Debiti della Pa, facciamo il punto

 

Quella sui cosiddetti debiti della Pa, ossia i soldi che gli enti che fanno parte della Pubblica amministrazione devono alle imprese per lavori fatti e mai pagati, è una partita sulla quale si gioca buona parte della credibilità del nostro Paese e dei governi che, negli ultimi anni, si sono trovati a guidarlo.

Complice la peggiore crisi economica dal Dopoguerra a oggi, quello che per decenni è stato uno scandalo sottaciuto e tollerato, è esploso in tutta la sua forza, anche grazie – purtroppo – ai numerosi suicidi di imprenditori che con lo Stato si sono trovati esposti per milioni, hanno visto la propria azienda chiudere e non hanno retto al peso del fallimento.

Dopo una sostanziale indifferenza dell’ultimo governo Berlusconi, il tema è stato affrontato dai governi Monti, Letta e, attualmente, Renzi, sempre con un atteggiamento che privilegia il proclama anziché la sostanza, tanto che ancora non c’è chiarezza sul totale dei debiti effettivamente rimborsati a oggi né, cosa più grave, su quanto debba la Pubblica amministrazione alle imprese. Un valzer di cifre che va da 70 a 120 miliardi, come se fossero bruscolini. Un monstrum che, a buon diritto, pone l’Italia nel terzo mondo d’Europa.

È notizia di questi giorni che lo Stato metterà a disposizione 1,8 miliardi per “il pagamento di debiti certi, liquidi ed esigibili maturati al 31/12/2012” e che ad oggi sono state già assegnate a comuni, province e comunità montane risorse finanziarie per 3,2 miliardi. Una goccia nel mare. Le aziende interessate devono presentare le domande di anticipazione alla Cdp, complete in ogni elemento e redatte secondo lo schema allegato all’Atto aggiuntivo all’Addendum, entro il 3 giugno 2014.

Tutto molto bello, ma ci pensa la Cgia di Mestre a far tornare le cose alla loro dimensione normale, specialmente per quanto riguarda i tempi dei pagamenti. Secondo l’associazione, nonostante gli sforzi e l’impegno di pagare una buona parte dei sui debiti, nel 2013 la Pubblica amministrazione ha pagato i suoi fornitori mediamente dopo 170 giorni10 giorni in meno rispetto al 2012.

Sebbene quella italiana sia una delle Pa che ha realizzato lo sforzo maggiore, in questa graduatoria continuiamo a essere i peggiori pagatori d’Europa, peggio persino della Grecia, che salda i suoi debiti in tempi più brevi dei nostri (159 giorni). La media Ue, invece, si attesta sui 61 giorni, contro i 60 della Francia, i 41 del Regno Unito e i 36 della Germania. Un altro pianeta.

La Cgia ha stilato questa graduatoria su dati Intrum Justitia, dopo aver appreso dal Vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani, che all’indomani delle elezioni europee scatterà la procedura di infrazione contro il nostro Paese a seguito dei forti ritardi nei pagamenti.

A questo la Cgia aggiunge il preoccupante numero di fallimenti registrati negli ultimi 5 anni di crisi: dal 2009 al 2013 sono stati 59.570, di cui 14.269 solo nel 2013, Tra il 2009 e il 2013, l’incremento ha superato il 52%.

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi,oltre agli effetti della crisi economica a dare un contributo all’impennata dei fallimenti hanno sicuramente contribuito il ritardo dei pagamenti da parte della Pa, l’incremento del livello di tassazione avvenuto in questi anni e la contrazione nell’erogazione del credito praticata dalle banche. Si pensi che nel 2013 la pressione fiscale si è stabilizzata al 43,8%, mentre le banche hanno tagliato ben 53 miliardi di prestiti alle imprese”.

Suicidi? No, teniamo accesa la speranza

Ne siamo consapevoli. Questa settimana Infoiva ha toccato un tema tutt’altro che comodo; quando si parla di suicidi per crisi, di imprenditori che si tolgono la vita perché schiacciati dal fallimento personale prima che da quello imprenditoriale, non ci si mette in una posizione di particolare confort… Eppure, lo sapete se ci seguite con assiduità, è un tema sul quale non abbassiamo la guardia, mai.

