Stipendi pubblici più alti di quelli privati

I lavoratori statali, nonostante abbiano gli stipendi bloccati dal 2011, guadagnano di più rispetto ai lavoratori privati, e, per la precisione, in media ricevono, in un anno, 2000 euro in più.

Questi dati sono stati resi noti da una ricerca effettuata dall’Ufficio Studi della Cgia, che ha messo a confronto le retribuzioni medie lorde dei dipendenti pubblici con quelle dei privati.
Ecco il risultato: se nel 2014 i primi hanno portato a casa mediamente 34.286 euro, i secondi, invece, 32.315 euro. Negli ultimi venti anni (1995-2014) sia gli stipendi degli uni sia quelli degli altri sono aumentati di quasi il 70%, anche se tra il 1995 e il 2010 l’incremento nel privato è stato del 58,9%, mentre nel pubblico la crescita è stata del 70,8%.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dichiarato in proposito: “Pur avendo contribuito a ridurre la spesa, il blocco degli stipendi adottato in questi anni ha penalizzato soprattutto le soglie retributive più basse. Negli ultimi 20 anni, infatti, queste ultime sono cresciute molto meno dei livelli retributivi medio alti, senza che ciò abbia avuto degli effetti positivi sulla produttività e sull’ efficienza dei dirigenti e degli alti funzionari pubblici”.

Chi se la passa meglio sono i dipendenti degli enti previdenziali, come Inps e Inail, per i quali, nel 2014, il dato medio lordo è stato pari a 44.199 euro.
Seguono i dipendenti delle Amministrazioni locali (Comuni, Province e Regioni), con 35.651 e gli statali (occupati nelle Amministrazioni centrali) che ricevono mediamente 33.003 euro lordi all’anno.

Vera MORETTI

L’Italia non è un Paese per giovani

L’Italia continua ad essere ostile ai giovani, nonostante sia ormai chiaro che, se non si dà loro lo spazio che meritano, si mette a repentaglio il futuro di un intero Paese, troppo ancorato su convinzioni e tradizioni ormai obsolete.

La Cgia Mestre ha confermato questo trend, che non accenna a calare né tantomeno ad invertire la rotta, mettendo in evidenza un preoccupante squilibrio tra gli assegni staccati ai pensionati e gli investimenti destinati all’istruzione.

Dati alla mano, è emerso che l’Italia è il Paese europeo che spende di più per pagare le pensioni (poco meno di 270 miliardi di euro, pari al 16,8% del Pil) ed è, invece, al penultimo posto per le risorse destinate alla scuola (65,5 miliardi di euro corrispondenti al 4,1% del Pil).
Ciò significa che la spesa pensionistica del Belpaese è quattro volte superiore a quella scolastica.

Ma non basta. In nessun altro Paese dell’Unione europea, il gap tra questi due capitoli di spesa risulta così marcato.
La media europea si attesta a 2,6, con pensioni che costano mediamente 2,6 volte ciò che costa l’istruzione), mentre in Paesi come la Francia e la Germania, dove il numero complessivo dei pensionati risulta addirittura superiore al nostro, il rapporto tra spesa pensionistica e spesa scolastica è rispettivamente di 2,7 e 2,5.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha aggiunto: “I dati riferiti all’Italia sono in parte condizionati dal trend demografico. Tuttavia, non possiamo disconoscere che le politiche di spesa realizzate negli ultimi quarant’anni abbiano privilegiato, in termini macroeconomci, il passato, ovverosia gli anziani, anziché il futuro, cioè i giovani”.

Vera MORETTI

Blocco rivalutazione pensioni? Costa 16 miliardi

Continuano a imperversare le stime sulle cifre che lo stato dovrebbe pagare a causa della sentenza della Consulta che ha considerato incostituzionale il mancato adeguamento Istat delle pensioni disposto dal governo Monti con il “Salva Italia”, che ha colpito 5 milioni di pensionati.

Secondo la Cgia l’importo per “risarcire” queste pensioni sarebbe di 16,6 miliardi, calcolati al netto dell’Irpef. Una stima arrivata a pochi giorni dal quella elaborata dalla Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, che si fermava molto al di sotto di questa cifra, a 6 miliardi.

Sempre secondo l’analisi elaborata dalla Cgia, il blocco avvenuto nel 2012-2013 ha interessato i pensionati che percepiscono un assegno mensile netto superiore a 1088 euro, mentre da altre stime si parlava di pensioni con importi intorno ai 1400-1500 euro mensili.

