Lavoratori a partita Iva, guerra tra poveri

Abbiamo visto ieri come, secondo la Cgia di Mestre, i lavoratori a partita Iva sono di fatto i nuovi poveri. Tra questa guerra di straccioni, però, c’è sempre chi è più povero degli altri: nello specifico, si tratta delle lavoratrici a partita Iva. In un recente convegno svoltosi a Roma, l’Associazione 20 Maggio ha fatto il punto su questa sconcertante realtà analizzando alcuni dati dell’Inps secondo i quali la media dei compensi di tutti i lavoratori a partita Iva 2013 è di 19mila euro lordi annui. Una miseria, ma se si considera che a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini, il dato appare ancora più scandaloso. Gli uomini percepiscono in media redditi di 23.874 euro, mentre le donne di 12.185.

A proposito di cifre, l’Associazione fa notare che con un compenso lordo medio di 18.640 euro, il reddito netto annuo dei lavoratori a partita Iva iscritti alla Gestione separata si riduce a 8.679 euro, pari a 723 euro mensili. Osservando poi la distribuzione per fasce di età, si nota che su 1 milione e 259mila lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48% del totale) e il 33% ne ha più di 50 anni.

È quindi evidente che il lavoro parasubordinato riguarda soprattutto lavoratori e lavoratrici adulte e con famiglia, queste ultime in maggioranza nella fascia under 39; dopo questa età, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali di cui godono i collaboratori, tendono a lasciare il lavoro in concomitanza con la nascita dei figli. Inoltre, le più colpite dalla disparità di trattamento economico sono le fasce d’età dai 40 a i 49 anni, ossia le lavoratrici all’apice della carriera.

Per non parlare dei giovani lavoratori a partita Iva: tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230mila unità, con un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% nella fascia 25-29 anni. Attenzione alla soglia di povertà…

Lavoratori autonomi, i nuovi poveri

Quando ci sono di mezzo studi e ricerche della Cgia sui lavoratori autonomi, spesso i temi vengono affrontati in maniera volutamente provocatoria e “sopra le righe”, ma in questo caso la tematica è brutalmente cruda nel suo essere semplice ed evidente: secondo l’Ufficio Studi dell’associazione, tra i lavoratori autonomi 1 su 4 è a rischio povertà.

Il dato emerge da una ricerca secondo la quale nel 2013 il 24,9% delle famiglie in cui i lavoratori autonomi portano a casa il reddito principale ha vissuto con un reddito disponibile inferiore a 9.456 euro annui, che è la soglia di povertà calcolata dall’Istat.

Per le famiglie con reddito da pensioni, il 20,9% ha percepito entro la fine dell’anno un reddito inferiore della soglia di povertà, mentre per quelle dei lavoratori dipendenti il tasso si è fermato al 14,4%, ossia quasi la metà rispetto al dato riferito alle famiglie dei lavoratori autonomi.

Secondo la Cgia, dal 2008 al primo semestre di quest’anno i lavoratori autonomi che hanno chiuso l’attività sono stati 348.400, pari a una contrazione del 6,3%. Il numero dei lavoratori dipendenti, invece, si è ridotto di 662.600 unità, in termini percentuali un -3,8%. Sempre paragonando lavoratori autonomi e dipendenti, la Cgia fa notare che il reddito delle famiglie dei primi ha subito in questi ultimi anni un taglio di oltre 2.800 euro (-6,9%), mentre quello dei dipendenti è rimasto pressoché identico.

I lavoratori autonomi hanno sofferto specialmente al Sud. Tra il 2008 e il primo semestre di quest’anno la riduzione delle partite Iva nel Mezzogiorno è stata del 9,9% (pari a -160.000 unità), nel Nord Ovest del 7,8% (-122.800 unità), nel Nord Est del 4,3% e nel Centro dell’1,3 per cento.

Allarmato il commento del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi: “A differenza dei lavoratori dipendenti quando un autonomo chiude definitivamente bottega non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassaintegrazione in deroga e/o ordinaria/straordinaria. Una volta chiusa l‘attività ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di un nuovo lavoro. Purtroppo non è facile trovarne un altro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento costituiscono una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero”.