I suicidi degli ultimi giorni, dopo un’estate relativamente tranquilla su questo fronte, sono stati solo lo spunto, tragico, che ci ha fatti ritornare sull’argomento con la voglia di spingere l’asticella un po’ più in su; cercando di capire quali sono le associazioni che possono aiutare chi si trova nel gorgo; raccontando storie di chi ha trovato la forza di reagire per ricominciare; entrando, grazie all’aiuto di uno psicologo, nella mente di chi si trova senza più un mondo dall’oggi al domani per capire quali meccanismi perversi scattano.

Un viaggio nel lato più oscuro della crisi, grazie al quale abbiamo maturato due convinzioni che vi vogliamo trasmettere: uscirne si può, si deve, e non bisogna mai voltarsi dall’altra parte ma parlarne, parlarne, parlarne. Aspettando che lo Stato faccia il suo…

Leggi l’intervista a Pietro Giordano, consigliere dell’associazione “Speranza al lavoro”

Leggi l’intervista a Giulia Buggea

Leggi l’intervista al prof. Pier Giovanni Bresciani

Leggi l’intervista a Massimo Mazzucchelli

Leggi l’intervista a Stefano Zanatta

La crisi uccide, non restiamo sordi

Chiudiamo oggi il cerchio sul difficile tema degli imprenditori suicidi. Dopo una settimana passata ad ascoltare le storie di chi ha reagito, a scoprire come fare per non imboccare una strada senza ritorno, a parlare di altri, angosciosi casi, l’ultima testimonianza di chi, sul territorio, fa cultura e prevenzione per salvare la parte buona dell’Italia che produce.

Torniamo in Veneto, terra d’impresa e di suicidi, con il progetto “Life Auxilium“, messo in opera dalla Confartigianato di Asolo-Montebelluna, la Caritas e la Uls 8 di Asolo per avvicinare gli imprenditori in difficoltà e aiutarli a gestire la crisi. La parola al presidente della Confartigianato di Asolo-Montebelluna Stefano Zanatta, uno degli ideatori di “Life Auxilium” che, a un certo punto, no ha potuto far altro che dire “Basta” alla strage.

Si chiude il nostro focus settimanale, ma non dubitate: noi di Infoiva continueremo a tenere alta l’attenzione verso questo fenomeno, facendo in modo, nel nostro piccolo, che questa strage silenziosa non sia dimenticata. Mai.

Leggi l’intervista a Stefano Zanatta

Morire d’impresa, noi non ci stiamo


di Davide PASSONI

Morire d’impresa. Quando la crisi morde, gli imprenditori che restano senza impresa, i lavoratori che restano senza lavoro possono non essere in grado di sopportare il colpo. E possono compiere gesti estremi. Succede ed è successo spesso negli ultimi mesi e così qualcuno ha deciso di muoversi per affrontare il problema. La Confartigianato di Asolo-Montebelluna, la Caritas e la Uls 8 di Asolo hanno dato vita al progetto “Life Auxilium“, con un numero verde (800130131) e punti di ascolto sul territorio per avvicinare gli imprenditori in difficoltà e aiutarli a gestire la crisi. Prima che sia troppo tardi. Ci ha raccontato del progetto uno dei suoi ideatori, il presidente della Confartigianato di Asolo-Montebelluna Stefano Zanatta.

Come è nata la vostra iniziativa?
La nostra è una realtà ad alta densità imprenditoriale che ha arricchito il territorio con aziende nate soprattutto tra gli Anni ’70 e ’80. In questi ultimi anni di crisi, uno “stato di calamità innaturale” che dura da troppo tempo, abbiamo cercato di capire come questa crisi fosse percepita da parte degli imprenditori della zona. Volevamo sondare i loro stati d’animo, niente di più. Abbiamo preso a campione diversi titolari di impresa, senza andare a vedere il settore merceologico nel quale operavano. Il lavoro è stato fatto da due psicoterapeuti e i risultati ottenuti sono stati insoliti, per noi.

