Come saranno le aziende del futuro? Analisi e aiuti sull’industria 4.0

Più volte abbiamo trattato degli aiuti che l’Italia riserva a Piccole e Medie Imprese e sottolineato che questi sono funzionali, cioè sono diretti a determinati obiettivi e quindi non casuali. Si è visto che molti aiuti sono volti ad adeguare le imprese e i sistemi produttivi alle nuove tecnologie. In realtà non tutte le imprese italiane sono propense a sfruttare questa tipologia di aiuto. Ora cercheremo di capire perché è importante che le aziende sfruttino il più possibile gli incentivi per l’industria 4.0 perché in realtà ne guadagnano in competitività. Al termine dell’articolo inseriremo i link ai vari aiuti finora varati.

Come sarà l’industria 4.0

L’industria 4.0 applica nuove tecnologie informatiche e in particolare ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) stampa 3D, robotica, Internet of Things (IoT), big data, realtà virtuale, ed è al centro di quella che viene chiamata la quarta rivoluzione industriale.

L’impatto della quarta rivoluzione industriale è stato analizzato in forma predittiva sotto molteplici aspetti. Secondo molti esperti questa porterà un’inversione di tendenza, cioè nei decenni passati abbiamo visto delocalizzare le produzioni verso Paesi dove la manodopera aveva un basso costo con un impoverimento generale per i lavoratori interessati da riduzioni di personale. Ora si attende una tendenza opposta, cioè un ritorno e questo per motivi pratici: le nuove tecnologie non richiedono più operai a basso costo, ma operai a elevata specializzazione e questi si è disposti a pagarli e in secondo luogo la manodopera a basso costo ha, come nella maggior parte dei processi di riallocazione della ricchezza, breve durata.

L’esempio pratico è semplice: in zone povere il costo della vita è basso, lo stesso però aumenta nel momento in cui arriva il lavoro e un salario dignitoso per il posto, di conseguenza inizia l’ascesa dei salari e per le imprese non è più conveniente delocalizzare. La ricollocazione secondo gli esperti sarà dovuta anche alla ricerca di sistemi produttivi a basso impatto ambientale e quindi con una produzione vicino al consumatore evitando di far girare le merci per tutto il globo.

Impatto delle nuove tecnologie sulla produttività

Dai dati analizzati in una ricerca dell’Università di Padova è emerso che l’impatto delle nuove tecnologie varia in base al settore in cui la PMI opera, ad esempio l’impatto nel settore della moda è diverso rispetto a quello dell’automotive. In realtà proprio l’automotive sta attraversando un periodo difficile a causa della crisi dei microchip la cui penuria sta mettendo in forte crisi il settore. 

Il primo dato analizzato dall’Università di Padova è la produttività: le aziende che adottano le tecnologie 4.0 hanno avuto un incremento del 7% rispetto alle aziende dello stesso settore che non le hanno adottate. E’ stato rilevato che l’aumento di produttività non riguarda solo l’anno di introduzione di nuove tecnologie ma si dilata nel tempo, questo vuol dire che l’investimento iniziale è remunerato nel tempo. Sembra però che già dopo due anni ci sia un rallentamento della crescita. In realtà l’obsolescenza tecnica nel settore delle nuove tecnologie ha un forte impatto, ma si stanno studiando anche mezzi per ridurne l’impatto.

Un altro dato interessante sottolineato dalla ricerca condotta dall’Università di Padova riguarda la quantità di nuove tecnologie adottate. Sembra infatti che le imprese che decidono di introdurre più di due nuove tecnologie contemporaneamente non abbiano particolare giovamento da questa scelta. Il dato potrebbe essere dovuto al fatto che introdurre simultaneamente troppe novità potrebbe richiedere personale ad elevata specializzazione di cui le imprese non sono dotate al momento.
Ecco perché potrebbe essere importante agire in modo mirato e soprattutto curare la formazione costante dei dipendenti.

Per quanto invece riguarda i settori, l’introduzione di nuove tecnologie sembra favorire soprattutto le realtà aziendali a bassa tecnologia, mentre quelle che già adottano tecnologie evolute, dall’introduzione di nuove hanno vantaggi ridotti, molto probabilmente perché già lavorano con procedure all’avanguardia e quindi l’impatto è minimo.