È quindi evidente che, a quasi sette anni dallo scoppio della crisi, il cosiddetto ceto medio è sempre più in difficoltà: oggi, quello composto dai lavoratori autonomi è il corpo sociale che più degli altri è scivolato verso il baratro della povertà e dell’esclusione sociale.

La crisi mette in ginocchio l’artigianato

L’artigianato sta conoscendo un periodo di forte crisi.
I dati, a questo proposito, parlano chiaro: tra il 2009 e i primi nove mesi del 2014, infatti, più di 91mila imprese hanno dovuto alzare bandiera bianca.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, il cui Ufficio Studi ha effettuato questa indagine, ha commentato così questa situazione: “Nonostante la crisi economica abbia cancellato a livello nazionale ben 91.000 aziende artigiane, i giovani, soprattutto nel comparto casa, costituiscono la maggioranza degli addetti. E’ un segnale molto importante che squarcia un quadro generale molto critico. A nostro avviso ciò è dovuto a due motivi. Il primo: questi mestieri, legati al mondo dell’edilizia, impongono una forza e una tenuta fisica che difficilmente possono essere richiesti a dei lavoratori di una certa età. Il secondo: il forte aumento del numero dei diplomati avvenuto in questi ultimi anni nel settore edile, elettrico e termoidraulico ha favorito l’ingresso di molti ragazzi nel mercato del lavoro. In generale, malgrado le difficoltà e i problemi che sta vivendo il nostro settore, i giovani stanno ritornando all’artigianato, ma non ai vecchi mestieri. Dai nostri dati, ad esempio, gli artigiani che lavorano il vetro artistico, i calzolai, gli artigiani del cuoio, delle pelli e quelli e i sarti corrono il rischio, fra qualche decennio, di estinguersi”.

Per quanto riguarda l’ubicazione delle imprese che sono state costrette a chiudere, una su due si trovava al Nord, con picchi in Lombardia, dove all’appello mancano 12.496 aziende, seguita dall’Emilia Romagna (-11.719), il Veneto (- 10.944) e il Piemonte (-8.962).

Tra i settori che maggiormente hanno sofferto la contrazione numerica, ci sono sicuramente quello delle costruzioni/installazione impianti (-42.444), ma anche le attività manifatturiere (- 31.256), i carrozzieri e le autofficine (- 15.973).

Al contrario, in espansione ci sono i servizi alla persona (parrucchieri, estetiste, massaggiatori, etc.), con un saldo pari a + 1.405 attività, le gelaterie e le pasticcerie, con +5.579 imprese, e le attività di pulizia/giardinaggio, con + 10.497 aziende artigiane.

Ma quali sono le cause che hanno portato a questa crisi?
In primo luogo i costi, che hanno cominciato a lievitare tanto da registrare un picco del 21% dal 2008 al 2013 nell’energia, e del 23,5% per il gasolio.
Anche la Pubblica Amministrazione è colpevole di aver causato disagi alle imprese artigiane, poiché, nello stesso lasso di tempo, ha aumentato di 35 giorni i pagamenti ai suoi fornitori.

Le banche, ovviamente, ci hanno messo del loro, se consideriamo che in questi sei anni gli affidamenti bancari alle imprese con meno di 20 addetti sono diminuiti del 10%, con un taglio complessivo alle micro imprese di ben 17 miliardi di euro.

Infine, le tasse e la burocrazia: dopo la rivalutazione del Pil, nel 2013 la pressione fiscale in Italia si è stabilizzata al 43,3 per cento: picco massimo mai raggiunto in passato, anche se per le micro imprese il carico fiscale supera abbondantemente il 50 per cento.
La burocrazia costa al mondo delle imprese italiane 31 miliardi di euro all’anno. Ciò implica che su ogni impresa grava mediamente un costo annuo pari a 7 mila euro. A differenza di quelle più grandi, le piccolissime imprese non possiedono una struttura amministrativa al proprio interno, che quindi si vedono costrette ad avvalersi dei servizi di professionisti esterni, con una conseguente spesa ben più alta della media.

Vera MORETTI

Pioggia di tasse tra novembre e dicembre

Come era accaduto questa estate, quando, tra giugno e luglio, gli italiani erano stati chiamati ad una serie di incombenze burocratiche da rispettare, ora, tra novembre e dicembre, sono in arrivo altrettante incombenze fiscali, una dietro l’altra.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dichiarato in proposito: “Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà moltissime piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità. Un periodo, quello di fine d’anno, molto delicato per le aziende: oltre all’impegno con il fisco devono corrispondere anche le tredicesime ai propri dipendenti. E con il perdurare della crisi, questo impegno economico costituirà un vero e proprio stress test”.