Ovvero?
C’era chi percepiva la crisi come un momento per ripensare l’intero sistema e ripartire con maggior slancio e coglieva l’aspetto positivo nella negatività del momento. Dall’altra parte c’era chi, non avendo mai avuto problemi nella propria azienda, si vedeva tutto a un tratto mancare il lavoro, le banche che non erogavano prestiti, i tempi dei pagamenti che si allungavano… In poche parole, queste persone si vedevano crollare il momdo addosso, senza essere preparate dal punto di vista psicologico a gestire il momento drammatico. E intanto che raccoglievamo tutti questi dati, aumentava il numero di imprenditori che si toglievano la vita. Per cui abbiamo pensato che fosse il momento di fare qualcosa.

Ed è nato…
Ecco dunque l’idea di “Life Auxilium”, un centro di ascolto che non chiamerei banalmente sportello anti-suicidi come è stato definito da più parti. In questo progetto abbiamo coinvolto la Caritas di Treviso, che aveva già intrapreso un progetto simile al nostro, ci siamo incontrati e confrontati e assieme a loro abbiamo presentato un progetto di supporto al territorio. Abbiamo coinvolto anche la Uls 8, la nostra Uls territoriale, perché vedevamo nel fenomeno la possibilità di aspetti patologici. Così è nato lo sportello che è attivo dal 2 marzo, che riceve circa un paio di chiamate al giorno da parte di imprenditori che lamentano la stretta creditizia delle banche, le pressioni di Equitalia, i mancati pagamenti da parte di clienti e fornitori. Ma riceviamo anche tante mail davvero strazianti.

Che servizi offre “Life Auxilium”?
Lo sportello offre un servizio di tipo psicologico e uno di tipo tecnico. Vogliamo dare alle persone le indicazioni per muoversi quando ci fanno domande pratiche, ma anche gli strumenti per affrontare il disagio da un punto di vista psicologico.

Oltre a voi, chi sostiene gli imprenditori in difficoltà?
Abbiamo notato che è importantissimo il sostegno della famiglia la quale, a volte, finge invece di non vedere. In alcuni casi estremi che ho conosciuto c’erano problemi familiari alle spalle che, una volta sopraggiunti anche quelli economici, hanno fatto esplodere le situazioni.

Perché si arriva a tanto, secondo lei?
Nel nostro contesto culturale, il fallimento imprenditoriale è visto come un fallimento personale. Un retaggio duro a morire, perché bisogna cambiare e capire che l’impresa è soprattutto un’infrastruttura sociale, non è una cosa personale, esclusiva: quando gestisco 3-400 persone, la mia azienda non si ferma a me, va oltre, investe il territorio e la società che mi circonda. Bisogna cambiare la testa della gente, un lavoro molto lungo e difficile da fare.

E poi c’è il fatto che, nella vostra zona, le piccole aziende sono davvero tante…
Viviamo sì in un territorio ad alta imprenditorialità, ma che è fatto di piccole aziende; oggi il mercato è globalizzato, per cui gli orizzonti sono cambiati e bisogna essere preparati ad affrontarlo in modo adeguato. In questo senso, è necessario fare squadra, sistema, aggregare imprese per sostenere il nostro tessuto sociale e produttivo.

Quanti imprenditori hanno deciso di farla finita in questi anni di crisi, nel vostro territorio?
Negli ultimi tre anni, sono oltre 50 i casi di imprenditori del Nord-est che si sono tolti la vita e alcuni di questi mi hanno toccato personalmente da vicino.

I familiari di alcuni imprenditori suicidi hanno accusato le istituzioni di essere stati lasciati soli. Che consa ne pensa?
Penso che vadano assolutamente aiutati, che lo Stato debba essere più vicino, non solo quando si tratta di spremere le aziende ma anche quando vanno sostenute. Il problema è che la burocrazia è sempre più forte e vince su una politica sempre più debole. E poi alla fine l’anello ancora più debole è quello che dovrebbe essere il più forte, ovvero l’impresa, l’imprenditore che dovrebbe lavorare tutti i giorni per portare ricchezza a sé e al territorio. E questo è un grave paradosso.