Industria 4.0: analisi PwC

A risposte simili arriva un’indagine condotta da PwC, agenzia di consulenza operante in 158 Paesi nel mondo. PwC ha analizzato i dati della Germania e ha previsto un aumento della produttività dell’8% e lo stesso è legato alle nuove tecnologie. Secondo PwC per le imprese del settore automobilistico l’incremento sarà tra il 10% e il 20%.

PwC analizza anche l’impatto che l’introduzione massiva di nuove tecnologie avrà sull’occupazione, molti sono spaventati dal fatto che la robotica potrà ridurre il numero di lavoratori necessari in azienda. In realtà cambia la tipologia di lavoratori, infatti saranno richiesti sempre più lavoratori in possesso di numerose skills, ma questi allo stesso tempo saranno retribuiti in modo migliore perché dovranno gestire big data, dovranno utilizzare tecnologie evolute e analizzare dati complessi.

Conclusioni

Da questi dati emergono i primi consigli per le aziende:

  • cercare di innovare introducendo le nuove tecnologie in modo graduale e quindi cercando di capire quale tra quelle disponibili è più adatta al proprio settore;
  • approfittare degli aiuti e incentivi messi a disposizione;
  • curare la formazione costante dei propri dipendenti.

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Per le imprese italiane Ict sempre più necessario

L’aumento della produttività dipende fortemente dall’utilizzo dell’Information and Communication Technology, Ict, tanto da poter stabilire la crescita o il rallentamento del Pil.

In realtà, sono in continuo aumento le imprese che dimostrano di sposare sempre di più la tecnologia, ma, nonostante questi considerevoli sforzi, l’Italia deve ancora colmare il gap esistente con il resto d’Europa.

Nello specifico, continua ad aumentare la quota di imprese con almeno 10 addetti che si connettono in banda larga mobile, con una percentuale che passa dal 63,8 del 2016 al 70,9 del 2017.
Sono cresciute, sempre considerando questo periodo, e precisamente dal 16,5% al 23,6%, anche le percentuali di imprese connesse in banda larga fissa ultralarga che dichiarano velocità in download di connessione a Internet di almeno 30 Mbit/s.
In particolare una più elevata connettività a banda ultralarga influenza la crescita della produttività delle micro imprese e in modo più accentuato nel settore dei Servizi.

Sono sempre in crescita anche le imprese che usano almeno un social media (44,0%, nel 2016 39,2%) ed è in lieve crescita anche la percentuale di quelle che dichiarano di utilizzarne almeno due (17,5%, nel 2016 15,6%). Il 72,1% delle imprese ha un proprio sito web ma solo il 15,0% (13,8% nel 2016) permette ai visitatori del sito di effettuare online ordinazioni o prenotazioni; nel settore energetico sale al 81,7% la quota di imprese sul web mentre scende al 9,9% l’incidenza della raccolta ordini/prenotazioni online.

Aumenta anche il numero delle imprese che vendono online, che infatti passa dall’11% del 2016 al 12,5% del 2017. Il 42,7% delle imprese effettua acquisti online, in salita rispetto al 40,9% del 2016.

Per attivare i processi di digitalizzazione, le imprese, o almeno il 16,2% di esse, si fa aiutare da esperti Ict, tanto che gli addetti Ict nelle assunzioni è arrivato al 5,6%.
Inoltre, il 12,9% delle imprese ha organizzato nel 2016 corsi di formazione per sviluppare e aggiornare le competenze Ict dei propri addetti, in aumento rispetto all’11,8% dell’anno precedente.

Vera MORETTI

Professionisti Ict, quanto guadagnano?

Abbiamo visto nei giorni scorsi come l’ Ict sia fondamentale per far sì che le imprese italiane non restino al palo ma possano competere a livello dei mercati globali. E se l’ Ict è così importante, è giusto che in azienda chi se ne occupa sia retribuito come merita.

Bisogna però partire da una constatazione. Secondo i recenti dati diffusi dall’Eurostat, le competenze digitali non sono proprio il punto di forza dell’Italia. Il nostro Paese è in coda all’Ue tanto per la domanda di Ict da parte delle imprese (sono il 31% le imprese italiane con posti Ict vacanti, contro una media Ue del 38%), quanto per l’offerta di esperti (il 2,5% contro il 3,7% della media Ue).

Detto questo, come ricordato sopra è giusto che i professionisti dell’ Ict siano adeguatamente remunerati dalle aziende che li impiegano. Un aspetto non da poco, visto che spesso le direzioni HR non hanno dei parametri aggiornati per poter stabilire l’ammontare di una corretta remunerazione.

