codice della strada; pedaggi autostradali; riduzione esenzioni sui capitali percepiti in caso di morte in presenza di assicurazione sulla vita; tassazione fondi pensione; tassazione rivalutazione Tfr; tasse automobilistiche per auto e moto ultraventennali di interesse storico e collezionistico.

Secondo la Cgia, a essere maggiormente colpiti dagli aumenti 2015 saranno, formatori, ricercatori, informatici, creativi e altri consulenti, di norma operanti al di fuori di Ordini e Albi professionali, che lavorano per imprese o enti della Pubblica Amministrazione.

Infatti, come sostiene il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, “i soggetti interessati da questi aumenti saranno in particolar modo gli automobilisti e tutte le categorie professionali che utilizzano quotidianamente un’auto o un camion, come i taxisti, gli agenti di commercio, gli autonoleggiatori o gli autotrasportatori. Oltre all’aumento del costo del carburante, dal 1° gennaio scatteranno il ritocco delle sanzioni in caso di violazione del codice della strada, il probabile aumento medio dei pedaggi autostradali fino all’1,5% e le tasse per le auto/moto storiche. Ma coloro che subiranno gli aumenti più preoccupanti saranno le partite Iva iscritte alla sezione separata dell’Inps. Per questi freelance l’aliquota passerà dal 27,72 al 30,72 per cento”.

Questi aumenti 2015 sono dunque un cane che si morde la coda e l’ennesima trovata depressiva per i consumi interni, la cui picchiata è il vero freno alla ripresa dell’economia. Fa notare ancora Bortolussi: “Sebbene sia stato confermato il bonus Irpef per i redditi medio-bassi e le bollette di luce e gas siano destinate a subire una leggera flessione, nel 2015 i consumi delle famiglie continueranno a ristagnare, attestandosi, secondo le previsioni, attorno ad un modesto +0,6%. Seppur in aumento rispetto agli ultimi anni, con questi livelli di crescita torneremo alla situazione pre-crisi solo fra 10-12 anni. Se vogliamo uscire da questa fase di depressione dobbiamo assolutamente rilanciare la domanda interna attraverso un ripresa degli investimenti, una riduzione del carico fiscale e un conseguente incremento degli impieghi a favore delle famiglie e delle piccole imprese. Le decisioni economiche prese in questi ultimi mesi vanno nella direzione giusta, ma sono ancora troppo timide”.

Pressione fiscale e tax day, i conti della Cgia

Il 16 dicembre scorso è stata una data campale per i contribuenti italiani, che fra Imu, Tari, Tasi, ritenute Irpef e imposte varie hanno versato al fisco la bellezza di 44 miliardi di euro, avendo prova di quanto può essere pesante la pressione fiscale in Italia.

I conti li ha fatti meritoriamente, come sempre, la Cgia, che ha calcolato come il versamento dell’Iva abbia garantito l’importo più cospicuo, 16 miliardi di euro; dalle ritenute Irpef dei lavoratori dipendenti sono arrivati 12 miliardi, mentre l’ultima rata dell’Imu, è costata agli italiani 10,6 miliardi. La Tasi ha portato nelle casse dei Comuni 2,3 miliardi, la Tari 1,9, mentre il versamento dell’Irpef dei lavoratori autonomi ha portato al fisco 1 miliardo. Buone ultime l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione del Tfr e le ritenute sui bonifici per le detrazioni Irpef, con 231 e 72 milioni di euro. E poi si parla di alleggerire la pressione fiscale

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, questo vero tax day è arrivato in un periodo, quello di fine d’anno, molto delicato soprattutto per le aziende: oltre all’impegno con il fisco, in questi giorni devono corrispondere anche le tredicesime ai propri dipendenti. E con il perdurare della crisi, questo impegno economico rischia di diventare per molti imprenditori un vero e proprio stress test. Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà molte famiglie e altrettante piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità”.

Senza contare che, sempre la Cgia, ha stimato come per l’anno che si sta per chiudere, la pressione fiscale in Italia è prevista al 43,3%, un livello tra i più elevati d’Europa. “Ma la pressione fiscale reale – dice Bortolussi – vale a dire quella che grava sui contribuenti onesti, che si misura togliendo dal Pil nominale il “peso” dell’economia non osservata, si colloca appena sotto il 50%, attestandosi, secondo una nostra stima, al 49,5%: oltre 6 punti percentuali in più del dato ufficiale. Un carico fiscale spaventoso”. Una pressione fiscale “reale” che, conclude la Cgia, è giunta a questo risultato perché il Pil nazionale include anche la cifra imputabile all’economia sommersa prodotta dalle attività irregolari che, non essendo conosciute al fisco, non pagano né tasse né contributi.