Sia come sia, la stima della Cgia è piuttosto scioccante ed è il risultato di un’elaborazione fatta in base ai dati sulle pensioni riferiti al 2012. Inoltre, nonostante il pronunciamento della Consulta riguardasse la norma che non riconosceva la rivalutazione per gli anni 2012-2013 degli assegni di importo superiore di tre volte il trattamento minimo, la Cgia ha esteso il calcolo degli effetti sul 2014-2015, dal momento che l’attualizzazione relativa a questo biennio è stata effettuata su un importo mensile minore, derivato della normativa dichiarata incostituzionale.

Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, commenta così il calcolo e le sue conseguenze sul governo e sulle pensioni: “Pare di che il governo non darà luogo ad alcuna manovra correttiva per recuperare le risorse da restituire ai pensionati. Se questa posizione dovesse essere confermata, come si farà fronte a questa situazione visto che solo per sterilizzare le clausole di salvaguardia previste per l’anno prossimo il Governo dovrà tagliare la spesa pubblica di almeno 16 miliardi di euro?”.

Modello 730 più caro che nel 2014

Non bastava l’incertezza intorno alle modalità di integrazione dei dati contenuti all’interno del modello 730 precompilato. Ora pare anche che in questo 2015 per la presentazione del modello 730 alle Entrate, buona parte dei contribuenti pagherà più di quanto sborsato nel 2014, nonostante le promesse fatte nei mesi scorsi dal Governo.

I calcoli, come spesso in questi casi, li ha fatti la Cgia, la quale, per bocca del segretario Giuseppe Bortolussi, ha stimato che si tratta di “un’operazione che, secondo l’Agenzia delle Entrate, interesserà oltre 14 milioni e 300mila modelli, pari al 71,5% su un totale nazionale di quasi 20 milioni di modelli precompilati. A nostro avviso, almeno i due terzi dei contribuenti, pari in termini assoluti a circa 10 milioni, saranno costretti a ricorrere ad un intermediario fiscale”.

I contribuenti che decideranno di affidarsi a un Caf o a un professionista per la regolazione del modello 730 (probabilmente la maggior parte, vista la complessità dell’operazione, a dispetto di quanto dichiarato dalle Entrate…) devono infatti sapere che, da quest’anno, l’intermediario per la compilazione del modello 730 affronta una responsabilità, in caso di errore, non solo relativa a sanzioni e interessi, ma anche relativa all’imposta, sia che elabori un modello 730 precompilato sia da compilare.

In sostanza, fino all’anno scorso in caso di errore il contribuente rispondeva della imposta e l’intermediario delle sanzioni, mentre da quest’anno l’intermediario risponde di entrambe, nonostante l’imposta sia una voce personale del contribuente. Ecco perché, per tutelarsi in caso di errore, ai Caf e ai professionisti è stato richiesto di adeguare il massimale della polizza assicurativa, operazione che ha fatto aumentare i costi per il contribuente, utente finale del servizio relativo al modello 730.

Amara la conclusione di Bortolussi: “Alla luce di ciò i Caf, a seconda della complessità, stanno facendo pagare l’elaborazione dei modelli cosiddetti precompilati che, fino all’anno scorso, erano gratuiti. Una vera beffa: nonostante le promesse fatte nei mesi scorsi, la stragrande maggioranza dei contribuenti che dovranno modificare il precompilato sarà chiamata a pagare di più”.

Tfr in busta paga, ci siamo

Alla fine, con qualche difficoltà in più del previsto, il Tfr in busta paga sarà realtà dal mese di aprile 2015. La norma avrebbe dovuto essere effettiva già a partire dal corrente mese di marzo, ma il decreto che l’ha resa operativa è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo il 19 marzo, ragion per cui chi aveva già fatto richiesta del Tfr in busta paga a partire da marzo si è trovato spiazzato.

Uno spiazzamento che, in un certo senso, potrebbe anche essere salutare dal momento che forse non è chiaro a tutti che la misura del Tfr in busta paga, voluta dal governo per rimpinguare le retribuzioni dei richiedenti in modo da poter rilanciare i consumi interni con una maggiore potenzialità di spesa, è in realtà un boomerang. Ossia, non conviene.

L’anticipo del Tfr in busta paga è infatti soggetto alla tassazione ordinaria e non a quella separata, ragion per cui, da più parti si sottolinea come sia più conveniente ricevere l’intero Tfr alla fine della propria carriera lavorativa anziché anticipato in busta paga.