Sono state contate a quasi un centinaio, tra i quali troviamo l’addizionale regionale all’accisa sul gas naturale, l’imposta provinciale di trascrizione, l’imposta sulle riserve matematiche e le sovraimposte di confine sui gas, gli spiriti, i fiammiferi, i sacchetti di plastica non biodegradabili, la birra e gli oli minerali.

Le prime dieci imposte sono, invece, Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta sugli oli minerali, Imu, imposta sui tabacchi, addizionale Irpef regionale, ritenute sugli interessi e altri redditi da capitale e l’imposta sul lotto, che hanno garantito nel 2013 oltre l’83% del gettito tributario.

A seguito di queste scadenze, lo Stato e le Autonomie locali riceveranno 487,5 miliardi di euro e, aggiungendo i contributi sociali, che ammontano a 216 miliardi, il gettito fiscale, nel 2014, sfiorerà 704 miliardi di euro.

Vera MORETTI

Tasi dannosa per gli immobili commerciali

La Tasi rischia di diventare una vera e propria nemica per negozi e capannoni, poiché, secondo la stima della Cgia, potrebbe subire un’impennata ed aumentare di 140 euro per i primi e di quasi 400 euro per i secondi, rispetto al 2013.

A fronte di queste cifre, il carico fiscale sugli immobili ad uso commerciale e produttivo relativo all’anno in corso potrebbe ammontare a 1,6 miliardi di euro.

Gli aumenti di imposta assumono dimensioni ancor più preoccupanti se il confronto viene eseguito rispetto al 2011, anno in cui si è pagata per l’ultima volta l’Ici, l’incremento del carico fiscale rischia di essere addirittura esponenziale: per i capannoni potrebbe sfiorare l’ 89%, per i negozi addirittura il 133%.

Per il 2014, invece, si è ipotizzato che i Comuni applichino la medesima aliquota Imu del 2013 e aumentino al massimo quella della Tasi: operazione molto diffusa in gran parte dei Comuni capoluogo di provincia che hanno già deliberato per il 2014.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dchiarato a proposito: “Negli ultimi anni l’incremento della tassazione a livello locale è stato a dir poco eccessivo. Per quanto riguarda gli immobili, con l’Imu e, da quanto si è capito fino a ora, anche con la Tasi, i Sindaci hanno cercato, nel limite del possibile, di non penalizzare le abitazioni principali a discapito delle seconde/terze case e degli immobili ad uso strumentale. E’ bene che ora gli Enti locali facciano attenzione: un ulteriore aumento del carico fiscale sugli immobili produttivi e commerciali potrebbe mettere fuori mercato molte aziende che sono sempre più con l’acqua alla gola per la mancanza di liquidità”.

  • Rispetto al 2013, sono due i fattori che rischiano di far aumentare nuovamente il peso fiscale sugli immobili strumentali:
    la riduzione della quota di Imu deducibile ai fini delle imposte dirette che scende dal 30 per cento del 2013 al 20 per cento previsto per quest’anno;
  • l’introduzione della Tasi (il nuovo tributo sui servizi indivisibili), in sostituzione della maggiorazione Tares.

Dall’analisi delle delibere dei Comuni capoluogo di provincia che hanno approvato quest’anno le aliquote Imu e Tasi sui fabbricati ad uso produttivo e sui negozi, si è rilevato che negli ultimi due anni l’aliquota media Imu ha superato il 9 per mille, discostandosi in maniera significativa dall’aliquota base del 7,6 per mille.
Per quanto riguarda la Tasi, invece, moltissimi Sindaci hanno applicato l’aliquota massima che gli ha consentito di raggiungere l’aliquota massima dell’11,4 per mille.

Vera MORETTI

Per gli italiani ancora tante tasse

La Cgia, e precisamente il suo Ufficio Studi, ha fatto i conti nelle tasche degli italiani, pensando in particolare a quanto devono spendere annualmente di tasse.