C’è un gran bisogno di Terraferma

Quando un imprenditore sente la propria azienda e la propria vita sballottate dalle onde della crisi, sul punto di affondare, la cosa che vorrebbe di più al mondo è approdare sulla terra ferma. E proprio Terraferma si chiama l’iniziativa di sostegno psicologico gratuito per gli imprenditori in difficoltà, nata all’interno del network Imprese che Resistono.

Perché, come sostiene Massimo Mazzucchelli, imprenditore del Varesotto e responsabile del progetto Terraferma, la prima mossa che bisogna fare di fronte alla richiesta di aiuto da parte di un imprenditore ormai senza alcuna speranza è riportarlo a confrontarsi con la realtà, riportare il problema alle sue giuste dimensioni senza che si assolutizzi. Tanti drammi possono essere evitati se presi in tempo, bisogna solo evitare che l’imprenditore resti solo: a lui e a chi lo sostiene, poi, il compito di uscire dal tunnel.

Leggi l’intervista a Massimo Mazzucchelli

Imprese alla ricerca di Terraferma

 

Imprese che resistono, imprenditori che devono resistere. Di fronte alla crisi, al timore di doversi trovare nella situazione di licenziare i propri indipendenti o alla paura del fallimento, molti imprenditori decidono di togliersi la vita. Altri invece riescono, con l’aiuto e il supporto di chi sta loro attorno a risalire la china, e guardare al domani.

Infoiva ha intervistato Massimo Mazzucchelli, imprenditore e responsabile del progetto Terraferma, un’iniziativa nata in senso all’associazione Imprese che resistono, per offrire un supporto psicologico immediato (gli psicologi di Terraferma sono reperibili 24 ore su 24) a chi si trova, troppo spesso inconsapevolmente, ad attraversare il momento più buio.

Com’è nata l’idea di Terraferma?
Faccio parte del movimento Imprese che resistono (ICR) dal 2009, ossia da quando è nato, e da allora ci impegniamo a denunciare come la crisi economica sempre più forte aggredisca soprattutto le piccole imprese italiane: aumentano i casi di suicidio fra gli imprenditori che non ce la fanno più. L’idea di Terraferma è nata di conseguenza: mi ricordo che all’inizio del 2012 mi era capitato di ascoltare a qualche telegiornale le parole di un Ministro italiano che ‘giustificava’, mi passi il termine, come in una situazione di grave difficoltà come quella che stiamo attraversando, sia normale che aumentino i casi di gesti estremi, un po’ come è successo in Grecia. Di fronte a queste parole, la mia prima reazione è stata di forte rabbia: non mi sembrava possibile che nessun facesse niente. Era più che mai necessario offrire a tutti gli imprenditori un sostegno immediato, soprattutto del punto di vista psicologico, e specializzato: così ho contattato un’amica psicologa e nel giro di un paio di mesi è nato il progetto Terraferma. Oggi l’iniziativa conta 30 psicologi in tutta Italia, sempre reperibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Perché avete scelto questo nome, Terraferma?
Viviamo in una fase di cambiamento epocale, l’industria manifatturiera, un tempo cavallo di battaglia dell’italianità, viene ricollocata in altri Paesi, perchè la produzione costa meno. Ma come si crea lavoro e ricchezza allora nel nostro Paese? Se le situazioni di crisi hanno da sempre posto gli imprenditori di fronte ad una scelta, questa volta si tratta di trovarsi in un vicolo cieco, dove la piccola e media industria, da sola, non ha gli strumenti per salvarsi. Gli imprenditori vivono oggi in una situazione di tempesta, e volevamo trasmettere l’idea di una Terraferma, di un punto d’appiglio cui ancorarsi.

