Tasse, previdenza e burocrazia: ecco quanto spendono le imprese

Saranno addirittura 248,8 i miliardi di euro che a fine anno le imprese italiane avranno sborsato tra tasse, contributi previdenziali e burocrazia. A rendere noto il dato è l’Ufficio studi della CGIA di Mestre che ha stimato il contributo fiscale e i costi burocratici che le nostre imprese si fanno carico ogni anno. «In nessun altro Paese d’Europa – ha segnalato il segretario Giuseppe Bortolussi – viene richiesto un simile sforzo fiscale. Nonostante la giustizia civile sia lentissima, il credito sia concesso con il contagocce, la burocrazia abbia raggiunto livelli ormai insopportabili, la Pubblica amministrazione rimanga la peggiore pagatrice d’Europa e il sistema logistico-infrastrutturale registri dei ritardi spaventosi, la fedeltà fiscale delle nostre imprese è massima».

Dell’intera cifra oltre 110 miliardi di euro contribuiscono al gettito fiscale nazionale, cifra tra l’altro calcolata per difetto. La stima della Cgia è stata determinata secondo le metodologie utilizzate da Eurostat; in questo importo, però, mancano alcune tasse «minori», il cui ammontare si aggirerebbe intorno ai 12 miliardi di euro, come il prelievo comunale sugli immobili strumentali e altri «piccoli» tributi locali. Inoltre, vanno aggiunti anche i contributi per la copertura previdenziale dei propri dipendenti, una cifra che stimiamo in circa 95 miliardi di euro. Integrando queste ultime informazioni con le statistiche Eurostat, si può affermare che complessivamente le imprese italiane subiscono un peso tributario e contributivo pari a 217,8 miliardi di euro (anno 2012).

La Cgia, inoltre, nei giorni scorsi ha lanciato l’allarme per le venticinque scadenze fiscali da pagare, una ogni due giorni, fino alla fine del 2014: saranno più di 90 i miliardi di euro di imposte nei prossimi due mesi per le imprese nostrane, tra cui il versamento delle ritenute Irpef dei dipendenti e dei collaboratori familiari, le ritenute in capo ai lavoratori autonomi, l’Iva, gli acconti Irpef, Ires e Irap, il versamento dell’ultima rata dell’Imu e della Tasi.

La crisi continua per le imprese del settore tessile

La crisi non si ferma, soprattutto per le imprese italiane che lavorano nel settore tessile, dell’abbigliamento e delle calzature.
Per far capire la gravità della situazione, in poco più di un anno si è perso l’equivalente di un piccolo paese, pari a 14.500 imprese che hanno chiuso i battenti da gennaio 2013 ad oggi.

Se nel primo bimestre 2011 si contavano 158mila imprese appartenenti al comparto moda, nel primo bimestre 2014 erano 131.682, con una riduzione del 17%, dato confermato dalla
Fismo Confesercenti, l’associazione di categoria che rappresenta le pmi del commercio, del turismo, dei servizi, dell’artigianato e dell’industria, in occasione della sua assemblea annuale.

I saldi particolarmente negativi appartengono alle città di Roma, Napoli, Torino, Milano e Brescia.

Negli ultimi sei anni, gli italiano hanno ridotto la propria spesa in abbigliamento e calzature di circa 150 euro.
Nel 2007 si spendevano circa 1.000 euro pro-capite, nel 2013 se ne sono spesi 850.

La crisi, inoltre, ha cambiato profondamente le abitudini dei consumatori e, di conseguenza, anche il settore distributivo: nel 2012 per la prima volta la quota di prodotti venduti in saldo o in promozione ha superato il 50% del fatturato e tra i canali distributivi perdono più terreno i piccoli esercizi (-10,3% nel 2012), poi la grande distribuzione de-specializzata (-9,9%) e crescono solo outlet (14,2%) ed e-commerce che ha visto nel 2012 un +31% rispetto al 2011.

Vera MORETTI

La crisi si supera dando opportunità agli imprenditori

Le piccole e medie imprese rappresentano la maggior parte del tessuto produttivo italiano e, per questo, vanno tutelate, anche e soprattutto in questo periodo di crisi profonda.