E’ emerso che ogni famiglia è chiamata a sborsare ben 15.330 euro suddivisi tra l’Irpef e le relative addizionali locali, le ritenute, le accise, il bollo auto, il canone Rai, la tassa sui rifiuti, i contributi a carico del lavoratore.
Ciò significa che ogni mese un nucleo familiare registra uscite pari a 1.277 euro solo di tasse, ovvero uno stipendio medio di un impiegato.

A questo proposito, considerando che quest’anno pesa sulla testa degli italiani anche la spada di Damocle della Tasi, Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dichiarato: “Pur essendo un Paese di tartassati i servizi che riceviamo dallo Stato spesso non sono all’altezza delle aspettative. Dalle infrastrutture alla sanità, dai trasporti all’istruzione, in molte regioni la qualità e la quantità di questi servizi è spesso inaccettabile. Nonostante la restituzione degli 80 euro ai redditi più bassi con un carico fiscale di questa portata sarà difficile rilanciare i consumi delle famiglie. Il livello di arrabbiatura raggiunto nei confronti di un fisco sempre più aggressivo e pretenzioso, ha fatto scendere ai minimi storici la fiducia dei consumatori italiani. Con gli effetti della crisi che non accennano a diminuire e un fisco sempre più esoso, i bilanci familiari rischiano di rimanere ancora in rosso, penalizzando anche quelli degli artigiani e dei piccoli commercianti che vivono quasi esclusivamente dei consumi del territorio in cui operano”.

La montagna di tasse e contributi che grava sulle spalle degli italiani emerge in maniera altrettanto evidente quando si analizza la serie storica del cosiddetto Tax freeedom day.
Sempre secondo i calcoli effettuati dall’Ufficio studi della Cgia, con una pressione fiscale che per il 2014 è destinata a toccare il record storico del 44 per cento, quest’anno i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino alla prima decade di giugno, ovvero 12 giorni in più di quanto avevano fatto nel 1995, quando, però, la pressione fiscale era inferiore di oltre 3 punti percentuali.

Continua Bortolussi: “Gli effetti legati alla rivalutazione delle rendite finanziarie, all’aumento dell’Iva, che nel 2014 si distribuisce su tutto l’arco dell’anno, all’introduzione della Tasi e, soprattutto, all’inasprimento fiscale che graverà sulle banche, compensano abbondantemente il taglio dell’Irap e gli 80 euro lasciati in busta paga ai lavoratori dipendenti con redditi medio bassi. Al netto delle modifiche che potrebbero essere introdotte nella nota di aggiornamento al Def che sarà presentata nelle prossime settimane, la pressione fiscale di quest’anno è destinata a salire di 0,2 punti percentuali rispetto al livello raggiunto nel 2013”.

Vera MORETTI

Niente tagli alla spesa pubblica? 10 miliardi di tasse in più

La scorsa settimana, con la sua informativa, il ministro dell’Economia Padoan aveva lanciato l’allarme sulla necessità assoluta del taglio della spesa pubblica improduttiva per evitare ulteriori impennate delle tasse. Una presa di posizione che è stata subito fatta propria dalla Cgia, che per bocca del segretario Giuseppe Bortolussi ha dichiarato: “Dobbiamo sperare nel taglio della spesa pubblica improduttiva, altrimenti nel prossimo biennio pagheremo 10 miliardi di euro di nuove tasse: 3 nel 2015 e altri 7 nel 2016”.

Secondo il Def approvato nella primavera scorsa, nel triennio 2014-2016 il Governo si impegna a tagliare a regime laspesa pubblica per un importo di 32 miliardi. Per l’anno in corso, dice la Cgia, l’obiettivo è di raggiungere una riduzione delle uscite di 4,5 miliardi.

La situazione diventa ancor più impegnativa per gli anni a venire. Nel 2015 il Governo ha infatti deciso di tagliare la spesa pubblica di17 miliardi , con un impegno minimo da raggiungere che non potrà essere inferiore ai 4,4 miliardi .

Nel caso il Governo non sia in grado di centrare questo obiettivo minimo, scatterà la cosiddetta “clausola di salvaguardia”: a fronte del mancato taglio della spesa pubblica, i contribuenti saranno chiamati a sopportare un aggravio fiscale di 3 miliardi, a seguito della riduzione delle agevolazioni/detrazioni fiscali e all’aumento delle aliquote. I ministeri , dal canto loro, dovranno razionalizzare la spesa per un importo di 1,44 miliardi.

