Se la PA paga, il Pil sale

Sarà per il monito lanciato la scorsa settimana dal presidente della Repubblica Napolitano, sarà perché ormai imprese e cittadini sono stufi di un Paese a due velocità – dove il contribuente, persona fisica o azienda, deve pagare subito le tasse mentre lo Stato… hai voglia -, fatto sta che mai come in questi giorni si è sentito parlare di sblocco dei pagamenti della PA verso i suoi fornitori privati.

Vero, siamo ancora alla fase del parlare, fatti pochi, però è evidente che l’attenzione sul fenomeno si sta alzando. Ultimo in ordine di tempo è arrivato ieri colui che i creditori della PA ce li ha in casa: tanti, stufi e incazzati con la schiuma alla bocca. Parliamo del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che, dati alla mano, ha suonato la sveglia al Governo (quale??); secondo Squinzi, se si liquidassero i crediti delle imprese da parte della Pubblica Amministrazione, l’effetto domino potrebbe portare a un aumento in 5 anni di 250mila occupati e a una crescita del Pil dell’1% per i primi 3 anni, dell’1,5% nel 2018.

Secondo Squinzi,questi dati dimostrano che l’immissione di liquidità nel sistema delle imprese innescherebbe un circolo virtuoso portatore di posti di lavoro e, quindi, maggiori consumi. Confindustria auspica che il governo in carica provveda tempestivamente ad adottare, già dal prossimo Consiglio dei ministri, tutti i provvedimenti necessari per la liquidazione di quanto spetta alle imprese, così come indicato dalla Commissione europea e chiaramente emerso dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio“.

Il gol di Squinzi è nato da un assist d’oro fornitogli dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli proprio sul giornale di casa, Il Sole 24Ore. In una intervista al quotidiano, Grilli ha infatti dichiarato che “dopo il via libera della Commissione europea non vedo ragioni per non procedere con un provvedimento d’urgenza per sbloccare i pagamenti della pubblica amministrazione e il ministero è pronto al decreto. Penso sia giusto partire prima possibile. Ci stiamo lavorando con la massima urgenza, poi toccherà a Monti decidere quando spingere il bottone“.

Se poi Grilli mette le mani avanti ricordando come “servirà anche un consenso ampio del Parlamento, perché un eventuale decreto dovrà comunque essere convertito in legge dal Parlamento. Qui si tratta di cambiare, anche se solo una tantum, i saldi di bilancio. Non è un’operazione banale“, lascia comunque aperta una porta per i comuni, la parte della PA che si trova stretta tra l’incudine del patto di stabilità e il martello dei creditori privati: insomma, la situazione più scomoda e antipatica. Secondo il ministro, sarà possibile “l’allentamento una-tantum del patto di stabilità interno perché i Comuni che hanno fondi in cassa possano usarli“.

Staremo a vedere. In questo caso, il “purché se ne parli” non va bene: bisogna passare dalle parole ai fatti.

Campioni d’Europa! Nel ritardo…

L’allarme è uno di quelli da non prendere assolutamente sotto gamba: nelle transazioni commerciali tra Pubblica Amministrazione e imprese private, i tempi di pagamento medi presenti in Italia arrivano a 180 giorni mentre nella sanità, secondo quanto ricorda la Cgia di Mestre, si arriva a saldare i debiti anche dopo 4 se non 5 anni, soprattutto al Sud. Un dato ancora più sconfortante se si pensa che la media dei Paesi Ue è pari a 65 giorni.

Meglio, si fa per dire, la situazione dei pagamenti tra le imprese private, dove il saldo fattura avviene dopo 96 giorni, a fronte di una media europea di 52 giorni. Solo in Spagna stanno peggio di noi, mentre i tedeschi se la cavano con una media inferiore a quella europea e quasi un terzo di quella italiana: 35 giorni. I dati forniti dalla Cgia di Mestre, dunque, parlano chiaro: che tra i grandi d’Europa nessuno può vantare una simile zavorra.

Se a questa situazione aggiungiamo la stretta creditizia in atto e gli effetti della crisi economica che continuano a farsi sentire in misura sempre maggiore – commenta il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi –, la tenuta finanziaria delle imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, è a rischio con ricadute occupazionali negative facilmente prevedibili“.