Qual è la sua storia da imprenditore?
Mi sono diplomato in ragioneria e sono un ingegnere mancato, nel senso che ho frequentato per un un paio d’anni il Politecnico, ma poi ho scelto di dedicarmi all’impresa di famiglia. Mio padre è mancato poco dopo, ma è da lui che ho appreso le conoscenze fondamentali per mandare avanti un’impresa: essere presenti 7 giorni su 7 in azienda e occuparsi esclusivamente dell’attività. La nostra azienda produce dispenser per nastri adesivi, si tratta di attrezzi che servono per l’imballaggio e sono quindi destinati alle aziende di produzione: l’Europa resta il nostro primo cliente, l’America secondo, mentre in Italia il nostro giro d’affari si aggira attorno al 5% del fatturato. A partire dal 2009 la nostra produzione ha subito una forte flessione, come conseguenza al calo della produzione nelle imprese di tutto il mondo. E’ proprio in quel periodo che ho capito che per un imprenditore è necessario investire almeno una parte del proprio tempo per conoscere e approfondire ciò che accade intorno alla propria azienda e nel mondo, interessarsi alla vita pubblica, alle scelte del governo, delle associazioni di categoria. la mia reazione immediata è stata quella di rimboccarmi le maniche: investire sulla produzione di nuovi articoli, produrre abbassando i i costi, creare brevetti su nuovi prodotti, affidarsi marketing on line, ma qualunque sforzo facessi di risultati sul fatturato non se ne vedevano. Nel momento più difficile mi sono avvicinato al movimento Imprese che resistono.

Quali sono le ragioni più frequenti per cui gli imprenditori si rivolgono a Terraferma?
Il problema fondamentale in Italia è la mancanza di lavoro: l’assenza di liquidità è un sintomo della mancanza di lavoro, che è la vera causa della crisi. Le ragioni per cui gli imprenditori si rivolgono a noi sono diverse: dalla banca che vuole il rientro dei Fidi, agli artigiani in difficoltà perché, per determinare quanto devono pagare di tasse, il fisco si basa ancora oggi sugli studi di settore, che non tengono conto dei momenti di crisi e del reale fatturato dell’azienda. Gli artigiani che non riescono a pagare si trovano così costretti a fare ricorso, che spesso non viene accolto, e se il pagamento non viene evaso a quel punto subentra Equitalia. Altre ragioni ancora riguardano la difficoltà a rientrare nei pagamenti con i clienti, e molto spesso il primo cliente a non pagare è lo Stato.

Perchè è importante offrire un supporto psicologico agli imprenditori che vivono sulla propria pelle l’esperienza della crisi?
L’imprenditore è abituato a fare da sé, ma in queste situazioni estreme è impensabile agire da soli. Sono spesso i famigliari a contattarci: il rischio è che l’imprenditore si chiuda in sè stesso, vuoi per la difficoltà del sentirsi chiamare tutti i giorni dalla Banca, il rischio che i fidi non vengano rinnovati, e la vergogna di sentirsi definiti evasori anche quando non si tratta di assolutamente di evasori, ma di imprenditori in ritardo con i pagamenti per mancanza di liquidità. Quello cerchiamo di fare in primis è riportare la persona a confrontarsi con la realtà, perché spesso di fronte alla tempesta si perde il contatto con chi ci sta attorno: il problema viene ingigantito e si perdono di vista le cose fondamentali, i rapporti con famiglie e i colleghi. In un secondo momento, superata la fase spiazzamento iniziale, il nostro compito è di fornire un supporto pratico alle imprese, per aiutarle a uscire dalle criticità con cui si trovano a fare i conti, mettendo a disposizione una rete di commercialisti, avvocati e consulenti finanziari.

Una fra le spinte più forti che conducono gli imprenditori a prendere la decisione più estrema, ovvero togliersi la vita, riguarda il peso di dover licenziare i propri dipendenti. Quali emozioni scatena?
Ogni imprenditore vive un senso di responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. Questo vale soprattutto per i piccoli imprenditori, perché c’è contatto diretto, si lavora insieme, mentre nelle grandi aziende queste decisioni vengono gestite dalle risorse umane. Di fronte a una persona che molto spesso è un’amico d’infanzia, oppure un dipendente che lavora nelle tua azienda da 30 anni, i cui figli lavorano lì, risulta impossibile per un impreditore dire ‘non sono più in grado di offrirti un lavoro’. L’imprenditore vive da un lato un forte senso di respinsabilità, perchè molto spesso conosce le storie singole di ciascuna famiglia, e dall’altra parte un senso di impotenza, perchè non riesce a far fronte alla crisi e a non aumentare la produzione.