Flavio Zanonato, ministro dello Sviluppo Economico, ha ribadito, in occasione di un incontro avvenuto a Biella tra imprenditori, associazioni di categoria, sindacati e studenti, l’importanza di creare, per gli imprenditori italiani, nuove opportunità di lavoro.
In questo modo, infatti, potrebbe ripartire anche la produttività e la disponibilità ad investire, aprendo un circolo virtuoso che potrebbe permettere di uscire dal tunnel.

Zanonato ha affrontato tutte le problematiche che stanno mettendo in gravi difficoltà le pmi italiane, a cominciare dal costo dell’energia, che, come abbiamo precedentemente commentato anche su Infoiva.com, è tra gli elementi anti-competitivi che ci fa rimanere indietro rispetto agli altri Paesi europei.
A questo proposito, il ministro ha intenzione di presentare nei prossimi Consigli dei Ministri una proposta per effettuare un taglio di 3 miliardi sulla bolletta elettrica complessiva.

Per quanto riguarda il cuneo fiscale, il giudizio del ministro è positivo. ”Si dice che un miliardo per la riduzione del cuneo fiscale è poco. E’ vero, ma è la prima volta che si va nella direzione opposta. Abbiamo invertito un trend. Si può fare di più’ ma ci vuole tempo, perché quasi tutti gli sprechi della pubblica amministrazione sono computabili in ore di lavoro equivalenti. Mano a mano che arriveranno altre risorse, ad esempio dalla lotta all’evasione fiscale, le metteremo tutte a sostegno della competitività del sistema manifatturiero”.

Vera MORETTI

Le pmi affondate dalla pressione fiscale

Le imprese italiane sono sempre più afflitte dalla pressione fiscale, e la situazione non accennerà a migliorare, almeno da qui alla fine dell’anno.

Tra novembre e dicembre, infatti, gli imprenditori del Belpaese saranno chiamati a pagare ben 24 tasse, per un gettito atteso di 76 miliardi di euro.
E, ancora una volta, a pagarne le conseguenze più pesanti saranno le pmi.

Ma ciò che è più allarmante è sapere che il 2014 non porterà nulla di buono, a causa, soprattutto, degli effetti dell’aumento dell’Iva, ma anche delle misure fiscale introdotte dalla Legge di Stabilità.

Secondo la Cgia, e in particolare secondo il suo segretario, Giuseppe Bortolussi, le imprese sono “sfiancate dalla crisi e sempre più a corto di liquidità, c’è il pericolo che molte piccole e micro imprese non riescano a superare questo vero e proprio stress test fiscale“.

Ecco le rate che peseranno di più sulle casse delle pmi:

  • l’acconto IRES, l’imposta sul reddito delle società di capitali, costerà alle imprese 16,9 miliardi di euro;
  • l’IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive, 11,6 miliardi di euro;
  • la seconda rata IMU 4,4 miliardi di euro;
  • gli acconti IRPEF 4,8 miliardi di euro.

Con la fine dell’anno, oltre alle spese per regali e cenoni, si dovrà conteggiare anche la nuova TARES, il tributo ambientale di cui i Comuni devono ancora definire il numero di rateazioni.

E nel 2014? I pensionati subiranno un aggravio fiscale tra i 74 e i 144 euro, secondo le ultime stime della Cgia Mestre, per le famiglie con redditi medio alti il maggior prelievo si aggirerà tra i 70 e i 357 euro, mentre per quelle con redditi bassi si potrà raggiungere la soglia dei141 euro.

Alla luce di questa situazione che potrebbe essere definita incresciosa, anche il Commissario UE José Manuel Barroso ha voluto intervenire: “La crisi economica ha evidenziato la necessità di liberare le imprese dagli ostacoli superflui per stimolare la crescita e l’occupazione. Entro la fine del 2014 la Commissione avrà effettuato quasi 50 valutazioni degli oneri normativi esistenti in vari settori, concentrandosi su ambiente, occupazione e industria. Le leggi inutili indeboliscono le leggi necessarie“.

Vera MORETTI

Attività commerciali: la ripresa dov’è?

Provate a parlare di ripresa a chi ha un’attività commerciale. Nella migliore delle ipotesi, vi risponderà con una sonora risata, nella peggiore vi tirerà addosso il mazzo di chiavi con il quale ha dovuto chiudere il proprio negozio.