Nemmeno l’entrata in vigore del decreto di recepimento della Direttiva Europea contro il ritardo dei pagamenti, avvenuto a l’1° gennaio scorso, sembra aver sortito effetto. Lo conferma sempre Bortolussi: “Stando alle segnalazioni che ci sono giunte da molti piccoli imprenditori, la nostra Pubblica amministrazione non starebbe rispettando i tempi di pagamento previsti dalla legge. Per questo chiediamo un intervento dell’Unione europea teso a richiamare il nostro Paese affinché il saldo fattura non superi i 30/60 giorni“.

In questo senso è una buona notizia l’apertura giunta lunedì dai vicepresidenti della Commissione Ue, Olli Rehn e Antonio Tajani, per sbloccare il pagamento dei debiti della PA. I due, in una nota congiunta, hanno affermato che il saldo dei debiti commerciali da parte dello Stato a favore delle imprese “potrebbe rientrare tra i fattori attenuanti” quando sarà valutata la conformità del bilancio pubblico italiano con i criteri di deficit e debito del patto di stabilità europeo.

La Commissione europea si attende ora che l’Italia prepari un piano di smaltimento dei debiti a carico della Pubblica amministrazione verso le imprese su un arco temporale di due anni: “Sollecitiamo un piano in tempi brevi – ha detto Tajani, la forma poi è prerogativa del Paese. Ma ricordiamoci che parliamo della terza economia dell’area euro e intervenire rapidamente sarebbe importante per ridare fiato alle imprese, evitare fallimenti e far ripartire l’economia“.

Immediato il plauso di Rete Imprese Italia, che ha poi spronato, in una nota, la politica italiana: “Il Governo si affretti a preparare il piano di liquidazione che definisca chiaramente la dimensione del fenomeno sanzionando quelle amministrazioni che non collaboreranno fattivamente nella fornitura dei dati. Il pagamento dei debiti pregressi della pubblica amministrazione verso le imprese costituisce il tassello determinante per il ripristino di condizioni economiche normali per l’uscita dalla crisi“.

Bene, tutti contenti e tutti felici. Adesso vediamo se alle parole seguiranno i fatti. In tutti questi anni di chiacchiere, abbiamo un po’ perso la fiducia.

“Lo Stato ci dica a che gioco stiamo giocando”

di Davide PASSONI

Riprendiamo oggi l’intervista a  Luca Peotta, coordinatore nazionale di Imprese che Resistono, sui ritardati pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione alle picc0le imprese.

L’ultimo a sollecitare una soluzione ai ritardati pagamenti delle PA è stato Napolitano, ma fino a che non avremo un governo ci sarà poco da fare… Che cosa chiederete al nuovo esecutivo come priorità per l’economia?
Staremo a vedere. La speranza e l’illusione. Mi pare che “di nuovi esecutivi” ce ne siano stati, non ultimo quello “tecnico”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e ha avuto il gran coraggio di promettere all’Europa il pareggio di bilancio dello Stato italiano proprio nel 2013, quando magari poteva dire che tutto ciò sarebbe avvenuto nel 2014/15. Da questa situazione se ne esce solo se riparte la domanda economica interna. Il nuovo esecutivo si dovrà concentrare, e anche con rapidità, a far rimanere più denaro nel portafogli degli italiani che ancora lavorano e smettere di depredare denaro, con ulteriori tasse, alle imprese. Lo Stato NON deve più elargire 30 miliardi di aiuti alle imprese sotto forma di incentivi – che drogano il mercato- o di fondi perduti: non ci possiamo permettere economicamente di perdere il fondo sempre se non l’abbiamo già perso. Quei soldi se li deve tenere, servono per pagare 1/3 del pregresso! Le aziende quest’anno l’IRAP la devono pagare in questo modo: 50% spalmato sulle buste paga nei 12 mesi a “tasse 0” e il resto del 50% reinvestito nella propria azienda su rendicontazione obbligatoria – manutenzione macchinari, opere edili, ecc… Invece la TARES è alle porte, l’aumento dell’Iva di un punto percentuale è quasi certo.