Avete vissuto in prima persona casi di imprenditori che hanno tentato il suicidio? Perchè si arriva ad una decisione così estrema?
Qualche mese fa mi è capitato di ricevere la telefonata di una persona che ‘non ce la faceva più’, ma che fortunatamente è riuscita a superare il momento più buio. Hanno contattato Terraferma anche parenti e famigliari di persone che purtroppo si sono tolte la vita e avevano bisogno di capire che cosa fare dell’azienda, come agire. Siamo in contatto inoltre con la figlia di Mario Frasacco, l’imprenditore di Roma che si è suicidato lo scorso 4 aprile, che ha voluto denunciare allo Stato la disperazione che vivono sulla loro pelle ogni giorni i titolari di aziende.

Fare impresa oggi in Italia fa paura?
Fa paura a chi la sta facendo, sono sempre di meno i piccoli imprenditori che ‘mettono’ in azienda i propri figli perché non ne vale più la pena; preferiscono indirizzarli verso lo studio, l’università e un percorso formativo fuori dall’azienda di famiglia, che molto spesso coincide con un non-ritorno. Il capitale investito in un’azienda dovrebbe remunerare sia l’imprenditore che il rischio d’impresa, ma oggi non è più così. Non c’è la soddisfazione della crescita, diminuisce la domanda interna, si allarga lo spazio d’azione ma si riducono le quantità. Si lavora sul presente, e non si guarda al futuro, purtroppo.

Alessia CASIRAGHI

Imprenditori suicidi, la parola allo psicologo

Che cosa succede quando un imprenditore si vede crollare il mondo addosso perché la sua impresa fallisce? Quali pensieri, dinamiche, corti circuiti scattano nella mente di un imprenditore che si vede costretto a licenziare i propri addetti, portandosi addosso la responsabilità di inguaiare non solo la propria famiglia ma anche quelle delle persone che con lui e per lui hanno lavorato, magari da sempre?

Da domande come queste partono persone e associazioni che cercano di aiutare chi si trova sull’orlo dell’abisso, gente che interpreta segnali, accoglie richieste d’aiuto, prova a intervenire prima che accada l’irreparabile. Proprio per farci spiegare che cosa accade nell’interiorità degli imprenditori sull’orlo del suicidio, Infoiva ha intervistato il prof. Pier Giovanni Bresciani, Presidente della Società Italiana di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. Perché, mai come in questo caso, prevenire significa salvare.

Leggi l’intervista al prof. Pier Giovanni Bresciani

Imprenditore tenta il suicidio: salvato dai carabinieri

La depressione che lo stava divorando negli ultimi mesi non era una novità per nessuno e, proprio per questo, si temeva che potesse arrivare a compiere un folle gesto.

Un imprenditore, che soffriva per la situazione in cui versava la sua azienda, è uscito di casa armato di fucile, gridando alla moglie la sua intenzione di morire.
La donna, terrorizzata al pensiero che il marito potesse mettere in pratica ciò che da tempo minacciava di fare, ha subito chiamato i carabinieri, anche perché, mentre si allontanava da casa, ha fatto anche esplodere un colpo in aria.

E’ successo nel bellunese, questa storia drammatica, ma che, almeno per ora, ha avuto un finale amaro ma non tragico.
Grazie al sistema di localizzazione del cellulare, infatti, l’uomo è stato individuato a Padola, dove possiede una seconda casa e lì i carabinieri si sono subito diretti.

Inizialmente è stata ritrovata l’auto dell’imprenditore, e immediatamente la zona è stata messa in sicurezza, anche grazie all’intervento del 118 e dei vigili del fuoco.
Dopo minuti interminabili, durante i quali l’uomo non usciva dalla casa nella quale si era barricato, finalmente è uscito, arrendendosi alle forze dell’ordine.

Essendo in stato confusionale, probabilmente a causa dei medicinali che aveva assunto, è stato subito portato all’ospedale di Pieve di Cadore.