Il recente meeting di Confesercenti che si è tenuto in Umbria ha infatti messo bene in chiaro una cosa: la crisi non allenta la presa sul commercio. Nonostante segnali di miglioramento rispetto al 2012, l’estate 2013 ha segnato un altro momento nero del settore. Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Confesercenti, tra luglio e agosto hanno aperto 2.656 nuove imprese commerciali in sede fissa e hanno cessato l’attività 5.574, per un saldo negativo di 2.918 unità.

Il risultato del IV bimestre 2013 è lievemente migliore (+332 imprese) di quello registrato lo scorso anno nello stesso periodo (-3.250 esercizi), ma si è annullata la “ripresina” messa a segno nel bimestre maggio-giugno 2013 quando hanno aperto 7.546 nuove imprese, 3.532 in più rispetto a marzo-aprile.

Complessivamente, nei primi otto mesi dell’anno si registra un saldo negativo di 14.246 imprese nel commercio al dettaglio (18.208 nuove aperture e 32.454 chiusure). Si tratta comunque di un miglioramento, anche se debole, rispetto al saldo dei primi otto mesi del 2012, negativo per 15.772 esercizi. Il risultato è dovuto principalmente all’aumento delle nuove iscrizioni (+2.015), dato che compensa il più lieve incremento delle chiusure (+489).

Il rapporto di Confesercenti sottolinea che la percentuale di imprenditori stranieri nel settore è arrivata al 67%: “un fenomeno socio-economico che meriterebbe un approfondimento”. Molto importante anche il ruolo delle imprese giovanili, il 38,2% delle nuove iscritte, e significativo il peso delle imprese femminili (30%) e di quelle straniere (22,1%). In termini di peso sul totale delle cessazioni, appare critica la situazione delle imprese femminili, che compongono la percentuale maggiore (35%). Male anche quelle giovanili, che rappresentano il 20% delle chiusure. Resistono meglio gli imprenditori stranieri (11,9%).

La recessione, tecnicamente, sta per finire. Purtroppo non si può dire altrettanto della crisi del commercio e di quella del turismo”, dice il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni. “Ormai è chiaro a tutti che le liberalizzazioni delle aperture non servono ad agganciare la ripresa: il miglioramento dei dati 2013 sul 2012 è così lieve da sembrare più che altro un rimbalzo”.

Secondo Bussoni è “particolarmente preoccupante” la situazione di donne e giovani: “Intraprendono l’avventura imprenditoriale per crearsi un lavoro, ma la domanda interna è ancora bassissima, e il mercato asfittico”.

Senza puntare sulla formazione dei nuovi imprenditori e sull’informatizzazione delle nuove imprese – dice ancora Bussoni – non si può più sperare che il commercio continui a rivestire il ruolo di shock absorber della disoccupazione. Non è tenendo aperto sempre che si aiuta il settore: c’è bisogno di un cambiamento di mentalità e di passo. Non ci si può più improvvisare imprenditori. Ora il governo dia risposte nuove e convincenti”.

Già, sempre il governo…

La ripresa: tutti ne parlano, pochi la toccano con mano

di Davide PASSONI

Tutti ne parlano, qualcuno dice di vederla, di toccarla con mano ma, alla prova dei fatti la tanto attesa ripresa sembra essere più un mantra e un auspicio che la realtà.

Ci sono segnali di ripresa ma sarà abbastanza lenta“, ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco al termine del recente Ecofin, precisando subito che “c’è incertezza e si riflette su imprese e attività produttiva” e che sulla ripresa dell’economia pesa in particolare un “ritardo non solo di natura ciclica ma anche strutturale“. “Ripresa entro fine anno. Una crisi di governo ora sarebbe irrazionale”, gli ha fatto eco il ministro dell’Economia Saccomanni.

E per chiudere, la Bce conferma “per i restanti mesi del 2013 e il prossimo anno un lento recupero del prodotto, sostenuto soprattutto dall’orientamento ‘accomodante’ della politica monetaria“.

Insomma, tutti a dire che, forse, il fondo lo abbiamo davvero toccato e adesso altro non si può fare che risalire. In realtà, però a guardare le cifre relative alla mortalità delle imprese italiane, al peso delle tasse che le schiacciano, alla difficoltà di ripresa della domanda interna (motore primo da accendere per poter ripartire), la fotografia che appare è ben diversa.