La crisi pesa sugli ammortizzatori sociali

Ogni crisi ha i suoi costi e quella che stiamo attraversando ne ha di altissimi sul fronte degli ammortizzatori sociali. Secondo un’elaborazione effettuata dall’Ufficio Studi della Cgia, tra il 2009 e il 2013 l’Italia ha pagato 59 miliardi di euro in ammortizzatori sociali, al netto dei contributi figurativi.

Secondo la Cgia, il 72,7% di questi costi per ammortizzatori sociali (pari a 42,8 miliardi) è stato coperto grazie ai contributi versati dai dipendenti e dalle imprese, mentre il restante 27,3% (circa 16 miliardi) è stato a carico della fiscalità generale.

Se analizziamo l’andamento registrato in questi ultimi anni – ha commentato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – notiamo che c’è stato un boom della spesa delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. Dai circa 10 miliardi riferiti al 2009 si è saliti a quota 14,5 nel 2013. Importo, quest’ultimo, che dovrebbe essere raggiunto anche nel 2014. Per contro, invece, la copertura garantita dai contributi versati dalle imprese e dai lavoratori dipendenti è rimasta praticamente la stessa. Se nel 2009 era pari a 8,4 miliardi, nel 2013 è stata di poco superiore ai 9 miliardi di euro. Questo si traduce in un saldo sempre più negativo: ovvero il costo degli ammortizzatori sociali è sempre più a carico della collettività. Era pari poco più di 1,5 miliardi nel 2009, l’anno scorso ha sfiorato i 5,5 miliardi di euro”.

Lo studio della Cgia ha preso in esame il flusso di entrate e uscite relativo a diversi ammortizzatori sociali: Cig ordinaria, Cig straordinaria, Cig straordinaria in deroga, trattamenti di disoccupazione, AspI e mini-AspI, indennità di mobilità. Un’analisi che però non comprende le somme a copertura della contribuzione figurativa garantite dallo Stato, quelle, per capirsi ai fini della maturazione dei requisiti previsti per l’ottenimento della pensione.

In questo quadro diventa esemplare, tra gli ammortizzatori sociali la situazione della Cig in deroga, introdotta all’inizio della crisi per favorire gli occupati della piccola impresa e diventata, da misura straordinaria, una misura strutturale che costa all’Italia circa 1,5 miliardi di euro all’anno. Un costo che ricade su tutti i contribuenti in quanto è finanziata dalla fiscalità generale, diversamente dalla Cig ordinaria, quasi del tutto finanziata attraverso i contribuiti versati dalle imprese e dai lavoratori dipendenti.

Pressione fiscale di record in record

Noi italiani non siamo mai contenti. Abbiamo il record mondiale della pressione fiscale e, nei prossimi anni, siamo destinati a superarlo. Lo dice l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, secondo le cui previsioni la pressione fiscale salirà dal 43,3% attuale, confermato anche per il 2014, al 43,6% previsto sia nel 2016 sia nel 2017.

Una rilevazione che ha dato modo alla Cgia di ricordare come per il 2016 il Governo Renzi dovrà operare una razionalizzazione della spesa per 16,8 miliardi di euro, che salirà a 26,2 nel 2017 per toccare i 28,9 miliardi nel 2018. Se questi risultati non saranno raggiunti, è previsto un nuovo ritocco al rialzo dell’aliquota Iva del 2% a partire dal 1° gennaio del 2016, aumento che varrà sia per quella attualmente al 10%, sia per quella al 22%, con ulteriore aggravio della pressione fiscale.

Dal 1° gennaio 2017 la pressione fiscale si impennerà ancora perché entrambe le aliquote subiranno un altro ritocco dell’1%, mentre dal 1° gennaio 2018 aumenterà di un altro 0,5% solo l’aliquota più elevata. Alla fine del triennio 2016-2018, l’aliquota inferiore potrebbe arrivare al 13 per cento, mentre l’altra al 25,5 per cento.

Di bene in meglio, se non saranno raggiunti gli obiettivi di riduzione della spesa, dal 1° gennaio 2018 scatterà un ulteriore aumento dell’accisa sui carburanti, in modo da assicurare per quell’anno maggiori entrate nette per almeno 700 milioni.

Secco il commento del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi sull’aumento della pressione fiscale: “Un incremento riconducibile al progressivo aumento delle aliquote Iva che avrà inizio a partire dal 2016. Tuttavia, questo aumento di tassazione potrebbe essere evitato se il Governo riuscirà a tagliare la spesa pubblica di quasi 29 miliardi di euro. Il nostro Esecutivo si è impegnato a rispettare i vincoli richiesti da Bruxelles attraverso il taglio della spesa pubblica. Diversamente, scatteranno automaticamente gli aumenti di imposta che garantiranno comunque i saldi di bilancio. In altre parole, se il Governo non riuscirà a tagliare gli sprechi e gli sperperi, a pagare il conto saranno ancora una volta gli italiani che subiranno l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti”.