Vera MORETTI

Reagire alla crisi: io faccio così

Reagire alla crisi si può e si deve. C’è chi sceglie di non lasciarsi andare e trasforma il problema in una opportunità. Imprenditori costretti a chiudere che si reinventano una nuova professionalità, lavoratori che si ritrovano nel mezzo di una strada e raccolgono le loro forze per diventare a propria volta imprenditori e aprire un’attività.

La crisi è dura, ma è anche piena di casi e di storie di persone che hanno scelto di non cedere allo sconforto e all’amarezza; persone che hanno deciso che il miglior modo di rispondere alle difficoltà è quello di prenderle di petto e dire “Non ci sto“. Oggi ne raccontiamo una emblematica, quella di Giulia, per dare a tutti il segnale che vogliamo che passi: reagire si può e si deve.

Leggi l’intervista a Giulia Buggea

Ricomincio da me e divento imprenditrice

 

Nella lingua giapponese esiste un termine, Kiki, che letteralmente significa ‘rottura di equilibrio statico‘, ma che volgarmente viene tradotto con ‘crisi’. Una parola che rieccheggia sempre più spesso nei giornali e nelle conversazioni di chi, imprenditori e non, si trova a fare i conti con il lavoro che non c’è più, il rischio del fallimento o del licenziamento. Ma se il primo Ki esprime il concetto di ‘rischio’, il secondo Ki traduce l’idea di rottura in nuova ‘opportunità‘. Si può ricominciare davvero dopo aver attraversato l’esperienza della perdita?

Infoiva ha intervistato Giulia Buggea, ex responsabile amministrativa che oggi vive la sua ‘seconda vita’ da imprenditrice, a capo dell’azienda Studio Blu di Desio. Perchè ricominciare da capo, magari scoprendo un talento inaspettato, è sempre possibile.

Qual era la sua professione prima di diventare imprenditrice?
Sono stata responsabile amministrativa in una Sgr per circa 8 anni, poi nel 2009 ho deciso di approdare in uno studio notarile milanese. Avevo avuto da poco il secondo figlio e la prospettiva di una riduzione di orario mi faceva comodo; quindi quando mi è stato offerto un contratto di 6 ore, pur mantenendo lo stesso stipendio del posto precedente, non ho avuto esitazioni. Sono stata assunta, pur maturando qualche perplessità circa la scelta della mia assunzione perchè la contabilità in uno studio notarile è molto semplice, non richiede competenze particolari come invece una Sgr. Dopo circa un anno, è arrivato il licenziamento, preceduto da un periodo di mobbing.

Come ha reagito alla notizia del licenziamento?
Mi era già capitato di cambiare lavoro, non sono mai stata una professionista particolarmente sedentaria, ho sempre cercato di arricchire il mio curriculum a 360 gradi. Quindi il primo impatto non è stato così preoccupante, certo non mi era mai capitato prima di allora di venire licenziata, però ho incassato il colpo. La fase problematica è arrivata dopo: non avevo ancora ‘toccato con mano’ il momento socio economico di crisi che stavamo e stiamo vivendo, e mi sono sentita come schiaffeggiata. Ho pensato più volte ‘oddio il mio curriculum non interessa più a nessuno’: non capivo per quale ragione, ma, al termine di molti colloqui, seppur il ruolo che mi si richiedeva di ricoprire rispecchiava a pieno la mia professionalità, non venivo scelta perchè ero ‘troppo’. Quindi ho cercato di alleggerire il curriculum, di modificarlo, nella speranza di poter trovare un nuovo impiego.

Quale è stato invece l’impatto psicologico?
Per natura non sono una persona che si abbatte, ho un carattere piuttosto reattivo. Quello che più mi lasciava perplessa erano le cause del licenziamento, la loro futilità. Benchè mi fosse stata offerta una liquidazione di un’annualità lavorativa, ho deciso di non accettare: perchè se non sussiste una ragione valida per venire licenziata, non vedo perchè io debba accettare.

Quanto tempo è trascorso dal licenziamento all’avvio della nuova impresa?
Circa un anno di inattività.