Questa settimana Infoiva cercherà di capire che cosa c’è di vero e che cosa di propagandistico in questi proclami e di verificare se, anche in questo quadro economico il momento che stiamo vivendo è come l’ora più buia della notte: quella che precede l’alba.

Filiera industriale, linfa vitale dell’Italia

 

Piccolo è bello. Almeno in Italia, terra di filiere industriali legate alla tradizione e alla creatività made in Italy. Parte da questo presupposto il nuovo rapporto “Industria e Filiere 2012“, stilato da Prometeia e UniCredit, che mette al centro la competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali, analizzata in una ottica di filiera globale.

Il rapporto passa in esame punti di forza e debolezza delle principali filiere produttive italiane per determinarne il grado di competitività, in Italia e all’estero. Oggi per essere competitivi sui mercati internazionali bisogna crescere e la filiera rappresenta un modello vincente di aggregazione tra imprese. Nel 2012 il differenziale nelle variazioni tra la domanda estera potenziale rivolta all’Italia e la domanda interna è salito a quota 5 punti, e per il prossimo biennio le previsioni per un’ impresa italiana che rivolga all’estero la propria offerta parlano di un premio in termini di domanda compreso tra 4-5 punti percentuali rispetto ad un’azienda del made in Italy concentrata solo sul mercato domestico.

Se cala la domanda interna, le esportazioni saranno nei prossimi l’unica componente del Pil in grado di recuperare i livelli di prima della crisi: è per questo che l’internazionalizzazione non rappresenta più un obiettivo a lungo termine per le imprese italiane, soprattutto quelle più piccole e meno strutturate, ma un diktat del presente. Ripensare la filiera in un’ottica di internazionalizzazione è un’esigenza quanto più necessarie e incombente.

Secondo il rapporto stilato da Prometeia e UniCredit l’approccio di filiera rappresenterebbe la chiave strategica per un modello come quello italiano, costituito storicamente da territori, collaborazione e imprenditoria diffusa, che oggi è chiamato a reinventarsi verso mercati e processi sempre più lunghi, competitivi e globali; l’aggregarsi di aziende in alleanze produttive dovrebbe diventare linfa vitale della nostra cultura.

Il rapporto prende in esame 13 filiere del made in Italy:

  • Alimentare e bevande;
  • Automotive;
  • Carta/stampa/editoria;
  • Chimica;
  • Prodotti per costruzioni;
  • Elettronica e strumenti di precisione;
  • Componentistica meccanica;
  • Elettrodomestici;
  • Elettrotecnica;
  • Macchine e impianti;
  • Legno-arredo;
  • Metalli;
  • Moda.

Suddivise in 5 fasi:

  • sourcing;
  • prime lavorazioni;
  • lavorazioni intermedie;
  • produzioni finali;
  • distribuzione.

Per macchine e impianti, elettrotecnica, componentistica meccanica l’indice di competitività raggiunge il punteggio massimo: oggi l’Italia è in queste filiere si colloca infatti ai vertici competitivi di tutte le fasi produttive con imprese che appaiono legate fra loro da collaborazioni virtuose, ma più in generale a spingere al miglioramento è il fil rouge della competitività.

Un punteggio inferiore, ma comunque soddisfacente, viene invece attribuito a quelle filiere che presentano un netto sbilanciamento tra fasi: un esempio è rappresentato dalla filiera della moda, dove il maggiore contributo al buon posizionamento dipende soprattutto dalle lavorazioni finali. E lo stesso si potrebbe dire di altre produzioni tipiche del made in Italy come quelle dell’alimentare, ma anche a chimica e metalli, oltre che alle lavorazioni intermedie degli elettrodomestici, che presentano in linea generale un’impoverimento a monte.

Forza del brand. Il Rapporto stilato da Unicredit e Prometeia mette in luce poi come la forza dei marchi nei prodotti finali di moda, alimentare, arredo garantisce esso stesso un potenziale di crescita su mercati promettenti come Cina, Turchia e altri Paesi emergenti

Nel complesso, la strada da percorrere per raggiungere un buon livello di competitività nelle filiere italiane restano diverse e articolate: bilanciamento dei tempi di pagamento da valle a monte, miglioramento della produttività e innovazione nelle fasi industriali, accrescimento della presenza estera nella distribuzione.