Il Tfr percepito a fine carriera è infatti tassato separatamente secondo la media delle aliquote degli ultimi cinque anni, nelle quali compaiono anche le detrazioni per lavoro e per i carichi familiari. In caso di Tfr in busta paga, la quota di Tfr va a costituire reddito, con conseguente aumento della tassazione con l’aliquota marginale, quella che interessa la parte più alta del reddito.

Naturalmente, l’aumento di stipendio dato dall’introduzione del Tfr in busta paga porta a una riduzione delle detrazioni per i figli a carico e i quelle legati agli assegni familiari. Senza contare che sul Tfr di fine carriera non si applicano le addizionali regionali e comunali Irpef, a differenza di quanto accade con il Tfr in busta paga.

I conti, come scrivevamo, li hanno fatti in molti, e tra questi l’Ufficio Studi della Cgia: “Secondo i nostri calcoli – ha infatti sottolineato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgiarispetto all’erogazione della liquidazione al termine del rapporto di lavoro, chi ne chiederà l’anticipazione pagherà più tasse per un importo che su base annua oscillerà tra i 230 e i 700 euro circa. Ovviamente l’aggravio fiscale tenderà ad aumentare al crescere del livello di reddito del soggetto richiedente”.

L’Ufficio Studi della Cgia ha calcolato che se un dipendente senza familiari a carico sceglie di avere il Tfr in busta paga, l’aggravio fiscale che lo colpisce va da 236 euro all’anno (reddito imponibile Irpef di 15mila euro) a 623 euro (reddito imponibile Irpef di 80mila euro).

La Cgia ha calcolato poi che, se colui che richiede l’anticipo del Tfr in busta paga ha moglie e un figlio a carico, l’aggravio fiscale sarà tra i 362 euro (reddito imponibile Irpef di 15mila euro) e i 696 euro (reddito imponibile Irpef di 80mila euro).

Cgia: 1 milione di contratti dalle misure per il lavoro

Anche la Cgia vede con favore alcune delle misure introdotte dal Jobs Act a sostegno dell’occupazione. Nello specifico, secondo il segretario della confederazione artigiana Giuseppe Bortolussi, “la decontribuzione triennale per i nuovi assunti a tempo indeterminato e le misure del Jobs act daranno luogo, come riportato nella Relazione tecnica alla Legge di Stabilità del 2015, a 1 milione di nuovi contratti incentivati”.

La Cgia ha infatti rilevato come, a dare una spinta importante alle assunzioni da parte delle aziende, sarà presumibilmente lo sgravio totale dei contributi Inps per 36 mesi per gli assunti a tempo indeterminato, introdotto dalla recente Legge di Stabilità.

Se poi si considerano anche la deducibilità integrale, della componente del costo del lavoro per tutti i lavoratori assunti con un contratto stabile dal calcolo della base imponibile Irap, oltre ai contratti a tutele crescenti introdotti dal Job Act a partire dal 7 marzo, secondo la Cgia le condizioni per un rilancio occupazionale dovrebbero essere favorevoli.

A fronte di queste condizioni, la Cgia stima 1 milione di nuovi assunti che però, avverte, non sarà una cifra in termini assoluti ma che deriverà in buona parte dalla trasformazione in contratti a tempo indeterminato di rapporti attualmente precari. Un’operazione che dovrebbe costare, grossomodo, 15 miliardi.

Secondo Bortolussi, infatti, “al lordo degli effetti fiscali la decontribuzione totale Inps in capo alle imprese dovrebbe costare alle casse dello Stato 1,86 miliardi di euro nel 2015, 4,88 miliardi nel 2016 e oltre 5 miliardi nel 2017. L’operazione, ovviamente, avrà una coda anche nel 2018, pari a 2,9 miliardi di euro. Complessivamente, il costo per i nostri conti pubblici dovrebbe essere di circa 15 miliardi di euro”.

Ma quanto ci piace il contante …

Secondo un’analisi elaborata dall’Ufficio Studi della Cgia, gli italiani sono primatisti europei nell’utilizzo del contante e il numero di banconote in circolazione in Italia è in continuo aumento. Una crescita, fanno sapere dall’associazione, che negli anni della crisi è stato del 30,4%, con un totale circolante di massa monetaria contante che, nel solo 2014, ha sfiorato i 165 miliardi.