È quindi interessante il tool interattivo www.confrontastipendio.it, lanciato da Digital360, che consente da un lato agli HR manager delle aziende di avere una corretta visione dei livelli di retribuzione delle diverse professioni dell’ Ict; dall’altro ai professionisti dell’ Ict di confrontare il proprio stipendio con quello di altri professionisti che svolgono attività simili in altre realtà aziendali italiane.

Proprio dalle analisi del tool emergono i livelli di retribuzione medi di questi professionisti in Italia. Si scopre così che un CIO in una grande azienda ha uno stipendio annuo di circa 110mila euro, un Digital Marketing Manager di 70mila euro, con punte oltre i 90mila. Curiosità, ma non tanto: gli uomini guadagnano il 6% in più delle donne. Anche la tecnologia è sessista?

Italia e tecnologia, un amore difficile

Quando pensiamo al ruolo chiave che la tecnologia deve avere nelle nostre Pmi per consentire loro di competere meglio su scala mondiale superando le secche della crisi, ci dimentichiamo del quadro d’insieme che caratterizza il rapporto del nostro Paese con l’Ict. E non è un quadro incoraggiante.

In base all’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) pubblicato dalla Commissione europea e relativo al 2015, l’Italia è un Paese con scarse competenze digitali e in ritardo nella connettività. Una situazione che la colloca al 25esimo posto sui Paesi dell’Ue a 28, con un indice pari a 0.4. La Danimarca, che è prima, ha un indice di 0.68, la Romania, ultima, di 0.36.

E, a proposito di aziende e tecnologia, il report della Commissione Ue segnala che proprio quello delle imprese è il segmento di Paese che, negli anni, ha fatto registrare i progressi più lenti, specialmente sotto il profilo dell’incidenza dell’ecommerce sul fatturato delle imprese: solo l’8% del totale.

Il problema del rapporto tra l’Italia e la tecnologia è comunque strutturale. Secondo il DESI, il 37% dei cittadini italiani non usa regolarmente internet, mentre il rimanente 63% naviga online in maniera elementare, senza svolgere attività complesse. La scarsità delle competenze digitali dei propri cittadini pone l’Italia al 24esimo posto in Europa in questa classifica.

Il gap con l’Europa si manifesta anche sul lato della tecnologia a banda larga e nelle reti di nuova generazione, disponibili per meno della metà delle famiglie italiane (44%). Ritardi che, nella classifica europea della connettività, pongono l’Italia al 27esimo e penultimo posto. Per fortuna, almeno nei servizi pubblici digitali l’Italia non è lontana dalla media Ue.

Ue che, in quanto a digitalizzazione e accesso alla nuova tecnologia, va decisamente più veloce dell’Italia. Il 71% delle famiglie europee ha infatti accesso alla banda larga ad alta velocità (+10% rispetto al 2014), mentre gli abbonati alla banda larga mobile sono 75 ogni 100 abitanti contro i 64 del 2014. Ben il 75% dei cittadini europei acquista regolarmente online, ma in questo caso lo scostamento tra domanda e offerta è evidente: solo il 16% delle Pmi europee ha una piattaforma e-commerce.

Scorrendo la classifica del DESI, non stupisce che le posizioni di vertice siano occupate da Paesi che con la tecnologia hanno un rapporto facile e scontato: Danimarca, Paesi Bassi, Svezia e Finlandia. Meno scontata la classifica dei Paesi che hanno migliorato più rapidamente il proprio ranking: Paesi Bassi, Estonia, Germania, Malta, Austria e Portogallo.

E l’Italia? Il nostro Paese è ancora al di sotto della media Ue, ma sta recuperando. Insieme a Croazia, Lettonia, Romania, Slovenia e Spagna, siamo cresciuti più rapidamente di altri nel 2015, ma rimane ancora tantissimo da fare per colmare un divario che, in un mondo sempre più globalizzato e nel quale la tecnologia è sempre più imprescindibile, può fare la differenza tra lo sviluppo e il declino.

Studi professionali 2.0

Il processo irreversibile di conversione al digitale e alle nuove tecnologie non deve interessare solo le piccole e medie imprese, ma anche gli studi professionali. Una tendenza che, per fortuna, non sembra così remota in Italia, come dimostra una ricerca realizzata dall’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano nata da due anni di osservazioni su studi di commercialisti, consulenti del lavoro, avvocati e studi multidisciplinari.