Pagare tasse è un lavoro

Pagare tasse è un lavoro. Sembra un paradosso, ma se guardiamo al tempo che, mediamente, un italiano butta via per pagare tasse al fisco, scopriamo che è davvero così. I conti in tal senso li ha fatti ancora una volta la Cgia, la quale ha scoperto che lo scorso anno i contribuenti italiani hanno lavorato letteralmente per il fisco fino al 7 giugno, ossia per 158 giorni: 9 giorni in più rispetto alla media dei Paesi dell’area dell’euro e 13 rispetto alla media dei 28 Paesi che compongono l’Ue. E poi pagare tasse non è un impiego a tempo pieno?

L’Ufficio studi della Cgia è arrivato a questo dato esaminando il Pil nazionale di ciascun Paese registrato nel 2013, utilizzando la nuova metodologia di calcolo adottata dall’Eurostat, e lo ha suddiviso per 365 giorni dell’anno. Poi, ha considerato il gettito di imposte, tasse e contributi che i contribuenti europei hanno pagato al Paese di appartenenza e lo ha diviso per il Pil giornaliero. Il risultato ha poi consentito di calcolare il cosiddetto “giorno di liberazione fiscale”, ossia quello in cui di fatto si smette di lavorare solo per pagare tasse al proprio Paese dell’area dell’euro.

Guardando al di fuori dei nostri confini, solo la Francia fa rilevare un dato peggiore del nostro, pari a 174 giorni. In Germania si smette di lavorare per pagare tasse dopo 144 giorni, in Olanda dopo 136 e in Spagna dopo 123.

Interessante è poi il dato ottenuto dall’ufficio studi della Cgia relativamente alla serie storica del “freedom tax day” in Italia dal 1995 al 2013. Dalla metà degli Anni ’90 (147 giorni) al 2005 (143 giorni), i giorni di lavoro necessari per onorare il fisco e pagare tasse hanno subito una riduzione, ma poi sono cresciuti sino a toccare il record di 158 giorni nel 2012, confermato nel 2013.

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, “ad esclusione del Belgio tutti i Paesi federali presentano una pressione fiscale molto inferiore alla nostra, con una macchina statale più snella ed efficiente ed un livello dei servizi offerti di alta qualità. Pertanto, è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale, definire e applicare i costi standard per abbassare gli sprechi e gli sperperi e, nel contempo, ridurre le tasse di pari importo”.

Cementificazione, Italia sotto assedio

Quando si parla di cementificazione del territorio in Italia, spesso non si un’idea precisa della portata del fenomeno che ha trasformato il nostro Paese in una colata di cemento. A far prendere maggiore coscienza dello scandaloso stato dell’arte ci ha pensato l’Ufficio studi della Cgia, che ha elaborato i dati in materia di cementificazione e sfruttamento del suolo diffusi dll’Ispra, l’Istituto superiore per la Ricerca Ambientale.

Secondo l’analisi della Cgia, nel 2012, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, l’estensione del suolo interessato dalla cementificazione o dall’asfalto è stata pari al 7,3% dell’intera superficie nazionale. Le regioni meno virtuose in tal senso (e più popolate) sono Lombardia e Veneto (entrambe col 10,6%), Campania (9,2%), Lazio (8,8%), Emilia Romagna (8,6%), Puglia e Sicilia (a pari merito con l’8,5%).

Se si parla di aumento percentuale della cementificazione, i dati della Cgia fanno ancora più riflettere. A fronte di una media nazionale del +1,9%, gli aumenti a livello regionale registrati tra il 1989 e il 2012 sono impressionanti: il Veneto ha fatto registrare un incremento doppio, +3,8%, il Lazio +2,9%, la Sicilia +2,6%, le Marche +2,5%, la Lombardia +2,4%.

Considerando che la cementificazione è strettamente legata al dissesto idrogeologico che tanti danni ha creato anche con le recenti alluvioni, la Cgia fa notare che nelle regioni più piccole come Basilicata, Calabria, Umbria, Valle d’Aosta e Molise il 100% dei comuni è a rischio. In riferimento a questa criticità, il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi ha commentato: “Le realtà maggiormente interessate dalla cementificazione sono anche quelle che in questi ultimi anni hanno subìto i danni ambientali più pesanti a seguito di allagamenti, esondazioni, frane e smottamenti, che hanno martoriato i residenti di questi territori. In altre parole, dove si è costruito di più, i dissesti idrogeologici sono stati maggiori”.

Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.