Nel 2016 l’impegno sarà ancora più gravoso. A fronte di una contrazione delle uscite che dovrà salire a 32 miliardi, l’obbiettivo minimo sarà di 7 miliardi di tagli alla spesa pubblica, altrimenti scatterà la clausola di salvaguardia per tutti i cittadini, mentre i ministeri dovranno tagliare le uscite per 1,98 miliardi.

Nel 2017 e 2018 le risorse già impegnate dal taglio della spesa pubblica ammontano rispettivamente a11,9 e 11,3 miliardi. Il raggiungimento di questo risparmio di spesa è garantito da apposite clausole di salvaguardia, che consistono nel taglio delle risorse a disposizione dei Ministeri, e da un aumento della tassazione per i cittadini di 10 miliardi nel 2017 e di altri 10 miliardi  nel 2018.

Imposte patrimoniali, croce degli italiani

Quanti italiani, privati cittadini o imprenditori, hanno avuto a che fare nella vita con il salasso delle imposte patrimoniali? Moltissimi, pensiamo, per la gioia soprattutto dello Stato. Secondo una ricerca condotta dall’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, nel 2013 le imposte patrimoniali che pesano sui contribuenti italiani hanno portato nelle casse dell’erario la bellezza di 41,5 miliardi di euro. Secondo l’Ufficio studi, la situazione per l’anno in corso è destinata a peggiorare ulteriormente.

L’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha considerato nella sua ricerca le seguenti imposte patrimoniali: imposta di registro e sostitutiva; imposte di bollo; imposta ipotecaria; diritti catastali; ICI/IMU; bollo auto; canoni su telecomunicazioni e RAI; imposta sulle transazioni finanziarie; imposta sul patrimonio netto delle imprese; imposta su secretazione dei capitali scudati; imposte sulle successioni e donazioni; imposta straordinaria sugli immobili; imposta straordinaria sui depositi; imposta sui beni di lusso.

Dopo un’attenta analisi, l’Ufficio Studi ha rilevato che nel 2012 il gettito delle imposte patrimoniali è cresciuto, rispetto al 2011, di 13.950 milioni di euro (+46%) e che nel 2013 si è registrata una temporanea flessione dovuta principalmente all’abolizione dell’Imu sulle abitazioni principali.

Proprio l’Imu è, in termini di gettito, l’imposta più onerosa per le gli italiani: lo scorso anno ha garantito alle casse dello Stato e dei Comuni la bellezza di 20,2 miliardi di euro. Molto a distanza seguono l’imposta di bollo (6,6 miliardi), il bollo auto (5,9) e l’imposta di registro (4,3). Una classifica poco invidiabile, questa delle imposte patrimoniali riscosse dallo Stato italiano, che l’Imu si aggiudica a mani basse

Secondo il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, “con l’introduzione della Tasi nel 2014ritorneremo a pagare quanto abbiamo versato nel 2012: attorno ai 44 miliardi di euro. Si pensi che dal 1990 il gettito è addirittura quintuplicato. Le più onerose sono l’Imu, l’imposta di bollo, il bollo auto e l’imposta di registro: i versamenti di queste quattro imposte incidono sul gettito totale per oltre l’89%”.

Veneto: in calo il numero di lavoratori irregolari

Una buona notizia arriva dal Veneto e fa ben sperare che possa espandersi anche in altre regioni.

Tramite l’Ufficio Studi della Cgia, infatti, è emerso che nel Veneto è stato registrato un forte calo del numero dei lavoratori in nero, nel periodo tra il 2007 e il 2012.
La diminuzione dei lavoratori irregolari è del 9,7%, pari a 19.500, che ha contribuito a far scendere l’esercito dei lavoratori in nero a 181.000 unità nell’intera regione.
Nel Nordest è stato registrato un calo pari a 30.900 unità, pari a 10.1%.