Dalla ricerca emerge che gli studi professionali hanno investito molto in Ict negli ultimi 3 anni, tanto che nel 2015 la loro spesa per investimenti in Information and Communication Technology è stata superiore a 1 miliardo e 100mila euro, che suddivisa fra i vari studi professionali che hanno partecipato alla survey fa circa 9mila euro a studio.

Inoltre, dalle propensioni di investimento degli studi professionali che hanno aderito alla survey – principalmente studi di micro e piccole dimensioni, con portafoglio clienti inferiore alle 50 unità e fatturato entro i 100mila euro/anno – è emerso che nei prossimi due anni è attesa una spesa di circa 1,2 miliardi di euro all’anno+8%. Ma, nel dettaglio, in che tecnologie investono gli studi professionali?

Secondo lo studio, si tratta soprattutto di tecnologie abilitanti l’esercizio professionale, mentre cresce la propensione agli investimenti in software per la gestione elettronica dei documenti (39%) e la conservazione digitale a degli stessi (39%), per siti per la condivisione di attività e documenti con i clienti (34%) e siti internet degli studi professionali (33%).

Dall’indagine del Politecnico emerge anche un altro dato interessante: l’adozione di nuove ed evolute tecnologie si riflette positivamente sul fatturato e sulla redditività degli studi professionali che le adottano, tanto che crescono del doppio rispetto agli altri i professionisti che usano strumenti tecnologici più evoluti.

Si tratta principalmente di strumenti per l’archiviazione digitale, la dematerializzazione documentale, la firma grafometrica dei clienti degli studi professionali (il 74% dei  145 studi che hanno avviato o concluso progetti di miglioramento digital based analizzati nella survey), siti per la condivisione di documenti e attività con i clienti (72%), app e strumenti per  pianificazione finanziaria, scadenze dei pagamenti, formazione a distanza ecc. (55%).

Non indifferente, infine, la diffusione dell’uso del cloud computing per la posta elettronica o per la Pec degli studi professionali.

Ict, volano della ripresa

Nelle imprese, medie o grandi che siano, è sempre crescente l’importanza di effettuare investimenti mirati nell’ambito Ict: per stare al passo con l’evoluzione della tecnologia e per implementare processi più efficaci, efficienti ed economici.

Sembra che in Italia questa esigenza sia finalmente avvertita in maniera seria, almeno all’interno delle aziende medio-grandi. È quanto traspare dai dati elaborati dalla Digital Innovation Academy del Politecnico di Milano, secondo i quali nel 2016 le imprese italiane effettueranno in media un +0,7% di investimenti in Ict rispetto al 2015.

Un trend che interesserà soprattutto le imprese di dimensioni medio-grandi (250-1000 dipendenti), che prevedono un +1,88% di investimenti contro il +1,16% delle imprese di medie dimensioni (50-250 addetti). Leggero aumento degli investimenti in Ict, +0,14%, per le imprese grandi (1000-10 mila addetti), calo dello 0,78% nelle grandissime imprese, quelle con più di 10mila dipendenti.

Quali saranno gli ambiti Ict oggetto degli investimenti più consistenti? Sempre sulla base delle analisi della Digital Innovation Academy, saranno la Business intelligence, i Big data, la digitalizzazione e dematerializzazione, l’Erp.

Tutto questo però necessita anche di figure specializzate nell’ambito Ict, figure che, purtroppo, in Italia non sono così diffuse. Lo certifica Eurostat, secondo il quale, nel 2014, solo il 2,5% dei lavoratori (circa 560mila persone) era occupato nel settore Ict nel nostro Paese, a fronte di una media Ue del 3,7%. Come se non bastasse, solo il 31,7% di loro ha studiato informatica contro il 56,5% dei colleghi europei.

Un bando per le pmi toscane attive nell’Ict

La Regione Toscana ha pubblicato un bando che stanzierà ben 3 milioni di euro per finanziare progetti di investimento in innovazione delle micro, piccole e medie imprese, nei settori “Ict e fotonica, fabbrica intelligente, chimica e nanotecnologia“.

I settori prioritari sono quelli indicati nella “Strategia di Ricerca e Innovazione per la Smart Specialisation in Toscana” e l’innovazione può essere mirata a prodotti, servizi e processi nuovi o significativamente migliorati rispetto a quelli precedentemente disponibili, in termini di caratteristiche tecniche e funzionali, prestazioni, facilità d’uso.