Quante sono, grosso modo, le aziende associate a Imprese che Resistono che si trovano in difficoltà per crediti con la PA non riscossi?
Non sono molte che in ICR hanno un rapporto diretto con la PA. Fanno parte spesso del cosiddetto “indotto”. Pedine della variante del gioco del “domino”, non il gioco strategico ma quello di abilità. Si dà inizio facendo cadere la prima addosso a quella successiva, causando un effetto a catena molto coreografico. Di coreografico qui non c’è nulla, se non un coreografico disastro!

Come limitare l’asimmetricità di uno Stato che se non paghi ti mette subito i sigilli all’azienda, mentre quando tocca a lui onorare i debiti si prende tutto il tempo che vuole?
Parola d’ordine “compensare crediti e debiti”, sarebbe già un passo in avanti. Sembra però un ostacolo insuperabile. L’asimmetricità non andrebbe solo limitata ma eliminata. Lo Stato visto come nemico da combattere: fino a quando questo concetto non verrà demolito da questo loop non si uscirà. Lo Stato, un buon padre di famiglia che amministra bene la “cosa” pubblica, che smettesse di dire “sì, ma io sono lo Stato!”… quando avremo il piacere di conoscerlo? Lo Stato che non perde mai l’occasione di sanzionare tutto e tutti senza neanche voler ascoltare chi non ha potuto adempiere al proprio dovere di corretto contribuente. L’IMU pagata dalle famiglie e dagli imprenditori che hanno subito il terremoto in Emilia la dice lunga. Lo Stato sa bene dove trovarti e che cosa possiedi, conosce bene il modo per colpirti e ha regole ben chiare, mentre tu di lui sai ben poco e difficilmente riesci a far valere i tuoi sacrosanti diritti!

Imprese che Resistono… ma per quanto ancora contro uno Stato ostile?
A maggio 2013 sono esattamente 4 anni che ripetiamo le stesse cose. Il declino che annunciammo 4 anni fa non era sicuramente frutto di veggenza e neppure di sesto senso. A distanza di quasi 4 anni a Milano è stata organizzata, lo scorso 13 febbraio, “la giornata della collera” che ha denunciato la perdita di 360mila posti di lavoro nel comparto edile dall’inizio della crisi economica. A noi avevano detto “no alle proteste, sì alle proposte per uscire dalla crisi economica”. Al Ministero dell’Economia – luogo di protesta di ICR nel luglio 2009 – ci avevano detto, per “tutte proposte di buon senso”, vediamo se tecnicamente sono attuabili: stiamo aspettando ancora risposta. Nel frattempo 3 milioni sono i disoccupati italiani, pari a 40 stadi di calcio da 60mila persone: ogni GIORNO si registra il tutto esaurito! Ma non per assistere alla partita di calcio, si sta in silenzio ad aspettare che il Paese Italia abbia il coraggio di cambiare veramente, che lo Stato mostri il giusto coraggio e che non resti a guardare seduto in tribuna d’onore fino a quando avremo il coraggio di resistere in queste condizioni. Lo Stato resti pure a guardare, ma stiamo aspettando da tempo, troppo tempo, che scenda in campo e ci dica prima di tutto a quale gioco stiamo giocando!

“La PA non paga? Smettiamo di rifornirla!”

di Davide PASSONI

Se le imprese sono le prime vittime dei ritardati pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione, andiamo subito tra di loro e incontriamo Luca Peotta, coordinatore nazionale di Imprese che Resistono, network che si autodefinisce “Gruppo di imprese costituite in Comitato composto per l’80% circa da piccole aziende. Siamo trasversali alle associazioni ed apartitici. Valorizziamo la nostra ‘FORZA LAVORO’ per difendere Occupazione e Impresa”. Un’intervista che dovrebbe essere letta tutta d’un fiato ma che abbiamo deciso di dividere in due puntate: per cambiare le cose, due pugni nello stomaco sono meglio di uno.

Quanto è letale per la piccola impresa il “combinato disposto” tra ritardi nei pagamenti della PA e crisi economica?
E’ letale come un morso di un serpente: prima immobilizza e poi… Sono 90, come la paura, i miliardi che la PA deve elargire alle imprese. Quante di queste imprese oggi non riescono più a pagare stipendi ai propri dipendenti e di conseguenza la posizione contributiva degli stessi. Aziende, ditte piccole, medie, grandi che esse siano, destinate comunque alla chiusura poiché non più in grado di presentare la corretta documentazione richiesta, quindi non più in grado di affrontare il futuro. Faccio un esempio: il DURC, Documento unico regolarità contributiva. Più che “combinato disposto” direi un combinato dispetto! Altro problema deriva dal “patto di stabilità” dei comuni: quante piccole ditte operanti nei Comuni non vengono pagate per lavori eseguiti oramai da tempo? Aggiungo che il problema non è solo tra PA e privato ma anche tra aziende private.