Giuseppe Bortolussi ha commentato a proposito: “La crisi ha tagliato drasticamente la disponibilità di spesa delle famiglie venete. Pertanto, anche per le piccole manutenzioni, per i lavori di giardinaggio o per le riparazioni domestiche non si ricorre nemmeno più al dopolavorista o all’abusivo. Questi piccoli lavori o non vengono più eseguiti, oppure si sbrigano in casa. In questi anni, infatti, abbiamo assistito ad un vero e proprio boom del cosiddetto fai da te casalingo: di persone che di fronte ad un guasto o a una rottura si sono messe a fare l’idraulico, l’elettricista, il fabbro o il falegname. Certo, non tutti i settori hanno subito una contrazione della presenza degli abusivi. In quello della cura alla persona (parrucchieri, estetiste, massaggiatori, etc.), tra i dipintori, nel settore della riparazione auto e nel trasporto persone l’aumento degli irregolari è stato molto preoccupante. Senza voler colpevolizzare nessuno ricordo che oltre il 40% dei lavoratori in nero, del valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa e del gettito di imposta evasa, sono riconducibili alle Regioni del Mezzogiorno, mentre il Nordest, in passato additato come un’area ad alta vocazione al sommerso, è la macro area meno interessata da questo fenomeno“.

Vera MORETTI

Debiti PA: gli italiani rimangono i maggiori pagatori

Il problema dei ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione sta diventando sempre più drammatico, tanto che, secondo un’elaborazione dell’Ufficio Studi della Cgia su dati Intrum Justitia relativi a un’indagine effettuata nei primi tre mesi di quest’anno, un’impresa italiana su cinque è stata costretta a licenziare a causa degli effetti negativi dovuti ai ritardi nei pagamenti.

Ha commentato Giuseppe Bortolussi: “Nonostante il dato sia inferiore a quello registrato nei principali paesi Ue è drammatico che in l’Italia, con un tasso di disoccupazione che ormai galoppa verso il 13 per cento, molte aziende siano costrette ad espellere una parte del personale perché non vengono pagate con regolarità”.

Questi dati confermano che gli italiani sono i peggiori pagatori d’Europa.
Qualche esempio? Mediamente la nostra Pubblica amministrazione paga le imprese a 165 giorni (+ 107 giorni rispetto la media europea), nei rapporti commerciali tra imprese ci vogliono 94 giorni affinché il committente saldi il proprio fornitore (+ 47 giorni rispetto la media Ue).
Anche nei rapporti tra privati (cioè cittadini/famiglie) e imprese, la situazione rimane difficile: sono necessari mediamente 75 giorni per essere definitivamente pagati (41 in più della media Ue). In tutti e tre i casi appena descritti, nessun altro Paese d’Europa fa peggio di noi.

Si pensi che nel rapporto tra Pubblica amministrazione e imprese in Bosnia i pagamenti avvengono in 41 giorni, in Serbia in 46 e in Grecia in 155.

Nel confronto tra l’Italia, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna, solo da noi si sono allungati i giorni necessari affinché il committente saldi il pagamento al proprio fornitore.
Se tra privati (vale a dire cittadini/famiglie) e le imprese l’aumento è stato di 5 giorni, nelle transazioni commerciali tra imprese è salito di 6.
Drammatica, invece, la situazione nei rapporti tra Pubblica amministrazione e i propri fornitori: i pagamenti si sono allungati di ben 37 giorni, sebbene dal 2011 la nostra Pa ha cominciato a migliorare la sua performance.

Ha aggiunto il segretario della Cgia: “Le lungaggini burocratiche, il cattivo funzionamento degli uffici pubblici, i vincoli economici legati al Patto di stabilità interno, l’abuso di posizione dominante del committente e la mancanza di liquidità sono alcune delle motivazioni che consegnano al nostro Paese la maglia nera nella correttezza dei pagamenti. Nonostante dal 1° gennaio 2013 la legge stabilisca che il Pubblico deve pagare entro 30/60 giorni, mentre i privati tra i 60/90 giorni, queste disposizioni continuano a essere palesemente inapplicate, con ricadute molto pesanti soprattutto per le piccole imprese che dispongono di un potere contrattuale molto limitato”.

Nel biennio 2013-2014 sono stati stanziati 47 miliardi di euro. Ad oggi sono stati pagati circa 23,5 miliardi di euro, mentre il Ministero dell’Economa ha annunciato nei gironi scorsi l’avvio di una procedura di erogazione di un’altra tranche per gli Enti locali pari a 1,8 miliardi.

La Legge di Stabilità 2014 prevede che il Governo Renzi abbia, per l’anno in corso, un intervento da 13 miliardi.

Vera MORETTI