Il progetto può riguardare mutamenti significativi nelle pratiche di gestione aziendale, nell’organizzazione del lavoro o nelle relazioni con l’esterno e nuove strategie di marketing sostanzialmente diverse da quelle già adottate dall’impresa.

Tra le spese finanziabili ci sono quelli che riguardano brevetti, acquisto di nuovi strumenti e attrezzature ed assunzione di personale qualificato.

L’investimento totale ammissibile di ciascun progetto non deve essere inferiore a 50mila euro e superiore a 500mila e il contributo, in conto capitale, è del 30% della spesa.

Le domande devono essere inoltrate tramite il sistema informatico di Sviluppo Toscana spa entro il 31 ottobre.

Vera MORETTI

Ict e professionisti: a che punto siamo?

Sono sempre di più i professionisti che, per le loro attività lavorative, utilizzano strumenti mobili e applicazioni per smartphone.
Nonostante la cautela e una diffidenza iniziale, il potenziale è molto alto, poiché ad oggi ben il 42% dei professionisti trascorre quasi metà del tempo lavorativo fuori dal proprio studio, percentuale che scende al 38% per i commercialisti e al 33% per i consulenti del lavoro, mentre sale a 46% per quanto riguarda gli avvocati.

A rendere noti questi dati è l’Osservatorio Ict & Professionisti della School of Management del Politecnico di Milano, che, a seguito di una ricerca, individua negli avvocati e nei professionisti di studi associati i più assidui mobile workers, che quindi ricorrono sempre di più a pc portatili, tablet e smartphone per svolgere il proprio lavoro anche all’esterno del proprio ufficio.

Le attività più frequenti sono la lettura dell’email (19%), la navigazione in Internet (17%), la lavorazione di documenti (10%) e la consultazione di dati dello studio (9%), mentre i dispositivi più utilizzati sono gli smartphone, seguiti dai Pc portatili e dai tablet: i primi usati prevalentemente per gestire le e-mail (26%), i secondi per lavorare su documenti (26%), mentre i tablet, invece, per navigare in Internet (19%).

Le app sono utilizzate e considerate meno, poiché solo il 26% dei professionisti utilizza applicazioni a contenuto professionale e, al contrario, il 45% di essi dimostra nei loro confronti un vero e proprio disinteresse, dovuto soprattutto alla poca mobilità della professione.
In questo caso, le categorie professionali più assidue sono gli avvocati (29%), seguiti dai consulenti del lavoro (23%) e, per finire, dai commercialisti (21%).
Gli studi multidisciplinari raggiungono la percentuale più alta, pari al 32%.

Nonostante, poi, i professionisti siano interessati all’Ict, la diffusione delle nuove tecnologie rimane piuttosto limitata.
Purtroppo non è ancora radicata la convinzione che, per sopravvivere alla crisi, tecnologia ed innovazione possono davvero fare la differenza, creando maggiore efficienza, ma anche riducendo il tempo dedicato alle pratiche amministrative, e donando, di conseguenza, più tempo agli affari e alla creatività.
Dove presenti, le tecnologie più diffuse sono la firma digitale (nel 78% dei casi) e l’home banking (76%), seguite dai software di gestione elettronica documentale (46%) e poi, in misura minore, il sito internet “vetrina” (21%), l’eLearing (20%) e il controllo di gestione per lo studio (19%).

Claudio Rorato, responsabile della Ricerca, ha dichiarato a proposito: “Oltre alle tecnologie già in uso per la dematerializzazione dei documenti e ai semplici applicativi, insomma, ancora oggi non entrano nell’attività lavorativa degli studi professionali soluzioni come Crm, portali e siti web, firma grafometrica, Workflow management. Il business delle professioni appare ancora tradizionale nei contenuti e nelle prassi di conduzione. La tecnologia potrebbe assistere invece l’apertura di nuove idee di business assistite dalle tecnologie o prassi lavorative più snelle”.

Ad impedire l’adozione di soluzioni Ict è spesso anche il budget, che rimarrà limitato anche nel prossimo biennio, perciò se l’83% degli studi professionali dichiara la disponibilità a investire in tecnologia nei prossimi due anni, l 27% di questi dedicherà un budget compreso tra mille e 3 mila euro, il 21% al massimo mille euro e solo il 16% tra 3 mila e 5 mila euro.