Perché la piaga della PA morosa è una peculiarità tutta italiana?
Perché lo Stato ha un sistema forte, inattaccabile. Si dice che a pagare e a morire c’è sempre tempo! Anche se hai ragione nel vantare il tuo credito è meglio che non attacchi lo Stato, potrebbe essere pericoloso. Il sistema giustizia sappiamo bene come funziona, la tua causa potrebbe essere per lo Stato solo un vantaggio, 5/6 anni per sentirsi dire che hai ragione e altri 4/5 anni per sentirsi dire che presto sarai quietanzato. Pagare in ritardo è nel DNA di questo Paese. Altro problema sono le risorse economiche, non ci sono i soldi, si dice… Anche se ci fossero chi lo scoprirebbe?. Ma al vertice di tutto c’è un sistema bancario che non risponde più, oramai da troppo tempo, ai crediti targati PA. Hai una fattura da scontare in banca intestata Comune, Provincia, Regione? No grazie, la banca ti risponde che non può anticipare nulla e non intende finanziare il debito dello Stato nei tuoi confronti.

Perché su questa questione si chiacchiera tanto e si risolve poco o nulla?
Perché fare delle chiacchiere non costa nulla, almeno per il momento. Chiacchierando si creano illusioni, basta un mezzo annuncio che sembra che tutto è risolto. Siamo un popolo di creduloni, le campagne elettorali sono da sempre un esempio concreto. Si promette sempre di tutto e poi basta dire… sì, ma il sistema è complicato, nessuno ha la bacchetta magica, lo Stato per risolvere il problema non può ulteriormente indebitarsi. Notizia di poche ore fa è che il debito pubblico italiano ha superato di 22 miliardi i 2mila miliardi. Ma se lo Stato non paga non sarebbe meglio smettere di fornirlo? Nel privato funziona così: sei un cattivo pagatore? Ti fornisco ma solo se paghi alla consegna, poche chiacchiere.

A domani per il “secondo round”.

PA e imprese, la piaga infetta dei pagamenti ritardati

di Davide PASSONI

C’è una piaga, cattiva e tenace da sanare, nel tessuto produttivo e imprenditoriale italiano. Una piaga ormai quasi del tutto infetta: è la piaga dei pagamenti ritardati, o persino mancati, da parte della Pubblica Amministrazione verso le sue imprese creditrici.

Solo la scorsa settimana c’è stato il richiamo fermo e preoccupato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Urgente sbloccare pagamenti della PA alle imprese. Se non ci saranno interventi tempestivi, la crisi si acutizzerà. L’economia reale torni al centro dell’attenzione” aveva detto ricevendo il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.

Bastano due dati per far riflettere sullo scandalo: ammontano a circa 90 miliardi di euro i crediti vantati dalle imprese nei confronti della PA, PA che paga mediamente a 180 giorni (quando paga…), contro una media Ue di 65. Cifre che ammazzerebbero, nel giro di pochi anni, il tessuto produttivo di qualsiasi Paese.

Abbiamo scelto di dare solo due cifre, indicative del fenomeno, per fare in modo che durante la settimana escano piano piano gli altri numeri dello scandalo attraverso le voci di chi vive d’impresa (o cerca di farlo) e attraverso dati e ricerche. Perché un Paese civile non può permettere questo scempio quando già la crisi fa strage di aziende e professionisti. Perché, in un momento nel quale la politica e la Pubblica Amministrazione sono sotto la luce costante del riflettore dell’opinione pubblica, uno Stato asimmetrico e predatore è anacronistico e intollerabile: non solo per una questione di equità, ma anche per una questione di sopravvivenza del Paese.

Confedercontribuenti manifesta per la salvaguardia delle pmi

Le piccole e medie imprese italiane si trovano in una situazione di sofferenza a causa della crisi economica che, ormai da un po’, sta caratterizzando il Paese.