In primo luogo occorre però che si faccia strada l’idea del “fare sistema” tra piccole e medie imprese complementari, aggregandosi in alleanze secondo due possibili scenari: la classica fusione tra imprese, che rimane la via maestra per raggiungere livelli di produttività ed efficienza più elevati; l’alternativa sono invece le reti tra imprese, ovvero stringendo rapporti di partnership con i propri fornitori e clienti.

Le imprese italiane sono sempre più innovative

Le imprese italiane credono nell’innovazione ed investono in essa.

Un’indagine sull’innovazione nelle imprese eseguita dall’Istat attesta che nel triennio 2008-2010 il 31,5% delle imprese italiane con almeno 10 addetti ha introdotto sul mercato o nel proprio processo produttivo almeno un’innovazione.
La spesa totale che le imprese hanno dedicato all’innovazione, in tutto il 2010, parla di 28 miliari di euro, ovvero una spesa media per addetto di 7.700 euro.

Se si esamina la situazione nel dettaglio, ad esempio considerando i singoli settori, al primo posto si colloca l’industria con 9.400 euro per addetto, seguita dai servizi con 5.800 euro per addetto e dalle costruzioni con 4.300 euro per addetto.

L’industria si conferma come il settore più innovativo in tutto il triennio preso in considerazione, con il 43,1% di imprese innovatrici, contro il 24,5% dei servizi e il 15,9% delle costruzioni.

Appare inoltre ovvio come la propensione all’innovazione interessi maggiormente le grandi imprese, e in particolare il 64,1% delle imprese con più di 250 addetti, mentre la percentuale scende a 47,1 se si tratta di imprese con 50-249 addetti e a 29,1% per quelle con 10-49 addetti.

L’innovazione riguarda nel 48,1% dei casi sia i prodotti sia i processi produttivi, mentre il 27,2% ha scelto di investire unicamente in nuovi prodotti e il restante 24,7% ha adottato soltanto nuovi processi di produzione.

Quando le aziende decidono di non rinnovarsi, spesso la causa è dovuta a fattori di natura economico-finanziaria, sia che si tratti di costi troppo elevati, sia che, invece, il problema sia una mancanza di risorse finanziarie.

Vera MORETTI

Imprese verdi? Sono le più innovative

La green economy in Italia ha ormai preso piede in tutti i settori lavorativi, tanto che è difficile, ora, trovarne uno che non ne sia stato contaminato.

Una buona notizia, non c’è che dire, che esula dal rispetto per l’ambiente e fa parte di un discorso più ampio, dove dinamicità e innovazione rappresentano i punti cardine di un’economia in cerca di ripresa.

Questo è quanto è emerso dal Rapporto GreenItaly 2012 che Fondazione Symbola e Unioncamere hanno presentato lunedì a Roma.
Ciò che sorprende piacevolmente è come la green economy abbia saputo insinuarsi anche nei comparti più tradizionali, e in ogni ambito è stata reinterpretata a seconda delle diverse esigenze.

L’Ocse, nel suo recente rapporto sull’innovazione nei diversi paesi aderenti all’organizzazione, ha infatti rilevato come, nell’ultimo decennio, le attività di ricerca nel campo delle tecnologie legate all’ambiente abbiano sviluppato per il nostro Paese una vera e propria specializzazione.

E ciò ha influito positivamente anche sull’occupazione, dal momento che circa il 30% delle assunzioni non stagionali programmate complessivamente dalle imprese del settore privato per il 2012 riguarda figure professionali legate alla sostenibilità.
Questo significa che la “rivoluzione verde” in Italia sta facendo passi da giganti e, ad oggi, interessa il 23,6% delle imprese industriali e terziarie con almeno un dipendente, meritevoli di aver investito, tra il 2009 e il 2012, in tecnologie e prodotti green.

In questo caso, inoltre, non c’è divisione tra Nord e Sud, se si considera che le prime dieci posizioni della classifica regionale per diffusione delle imprese che investono in tecnologie green sono occupate da quattro regioni settentrionali e sei del Centro-Sud.