Chi sarà disposto ad investire, impiegherà il proprio denaro per l’acquisto di Pc più potenti e, a seguire, a server, stampanti e scanner (19%, 18% e 15% rispettivamente). Il 33%, invece, non investirà in hardware.

Alessandro Perego, responsabile Scientifico dell’Osservatorio Ict&Professionisti, ha commentato: “La natura di questi investimenti sottolinea come ci sia ancora una difficoltà a percepire concretamente la capacità di generare valore da parte delle Ict. Si privilegia la performance dello strumento, come i PC più potenti, e non quella di processo. Non emerge la volontà concreta di riorientare il business, prevalentemente ancora di natura tradizionale, verso nuove forme di servizio in grado di diversificare i rischi, proteggere la marginalità, sviluppare nuove opportunità. L’alfabetizzazione digitale, che impegni le istituzioni politiche e professionali, diventa allora cruciale per la diffusione di una cultura tecnologica presso i professionisti, per far percepire chiaramente perché una tecnologia può generare valore e, soprattutto, dove lo può creare”.

A prevalere, comunque, negli studi professionali, è la consapevolezza che la tecnologia può portare notevoli benefici, ed in particolare servizi sempre più efficienti, ma anche maggior reddito, anche se la diffidenza è ancora percepibile ed è quella che impedisce di fare il salto di qualità.

Emergono anche le difficoltà che condizionano la diffusione delle tecnologie presso gli studi.
In particolare, sono l’alfabetizzazione informatica dei titolari (42%), il livello dei costi dei software (30%), la difficoltà a conoscere realmente l’offerta del mercato (23%). Il 21%, invece, non ravvisa problemi particolari.
Analizzando le singole professioni, gli avvocati riconoscono più di tutti un valore elevato alla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (49%), mentre i consulenti del lavoro individuano tra le cause più importanti la lentezza di Internet (21%). Per gli studi multidisciplinari, infine, la prima ragione è la lentezza di Internet (32%), seguita dalla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (30%), dalla scarsa alfabetizzazione del personale (29%) e dai costi dei software (28%).

Per quanto riguarda l’attività svolta da avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro produce una grande mole di documenti cartacei che saturano gli archivi e impiegano tempo per la custodia, ma le prassi di “dematerializzazione” dei documenti e gli strumenti che possono aiutare a rendere più efficienti alcune attività non sono ancora diffusi.

Il 42% dei commercialisti, il 58% degli avvocati e il 35% dei consulenti del lavoro affronta la situazione con la scansione dei documenti cartacei, creando archivi elettronici, ma mantenendo ancora la carta o ricorrendo a fornitori esterni.
Solo il 26% dei commercialisti, il 17% degli avvocati e il 33% dei consulenti del lavoro pensa invece di ricorrere alla conservazione a norma dei documenti già in Pdf o trasformati in formato Pdf con la scansione dei documenti cartacei. Anche per i fax, il 62% dei commercialisti, l’80% degli avvocati e il 51% dei consulenti del lavoro ricorre alla fotocopia e all’archiviazione cartacea, mentre una minima parte prevede la scansione e l’archiviazione in cartelle elettroniche o l’archiviazione diretta nei server in digitale.

Per quanto riguarda le e-mail di interesse, il 69% dei commercialisti, l’87% degli avvocati e il 56% dei consulenti del lavoro le stampa e le archivia all’interno delle pratiche di competenza.

Vera MORETTI

A Milano l’Osservatorio ICT e professionisti

Appuntamento per il 4 marzo presso il Politecnico di Milano per la presentazione della ricerca svolta dall’Osservatorio ICT & Professionisti, che risponderà a molte delle domande che riguardano il settore, a cominciare da come vengono percepite le tecnologie dai professionisti e la posizione di questi ultimi nei confronti dell’ICT.

L’indagine è stata condotta partendo dalla constatazione che il mondo delle professioni e delle imprese, in particolare le micro imprese e le pmi, sono tra loro integrati e costituiscono un sistema che non bisogna ignorare.

Le tecnologie ICT si stanno rapidamente diffondendo negli studi professionali, così come la propensione ad investire in innovazione.