Per questo motivo Confedercontribuenti interverrà alla manifestazione che si svolgerà a Torino mercoledì 24 ottobre, al fianco di Imprese che resistono.

Carmelo Finocchiaro, presidente nazionale di Confedercontribuenti, ha dichiarato la propria volontà di presenziare all’evento per protestare contro la distruzione della piccola e media impresa. E, a questo proposito, ha usato parole dure: “Insieme a tante altre sigle di base degli imprenditori, vogliamo dire basta ad un fisco che ci sembra ormai socio di maggioranza delle imprese italiane”.

Questo è il motivo che ha portato Confedercontribuenti a chiedere una riforma della fiscalità nazionale, oltre alla riforma dell’Irap, e la deducibilità dei costi al 100% sostenuti dalle imprese.

Finocchiaro ha aggiunto: “Chiediamo una modifica radicale degli studi di settore e la sospensione dell’applicazione dei parametri di Basilea nell’affidamento bancario. Sarà, insomma, una manifestazione dell’impresa che produce: quella non intende abbassare la testa ma continuare ad essere il motore centrale dello sviluppo italiano, malgrado una politica che rema contro”.

Vera MORETTI

C’è un gran bisogno di Terraferma

Quando un imprenditore sente la propria azienda e la propria vita sballottate dalle onde della crisi, sul punto di affondare, la cosa che vorrebbe di più al mondo è approdare sulla terra ferma. E proprio Terraferma si chiama l’iniziativa di sostegno psicologico gratuito per gli imprenditori in difficoltà, nata all’interno del network Imprese che Resistono.

Perché, come sostiene Massimo Mazzucchelli, imprenditore del Varesotto e responsabile del progetto Terraferma, la prima mossa che bisogna fare di fronte alla richiesta di aiuto da parte di un imprenditore ormai senza alcuna speranza è riportarlo a confrontarsi con la realtà, riportare il problema alle sue giuste dimensioni senza che si assolutizzi. Tanti drammi possono essere evitati se presi in tempo, bisogna solo evitare che l’imprenditore resti solo: a lui e a chi lo sostiene, poi, il compito di uscire dal tunnel.

Leggi l’intervista a Massimo Mazzucchelli

Imprese alla ricerca di Terraferma

 

Imprese che resistono, imprenditori che devono resistere. Di fronte alla crisi, al timore di doversi trovare nella situazione di licenziare i propri indipendenti o alla paura del fallimento, molti imprenditori decidono di togliersi la vita. Altri invece riescono, con l’aiuto e il supporto di chi sta loro attorno a risalire la china, e guardare al domani.

Infoiva ha intervistato Massimo Mazzucchelli, imprenditore e responsabile del progetto Terraferma, un’iniziativa nata in senso all’associazione Imprese che resistono, per offrire un supporto psicologico immediato (gli psicologi di Terraferma sono reperibili 24 ore su 24) a chi si trova, troppo spesso inconsapevolmente, ad attraversare il momento più buio.

Com’è nata l’idea di Terraferma?
Faccio parte del movimento Imprese che resistono (ICR) dal 2009, ossia da quando è nato, e da allora ci impegniamo a denunciare come la crisi economica sempre più forte aggredisca soprattutto le piccole imprese italiane: aumentano i casi di suicidio fra gli imprenditori che non ce la fanno più. L’idea di Terraferma è nata di conseguenza: mi ricordo che all’inizio del 2012 mi era capitato di ascoltare a qualche telegiornale le parole di un Ministro italiano che ‘giustificava’, mi passi il termine, come in una situazione di grave difficoltà come quella che stiamo attraversando, sia normale che aumentino i casi di gesti estremi, un po’ come è successo in Grecia. Di fronte a queste parole, la mia prima reazione è stata di forte rabbia: non mi sembrava possibile che nessun facesse niente. Era più che mai necessario offrire a tutti gli imprenditori un sostegno immediato, soprattutto del punto di vista psicologico, e specializzato: così ho contattato un’amica psicologa e nel giro di un paio di mesi è nato il progetto Terraferma. Oggi l’iniziativa conta 30 psicologi in tutta Italia, sempre reperibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Perché avete scelto questo nome, Terraferma?
Viviamo in una fase di cambiamento epocale, l’industria manifatturiera, un tempo cavallo di battaglia dell’italianità, viene ricollocata in altri Paesi, perchè la produzione costa meno. Ma come si crea lavoro e ricchezza allora nel nostro Paese? Se le situazioni di crisi hanno da sempre posto gli imprenditori di fronte ad una scelta, questa volta si tratta di trovarsi in un vicolo cieco, dove la piccola e media industria, da sola, non ha gli strumenti per salvarsi. Gli imprenditori vivono oggi in una situazione di tempesta, e volevamo trasmettere l’idea di una Terraferma, di un punto d’appiglio cui ancorarsi.