Ma le imprese della green Italy emergono anche per la loro maggiore propensione all’innovazione, perché il 37,9% delle imprese che investono in eco-sostenibilità hanno introdotto innovazioni di prodotto o di servizio nel 2011, contro il 18,3% delle imprese che non investono green.
Stesso discorso per quanto riguarda le esportazioni: il 37,4% delle imprese green vanta presenze sui mercati esteri, contro il 22,2% delle imprese che non investono nell’ambiente.

Alla presentazione del Rapporto GreenItaly 2012 era presente, tra gli altri, anche Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, il quale ha dichiarato: “Per far ripartire il Paese non basta fronteggiare la crisi. Affrontare i nostri mali antichi: il debito pubblico, l’illegalità e l’evasione fiscale, le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, il sud che perde contatto, una burocrazia speso soffocante. Serve una visione in grado di mobilitare le migliori energie per affrontare le sfide del futuro. È necessario difendere la coesione sociale non lasciando indietro nessuno, e scommettere sull’innovazione, sulla conoscenza, sull’identità dei territori: su una green economy tricolore che incrocia la vocazione italiana alla qualità e si lega alla forza del made in Italy. È necessario cambiare partendo dai talenti dell’Italia che c’è. Per uscire dalla crisi e trovare il suo spazio nel mondo che cambia, insomma, l’Italia deve fare l’Italia”.

Gli ha fatto eco Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello: “L’economia verde può rappresentare una chiave strategica per superare questa lunga crisi, uscendone più forti e meglio in grado di costruire un futuro diverso, più sostenibile e più ricco di possibilità. Grazie ad un modello di sviluppo che si fonda sui valori tradizionali dei territori e dei sistemi produttivi italiani di piccola impresa: qualità, innovazione, eco-efficienza, rispetto dell’ambiente. Una ricetta che oggi dimostra di saper sposare i valori etici alla competitività e che ha il grande merito di favorire la coesione tra i territori. Una coesione che coinvolge migliaia di piccole e medie imprese, sempre più spesso operanti in rete tra loro, nel dare vita a questo che è ormai un vero e proprio “laboratorio verde” dell’Italia di domani”.

Vera MORETTI

Confindustria Anie: missione Sudafrica

 

Sono volati a Johannesburg fino al prossimo 25 ottobre gli imprenditori di Confindustria Anie: le aziende italiane di elettrotecnica ed elettronica sono infatti in corsa per aggiudicarsi commesse del valore pari a  30 miliardi nel settore energetico e di altri 26 miliardi nel settore dei trasporti nella capitale sudafricana.

Le imprese che hanno aderito alla missione sudafricana sono in totale 10 e in questi giorni incontreranno oltre 100 uomini d’affari e vertici delle aziende locali, che operano nel campo dell’energia, dell’automazione, dei trasporti ferroviari e della sicurezza, per fare il punto su investimenti e  nuove risorse.

Il futuro fa bene sperare, se si pensa che secondo i dati aggiornati al 2011, l’Italia ha realizzato in Sud Africa investimenti diretti esteri pari a 500 milioni di euro, mentre il numero di imprese made in Italy operanti in Sud Africa sono circa 50, che coprono una quota sul totale degli investimenti diretti esteri implementati nel Paese pari al 3%.

Ma quali sono i settori dell’industria che coinvolgono da vicino gli imprenditori italiani all’altro capo del Continente Nero? Meccanica strumentale al primo posto, seguita dalla componentistica, mezzi di trasporto, settore chimico ed naturalmente il tessile  e l’abbigliamento.

Nel dettaglio, nel 2011, il Bel Paese è decimo nella graduatoria dei principali Paesi fornitori del Sud Africa, con una quota di mercato pari al 2,7%, in crescita del 33% rispetto al 2010; l’export destinato al Sud Africa ha superato quota 1,7 miliardi di euro.

Ma quali sono le previsioni per il 2012? I pronostici stimano un rialzo intorno ai 10% del giro d’affari rispetto al 2011; in particolare l’export, nei primi mesi dell’anno,  ha inciso per il 9% sul totale esportato dalle nostre imprese, con particolare riferimento ai mercati dell’elettrotecnica e dell’elettronica . Se a fine 2011 le esportazioni italiane di tecnologie elettrotecniche ed elettroniche verso il Sud Africa ammontavano a 156 milioni di euro, solo nel primo semestre del 2012 le esportazioni  hanno raggiunto quota 75,4 milioni di euro.

Alessia CASIRAGHI