Lo studio, dunque, affronterà una vasta gamma di aspetti, ma sempre con l’obiettivo di:

  • valutare il grado di diffusione delle tecnologie informatiche nell’ambito degli Studi di avvocati, commercialisti e consulenti del Lavoro;
  • valutare la loro propensione a investire in tecnologie nei prossimi due anni;
  • far emergere le nuove aree di business e di servizio destinati ai professionisti o da questi proposti alla loro clientela;
  • individuare le difficoltà esistenti tra Studi e Vendor, per comprendere le cause che impediscono una più ampia diffusione delle tecnologie informatiche all’interno degli studi.

La partecipazione al convegno è gratuita previa iscrizione online.

Vera MORETTI

Il cloud nelle Pmi. Eppur si muove…

di Davide PASSONI

A un anno dal nostro incontro con Aruba a Smau 2012, siamo tornati a fare quattro chiacchiere con Stefano Sordi, direttore marketing del gruppo ICT italiano, per fare il punto sullo stato dell’arte nel rapporto tra cloud e Pmi.

È cambiata in questo anno la strategia di Aruba sul cloud?
La strategia non è cambiata, si è evoluta in continuità con quanto fatto un anno fa. Abbiamo ottenuto risultati positivi, per cui vale la pena proseguire sul sentiero tracciato; ossia continuare a sviluppare il prodotto, allargare il network del data center e spiegare agli utilizzatori della tecnologia cloud quali sono i suoi reali benefici.

In che modo?
Diffondendo il know how. Avevamo cominciato andando in tv a dire che il cloud è conveniente, flessibile, potente, mentre ora siamo saliti a un livello di dettaglio superiore spiegandone i benefici.

La cultura del cloud si sta sviluppando in Italia?
Siamo ancora in un mercato in via di sviluppo, che però cresce molto, bene e con trend di vario tipo ma tutti molto veloci. Crescono acquisizioni, utenti, quantità di traffico e, soprattutto, perimetro degli utenti interessati.

Parliamo di Pmi?
Se un anno fa dicevamo che le Pmi arrancavano nel mondo del cloud mentre la grande impresa era avanti, in questo anno sono successe due cose: primo, il numero di Pmi che si sono avvicinate al cloud è aumentato in modo sostanziale; secondo, la tipologia di imprese che si rivolgono a noi si è allargata. Non ci sono solo operatori Ict, che hanno un core business informatico, ma aziende con altri core business, con al loro interno un dipartimento IT che inizia a usare il cloud.

Che cosa significa questo?
Significa che il cloud non è solo per addetti ai lavori ma sta diventando una tecnologia fruibile per gli altri settori merceologici. Significa che abbiamo fatto una buona comunicazione e che abbiamo un prodotto di facile utilizzo.

Stefano Sordi, direttore marketing di Aruba

Si sceglie cloud anche per spendere meno, in un periodo di crisi?
In un momento particolare come questo, il cloud non permette di spendere meno ma di spendere meglio, pagando solo l’effettivo uso del servizio. Se una Pmi oggi compra un server dedicato perché ha un obiettivo di utilizzo e questo viene poi disatteso, l’impresa si trova ad aver pagato tutti i costi avendo in casa una macchina che pian piano diventerà sempre più vecchia e dovrà essere aggiornata. Comprare il cloud risponde sempre alla stessa esigenza, ma aiuta anche sull’aspetto economico.

Dove vuole arrivare Aruba?
Abbiamo ambizioni grandi, siamo leader di settore nell’hosting, nel mondo dei domini e in quello della Pec serviamo oltre il 50% del mercato. Sono risultati importanti, che fanno di Aruba una società molto ambiziosa. Sul cloud abbiamo investito tantissimo in innovazione e tecnologia e continuiamo a farlo senza retropensieri perché crediamo fortemente in questo prodotto, così come non crediamo che soppianterà i servizi tradizionali come le architetture fisiche o l’hosting, ma completerà il mondo dell’IT.

Estero?
Sì, tanto che lavoriamo molto sulla Francia da ormai un anno circa.

Siete una bella realtà italiana che funziona. Quindi è possibile fare impresa in Italia?
Io direi di sì. Ci sono difficoltà che ben conosciamo, ma nell’ambito dell’ICT e delle nuove tecnologie c’è molto spazio per innovare e svilupparsi. Alla fin fine, i nostri prodotti e servizi sono il volano della crescita per le Pmi italiane, lo spazio ideale su cui costruire un modello di business, un’idea, un prodotto che fanno sì che, come Aruba, crediamo molto in questa tecnologia.