Qual è la sua storia da imprenditore?
Mi sono diplomato in ragioneria e sono un ingegnere mancato, nel senso che ho frequentato per un un paio d’anni il Politecnico, ma poi ho scelto di dedicarmi all’impresa di famiglia. Mio padre è mancato poco dopo, ma è da lui che ho appreso le conoscenze fondamentali per mandare avanti un’impresa: essere presenti 7 giorni su 7 in azienda e occuparsi esclusivamente dell’attività. La nostra azienda produce dispenser per nastri adesivi, si tratta di attrezzi che servono per l’imballaggio e sono quindi destinati alle aziende di produzione: l’Europa resta il nostro primo cliente, l’America secondo, mentre in Italia il nostro giro d’affari si aggira attorno al 5% del fatturato. A partire dal 2009 la nostra produzione ha subito una forte flessione, come conseguenza al calo della produzione nelle imprese di tutto il mondo. E’ proprio in quel periodo che ho capito che per un imprenditore è necessario investire almeno una parte del proprio tempo per conoscere e approfondire ciò che accade intorno alla propria azienda e nel mondo, interessarsi alla vita pubblica, alle scelte del governo, delle associazioni di categoria. la mia reazione immediata è stata quella di rimboccarmi le maniche: investire sulla produzione di nuovi articoli, produrre abbassando i i costi, creare brevetti su nuovi prodotti, affidarsi marketing on line, ma qualunque sforzo facessi di risultati sul fatturato non se ne vedevano. Nel momento più difficile mi sono avvicinato al movimento Imprese che resistono.

Quali sono le ragioni più frequenti per cui gli imprenditori si rivolgono a Terraferma?
Il problema fondamentale in Italia è la mancanza di lavoro: l’assenza di liquidità è un sintomo della mancanza di lavoro, che è la vera causa della crisi. Le ragioni per cui gli imprenditori si rivolgono a noi sono diverse: dalla banca che vuole il rientro dei Fidi, agli artigiani in difficoltà perché, per determinare quanto devono pagare di tasse, il fisco si basa ancora oggi sugli studi di settore, che non tengono conto dei momenti di crisi e del reale fatturato dell’azienda. Gli artigiani che non riescono a pagare si trovano così costretti a fare ricorso, che spesso non viene accolto, e se il pagamento non viene evaso a quel punto subentra Equitalia. Altre ragioni ancora riguardano la difficoltà a rientrare nei pagamenti con i clienti, e molto spesso il primo cliente a non pagare è lo Stato.

Perchè è importante offrire un supporto psicologico agli imprenditori che vivono sulla propria pelle l’esperienza della crisi?
L’imprenditore è abituato a fare da sé, ma in queste situazioni estreme è impensabile agire da soli. Sono spesso i famigliari a contattarci: il rischio è che l’imprenditore si chiuda in sè stesso, vuoi per la difficoltà del sentirsi chiamare tutti i giorni dalla Banca, il rischio che i fidi non vengano rinnovati, e la vergogna di sentirsi definiti evasori anche quando non si tratta di assolutamente di evasori, ma di imprenditori in ritardo con i pagamenti per mancanza di liquidità. Quello cerchiamo di fare in primis è riportare la persona a confrontarsi con la realtà, perché spesso di fronte alla tempesta si perde il contatto con chi ci sta attorno: il problema viene ingigantito e si perdono di vista le cose fondamentali, i rapporti con famiglie e i colleghi. In un secondo momento, superata la fase spiazzamento iniziale, il nostro compito è di fornire un supporto pratico alle imprese, per aiutarle a uscire dalle criticità con cui si trovano a fare i conti, mettendo a disposizione una rete di commercialisti, avvocati e consulenti finanziari.