E dopo, come si ricomincia e si decide di ‘diventare imprenditori’?
Non avrei mai e poi mai pensato di mettermi in proprio: ho sempre vissuto l’attività lavorativa, da dipendente, in modo oserei dire ‘assillante’. Pensi che la mia secondo figlia è nata il 3 gennaio, e dopo aver preso congedo per la maternità il 23 dicembre (ma solo perchè c’erano di mezzo le Vacanze di Natale!), a una settimana dal parto sono tornata al lavoro. Il mio senso del dovere nei confronti del lavoro era ossessivo. Quindi mi sono detta: se l’azienda è mia rischio di non vivere più!

Come ha mosso i primi passi da imprenditrice?
Ho deciso di prendere parte allo Start, un’iniziativa della Camera di Commercio di Monza e Brianza, che ha lo scopo di formare i nuovi imprenditori, fornendo loro attraverso corsi ad hoc le conoscenze amministrative, di marketing, di comunicazione, che sono la base per chi vuole lanciare una nuova attività. Inoltre a chi presentava il business plan più completo e convincente veniva erogato un finanziamento a fondo perduto per l’apertura della nuova attività. E sono stata fortunata, perchè l’ho vinto.

Di che cosa si occupa la sua azienda?
La mia azienda si chiama Studio Blu e si occupa della gestione del risarcimento dei sinistri assicurativi. Il mio è un ruolo da mediatore, di filtro, tra la vittima del sinistro e la compagnia assicurativa, per quanto concerne qualunque evento che genera un danno e che può essere risarcito da un’assicurazione; quindi si va dagli incidenti stradali, alle responsabilità professionali, responsabilità civile, infortuni, malattie. Tecnicamente il mediatore viene definito ‘patrocinatore stragiudiziale’, perchè se l’avvocato opera in giudizio, il patrocinatore opera in via stragiudiziale, quindi avendo un contatto diretto con il liquidatore, con il vantaggio di poter dimostrare immediatamente e direttamente gli elementi in suo possesso. Diversamente, quando ci si reca davanti ad un giudice per mezzo di un avvocato, si consegnano delle pratiche su cui il giudice delibererà in seguito. Viene da sè che la prassi in via stragiudiziale risulta molto più snella, vanta tempi più rapidi e soprattutto dal punto di vista economico è molto meno dispendiosa che affidare il sinistro ad un avvocato.

Come ha scelto di cimentarsi in questo settore?
L’ho scoperto navigando in rete, e poi è un lavoro che mi si veste addosso. E’ una professione che mi piace definire ‘utile’ e che a mio avviso non conosce crisi. Si tratta di un’attività in franchising, non è una novità assoluta per l’Italia, però sono poche le persone che ad ora si sono cimentate.

Ora che fa l’imprenditrice, teme che in futuro possa trovarsi nella situazione di dover licenziare un dipendente?
Assolutamente si. Al momento non ho dipendenti, siamo in 3 soci, ma mi piacerebbe in futuro poter offrire lavoro a qualcuno e allargare la mia attività, ma so anche che lo farò solo quando avrò la certezza di poter assumere un nuovo dipendente. Forse perché sono passata attraverso l’esperienza della perdita del lavoro, ma sono sempre più convinta che un dipendente sia la risorsa più importante di qualsiasi azienda. Un dipendente felice rende la tua azienda più florida. Dall’altra parte, le cronache dei giornali ci riportano situazioni gravi in cui gli imprenditori si trovano costretti a licenziare, e credo che in quei casi si tratti di una sofferenza da entrambe le parti, sia per chi perde il lavoro, sia per chi è obbligato a licenziare. Sono situazioni di disperazione.

Secondo lei, è corretto dire che in un momento di crisi ‘il miglior welfare è il lavoro’?
Sicuramente si. Il Governo dovrebbe incentivare le assunzioni. Da parte mia in questo momento, trattandosi di una start up, non mi trovo nella condizione di poter assumere; dall’altra parte esistono invece aziende più grandi che potrebbe assumere ma non lo fanno a causa della profonda incertezza del mercato. Se lo Stato intervenisse con sgravi sui contributi o agevolazioni sulle assunzioni, questo potrebbe essere senza dubbio un buon mordente.

Alessia CASIRAGHI