Tutto questo con buona pace di quanti cercano di diffondere la cultura del pagamento elettronico per mettersi al passo con i tempi e per aumentare la tracciabilità delle transazioni a beneficio della lotta all’evasione fiscale. Una tracciabilità ovviamente impossibile per il contante anche se, secondo la Cgia, non vi è quasi correlazione tra la soglia limite all’uso di cartamoneta imposta per legge (1000 euro) e il rapporto tra imponibile Iva non dichiarata e Pil, ossia l’evasione fiscale.

E a proposito di soglie di utilizzo del contante, la Cgia ricorda che tra i principali membri dell’Ue, 11 Paesi non prevedono limiti all’uso del contante. Tra quelli che hanno messo una soglia, Francia e Belgio si fermano a 3mila euro, la Spagna a 2.500, la Grecia a 1.500 euro, mentre l’Italia e il Portogallo hanno le soglie più basse per l’utilizzo del contante: 1.000 euro.

Ma quali sono le ragioni di questo record? “Il diffusissimo uso del contante è correlato al fatto che in Italia ci sono quasi 15 milioni di unbanked – sostiene Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia – ovvero di persone che non hanno un conto corrente presso una banca. […] Questa specificità tutta italiana va ricercata nelle ragioni storiche e culturali ancora molto diffuse in alcune aree e fasce sociali del nostro Paese. Non possiamo disconoscere che molte persone di una certa età e con un livello di scolarizzazione molto basso preferiscono ancora adesso tenere i soldi in casa, anziché affidarli ad una banca. Del resto, i vantaggi economici non sono indifferenti, visto che i costi per la tenuta di un conto corrente sono in Italia i più elevati d’Europa”.

Il grande bluff delle liberalizzazioni

Quando se ne cominciò a parlare diversi anni fa, le liberalizzazioni sembravano la soluzione unica e irripetibile per fa risparmiare agli italiani carrettate di soldi e rendere finalmente felici le associazioni dei consumatori, da sempre impegnate a combattere monopoli e oligopoli che andavano a danno dei cittadini.

Invece, pare che nei i settori interessati dall’apertura alla concorrenza avvenuta con le liberalizzazioni, negli ultimi 20 anni si sia mosso assai poco, a eccezione di medicinali e telefonia. Anzi, nonostante le liberalizzazioni, i prezzi e le tariffe sono aumentati più dell’inflazione, con il risultato che i consumatori ci hanno rimesso un’altra volta

È quanto emerge da un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia, che hanno messo i fila i settori nei quali, dal 1994 a oggi, si sono registrati gli aumenti tariffari più eclatanti, nonostante l’apertura del mercato con le liberalizzazioni. Al primo posto ci sono le assicurazioni sui mezzi di trasporto, le cui tariffe sono aumentate del 189,3%, contro una crescita dell’inflazione del 50,1%.

Seguono i servizi bancari e finanziari, con una crescita del 115,6% (inflazione +50,1%). Al terzo posto i trasporti aerei, +71,7% dal 1997 a oggi (inflazione +41,5%). Tocca poi ai pedaggi autostradali, liberalizzati dal 1999 (+69,9%, inflazione +36,5%), al trasporto ferroviario dal 2000 (+58,3%, inflazione +33,1%), al gas dal 2003 (+43,2%, inflazione +23,1%), alle poste dal 1999 (+40,4%, inflazione +36,5%), ai trasporti urbani dal 2009 (+27,3%, inflazione +9%) ed elettricità dal 2007 (+21%, inflazione +13,6%)

In controtendenza e favoriti dalle liberalizzazioni solo la telefonia (23%, inflazione +38,8%), e i medicinali (-12,1%, inflazione +50,1%). Saldi, quindi, ancora negativi.

Per onestà di ricerca, l’Ufficio Studi della Cgia ha anche precisato che l’andamento delle tariffe di energia e trasporti è stato in parte condizionato dai costi delle materie prime e da aggravi fiscali di cui non è stato possibile tenere conto nell’analisi sugli effetti delle liberalizzazioni.

I rincari avvenuti nel settore del gas – dice il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi hanno sicuramente risentito del costo della materia prima, mentre l’energia elettrica è stata influenzata dall’andamento delle quotazioni petrolifere e dall’aumento degli oneri generali di sistema, in particolare per la copertura degli schemi di incentivazione delle fonti rinnovabili. I trasporti urbani, invece, hanno subito gli aumenti del costo del carburante e quello del lavoro. Non va dimenticato che molti rincari sono stati condizionati anche, e qualche volta soprattutto, dall’ aggravio fiscale. Tuttavia, nonostante le liberalizzazioni avvenute negli ultimi decenni abbiano interessato gran parte di questi settori, i risultati ottenuti sono stati deludenti. In linea di massima, oggi siamo chiamati a pagare di più, ma la qualità dei servizi resi non ha subito miglioramenti sensibili, anzi in molti casi è addirittura peggiorata”.