Una fra le spinte più forti che conducono gli imprenditori a prendere la decisione più estrema, ovvero togliersi la vita, riguarda il peso di dover licenziare i propri dipendenti. Quali emozioni scatena?
Ogni imprenditore vive un senso di responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. Questo vale soprattutto per i piccoli imprenditori, perché c’è contatto diretto, si lavora insieme, mentre nelle grandi aziende queste decisioni vengono gestite dalle risorse umane. Di fronte a una persona che molto spesso è un’amico d’infanzia, oppure un dipendente che lavora nelle tua azienda da 30 anni, i cui figli lavorano lì, risulta impossibile per un impreditore dire ‘non sono più in grado di offrirti un lavoro’. L’imprenditore vive da un lato un forte senso di respinsabilità, perchè molto spesso conosce le storie singole di ciascuna famiglia, e dall’altra parte un senso di impotenza, perchè non riesce a far fronte alla crisi e a non aumentare la produzione.

Avete vissuto in prima persona casi di imprenditori che hanno tentato il suicidio? Perchè si arriva ad una decisione così estrema?
Qualche mese fa mi è capitato di ricevere la telefonata di una persona che ‘non ce la faceva più’, ma che fortunatamente è riuscita a superare il momento più buio. Hanno contattato Terraferma anche parenti e famigliari di persone che purtroppo si sono tolte la vita e avevano bisogno di capire che cosa fare dell’azienda, come agire. Siamo in contatto inoltre con la figlia di Mario Frasacco, l’imprenditore di Roma che si è suicidato lo scorso 4 aprile, che ha voluto denunciare allo Stato la disperazione che vivono sulla loro pelle ogni giorni i titolari di aziende.

Fare impresa oggi in Italia fa paura?
Fa paura a chi la sta facendo, sono sempre di meno i piccoli imprenditori che ‘mettono’ in azienda i propri figli perché non ne vale più la pena; preferiscono indirizzarli verso lo studio, l’università e un percorso formativo fuori dall’azienda di famiglia, che molto spesso coincide con un non-ritorno. Il capitale investito in un’azienda dovrebbe remunerare sia l’imprenditore che il rischio d’impresa, ma oggi non è più così. Non c’è la soddisfazione della crescita, diminuisce la domanda interna, si allarga lo spazio d’azione ma si riducono le quantità. Si lavora sul presente, e non si guarda al futuro, purtroppo.

Alessia CASIRAGHI

L’Italia che produce, in provincia. A Besnate un bell’esempio di sostegno alla piccola imprenditoria

Bell’esempio di sostegno alla piccola impresa in provincia. Infatti, a Besnate, piccolo comune in provincia di Varese, trecentocinquanta partite iva, tante piccole imprese soprattutto nel settore meccanico, hanno varato il progetto ConFiducia: il Comune impegna 20mila euro per il progetto di garanzia a favore delle imprese. «Grazie al meccanismo di convenzione con Artigianfidi la garanzia sugli investimenti viene poi estesa fino ad una quota massima di 2 milioni di Euro» spiega l’assessore Giovanni Corbo. Se si rientra regolarmente, nessuno spende nulla, se le cose vanno male il costo a bilancio è solo per il Comune ed è sostenibile. Per l’amministrazione si tratta di un impegno di bilancio relativamente esiguo, mentre per le aziende del territorio è un aiuto a pensare al domani con più tranquillità. «Il nostro Comune è caratterizzato da molte piccole imprese, con un numero esiguo di dipendenti. Spesso il proprietario, per comprare un macchinario nuovo, dà come garanzia alle banche i propri beni. E questo può essere anche un freno a investire».

L’assessore Corbo ha fatto della tutela dei «ceti produttivi» la sua battaglia, specie in questo periodo, ha organizzato più di un incontro proprio con la rete Imprese che resistono. «Anche nel Pgt (il piano urbanistico che regola la crescita dei Comuni, NdR) abbiamo fatto scelte per favorire le realtà imprenditoriali, per rendere più facile il loro lavoro e favorire l’espansione, laddove non ci sia speculazione». Tradotto: se si vuole costruire un capannone per tenerlo vuoto, la cosa non piace. Ma se dentro ci si mette macchine e operai e magazzini, il Comune vuole dare una mano.

fonte: VareseNews