La mappa delle regioni più tassate, secondo la Cgia

Ci sono tante classifiche nelle quali gli italiani amano primeggiare, ma ce n’è una nella quale preferirebbero non comparire mai: quella delle tasse. Una classifica ben poco gratificante, che varia da regione a regione e che, secondo l’Ufficio Studi della Cgia, vede in testa le regioni dove vi è maggiore concentrazione di ricchezza.

Secondo la Cgia, infatti, sono i cittadini lombardi i contribuenti più tartassati d’Italia; un risultato emerso confrontando il gettito fiscale versato da lavoratori dipendenti, autonomi, imprese e pensionati di ciascuna regione italiana.

Rilevato che la media nazionale è di 8.824 euro per abitante, l’Ufficio Studi della Cgia ha dunque scoperto che ciascun residente in Lombardia versa tra Fisco e imposte locali una media di 11386 euro; a seguire i cittadini del Lazio (10.763 euro) e dell’Emilia Romagna (10.490 euro). Vengono poi quelli del Trentino Alto Adige (10.333 euro) e della Liguria (10.324 euro).

Le regioni meno tartassate sono la Campania (6.041 euro per cittadino), la Calabria (5.918 euro) e la Sicilia (5.598 euro). I dati della Cgia sono riferiti al 2012, l’ultimo anno per il quale è possibile avere il dettaglio dei numeri a livello territoriale.

L’Ufficio Studi della Cgia ha poi spacchettato ulteriormente i dati, analizzando qual è la distribuzione di queste entrate ai vari livelli di governo, partendo dallo Stato per arrivare agli enti locali, quelli più vicini al cittadino. Secondo quanto rilevato dalla Cgia, partendo dal dato medio nazionale di 8.824 euro per abitante di cui abbiamo scritto sopra, 7.124 euro finiscono allo Stato (l’80,7% del totale), 902 euro alle Regioni (10,2%), 798 euro agli enti locali (9%).

Secondo il presidente della Cgia Giuseppe Bortolussi, “questi dati dimostrano come ci sia una corrispondenza tendenzialmente lineare tra il gettito fiscale, il livello di reddito e, in linea di massima, anche la qualità/quantità dei servizi offerti in un determinato territorio. Dove il reddito è più alto, il gettito fiscale versato dai contribuenti è maggiore e, in linea di massima, gli standard dei servizi erogati sono più elevati. Essendo basato sul criterio della progressività, è ovvio che il nostro sistema tributario pesa di più nelle regioni dove la concentrazione della ricchezza è maggiore”.

Le banche popolari non conoscono il credit crunch

Spesso quando si parla di credit crunch si rischia di scivolare nei luoghi comuni delle banche avare che chiudono i rubinetti del credito a prescindere. Invece, secondo quanto ha rilevato l’Ufficio Studi della Cgia, in questi ultimi anni nei quali il credit crunch ha strozzato le imprese, le banche popolari sono state le uniche ad aver aumentato i prestiti.

Se si considera il periodo che ha interessato la fase più dura del credit crunch (2011-2013), le banche popolari hanno aumentato i prestiti alla clientela del 15,4% a differenza di quanto hanno fatto gli istituti bancari strutturati come Spa, che li hanno diminuiti del 4,9%. Nemmeno le banche di credito cooperativo sono rimaste immuni dalla tirchieria: -2,2% di prestiti nel periodo considerato e benvenuto credit crunch.

La Cgia ha dato un’occhiata anche alle banche estere che operano in Italia e l’andazzo è risultato il medesimo, in linea con il mercato e in controtendenza rispetto alle banche popolari: -3,1% di prestiti.

L’Ufficio studi della Cgia ha anche precisato che i dati per tipologia di banca utilizzati nella ricerca si riferiscono agli istituti residenti in Italia e alla Cassa depositi e prestiti Spa e non tengono conto di quanto fatto dalle filiali estere delle banche italiane, spesso in realtà economiche nelle quali il credit crunch è stato ed è meno marcato che nel nostro Paese.

A differenza degli altri istituti bancari – ha commentato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi -, in questi anni di grave crisi le Banche popolari sono state le uniche ad incrementare gli impieghi alle famiglie e alle imprese. A conferma che queste ultime hanno continuato a fare il proprio lavoro, nonostante le condizioni proibitive”.