Tirocini, aumentati gli importi delle indennità. Ecco di quali

Per chi svolge un tirocinio  nell’ambito del Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani vi è un’importante novità, cioè l’aumento degli importi erogati anche i favore di coloro che già stanno svolgendo i percorsi di formazione-lavoro.

Quali tirocini avranno l’aumento di indennità?

L’indennità per i tirocini svolti nell’ambito del PON IOG (Programma operativo nazionale iniziativa occupazione giovani) passa da 300 euro mensili a 500 euro mensili. A rendere nota questa novità è l’Anpal (Agenzia nazionale politiche attive per il lavoro) con un comunicato del 25 maggio 2023.

Il Pon Iog è un programma volto a contrastare la disoccupazione giovanile, si tratta di tirocini extracurriculari attraverso percorsi formativi all’interno delle aziende pubbliche e private mirati a formazione e inserimento. Si tratta di un’esperienza pratica spendibile nel mercato del lavoro e che consente di arricchine il proprio curriculum. I tirocini sono attivati attraverso una convenzione tra l’azienda e l’ente promotore che garantisce la tutela dei tirocinanti.

Quando entra in vigore l’aggiornamento dell’indennità per i tirocini?

L’aggiornamento dell’importo sarà operativo a partire dalla mensilità successiva rispetto alla data del 25 maggio, quindi dal mese di giugno 2023, saranno coinvolti dall’aumento tutti i giovani coinvolti nel progetto, compresi i soggetti in situazione di svantaggio o con disabilità.

Ricordiamo che i tirocini in oggetto hanno la durata massima di 6 mesi.

Leggi anche: INL: l’uso fraudolento dei tirocini è immediatamente sanzionabile

Calcolo pensione: come influisce l’indennità di mobilità?

Quando avviene la liquidazione della retribuzione pensionabile, non sempre viene considerata integralmente l’indennità di mobilità al pari dell’indennità di trasferta avente effettivo valore retributivo. Per farlo, si devono dimostrare gli elementi retributivi utilizzabili per la determinazione della base del calcolo.

A tal proposito, la sentenza n. 2714 del 2020 della Corte di Cassazione chiarisce la fattispecie esaminando un caso a cui è stata sottoposta. Un lavoratore aveva contestato all’Istituto di Previdenza Sociale un errore commesso nel calcolo della pensione, sostenendo che, in violazione dell’articolo 7 della legge 233/1991, fosse stata considerata solo in modo parziale l’indennità di mobilità percepita durante gli anni di servizio.

L’ex articolo 4, comma 1 della Legge 223 del 1991 precisa che per indennità di mobilità s’intendono le somme dovute a seguito della cessazione del rapporto di lavoro conseguente alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. La legge del 28 giugno 2012 n. 92 con le successive modificazioni ha abrogato l’intervento dal 1° gennaio 2017 equiparandolo ad altre prestazioni di sostegno al reddito.

Indennità di mobilità e retribuzione pensionabile

E’ importante sottolineare che ai fini del calcolo dell’indennità di mobilità e di retribuzione personale fine a se stessa, i due concetti non necessariamente coincidono. L’aumento della retribuzione posta a base dell’indennità di mobilità non fa scattare automaticamente l’aumento della retribuzione personale: in quanto è necessario dimostrare con prove gli elementi retributivi considerati utilizzabili per la determinazione della retribuzione pensionabile.

Per rendere più comprensibile il principio, si prenda ad esempio il caso delle indennità di trasferta che rientrano per intero nell’indennità di mobilità, esse vanno incluse al 50% nella retribuzione pensionabile. Infatti, le indennità di trasferta possono rappresentare risarcimento in quanto rimborso in casi occasionali, oppure retributivo come elemento occasionale e predeterminato della retribuzione in casi continuativi. La stessa motivazione è stata ribadita dalla Corte di Cassazione che ha rigettato in via definitiva il ricorso del lavoratore della predetta sentenza, rifiutando la riliquidazione della pensione.

Accredito contributi figurativi

In linea generale, l’accredito dei contributi figurativi ai fini della retribuzione pensione avviene automaticamente nel caso si tratti di:

  • cassa integrazione;
  • assistenza antitubercolare;
  • contratti di solidarietà;
  • invalidità e inabilità indennizzate con successivo recupero della capacità lavorativa;
  • LSU;
  • disoccupazione;
  • mobilità.

L’accredito della contribuzione figurativa non avviene d’ufficio e, quindi, per averlo si deve fare domanda per i contributi figurativi derivanti da:

  • malattia e infortuni;
  • maternità e congedi parentali;
  • donazione del sangue e di midollo osseo;
  • servizio militare e assimilati;
  • educazione e assistenza dei figli;
  • congedo per donne vittime di violenza;
  • licenziamento per rappresaglia;
  • assistenza a disabili (Legge 104/92);
  • aspettativa per funzioni pubbliche elettive e cariche sindacali;
  • persecuzione politica o razziale.

Contributi emergenza Covid: quadro RF per contabilità ordinaria e RG per contabilità semplificata

I contributi per la pandemia passano dai quadri RF e RG della dichiarazione dei redditi 2021. Anche se non imponibili, dunque, i contributi che le imprese e i lavoratori autonomi hanno ricevuto per l’emergenza sanitaria nell’anno 2020 vanno riportati nei due quadri della dichiarazione dei redditi. Le erogazioni legate all’emergenza Covid non generano, tuttavia, reddito imponibile anche quando la legge non le detassa in modo esplicito.

Riportare gli aiuti ricevuti nei quadri RF e RG per finalità informative

Nel caso del quadro RF legato agli aiuti alle imprese per l’emergenza Covid l’iscrizione serve a evitare proprio l’imposizione. Nel caso, invece, del quadro RG della dichiarazione dei redditi serve solo a titolo informativo o segnaletico. L’utilizzo dei due quadri deriva dalla risposta del ministero dell’Economia e delle Finanze alla  commissione Finanze della Camera durante il question time del 23 giugno 2021.

Dichiarazione redditi 2021: il chiarimento del ministero dell’Economia

Nella risposta al question time, il ministero dell’Economia ha chiarito che l’indicazione dei contributi Covid ricevuti devono essere inseriti nei quadri per la necessità di evitare che gli aiuti possano essere assoggettati a tassazione. L’indicazione dei contributi ricevuti nei quadri RF e RG, in realtà, hanno diversa destinazione: solo il quadro RF potrebbe presentare il rischio della tassazione, mentre nei quadri RG, ma anche RE, LM, questo problema non sussiste.

Il quadro RF della dichiarazione dei redditi

Nel dettaglio del quadro RF relativo ai soggetti in contabilità ordinaria, il rigo RF 55 relativo alle variazioni in diminuzioni nel 2021 ha due nuovi codici:

  • codice 83 per gli aiuti a fondo perduto previsti dai decreti “Rilancio”, “Agosto” e “Ristori”;
  • codice 84 per l’ammontare delle varie indennità di qualsiasi natura che non concorrono alla formazione del reddito.

I contributi del codice 84 sono stati erogati eccezionalmente per l’emergenza coronavirus e sono diversi dagli aiuti esistenti prima, indipendentemente da chi li ha erogati e dalla modalità di utilizzo e contabilizzazione.

Aiuti Covid alle imprese, cosa dice l’articolo 10 bis del Dl 137 del 2020 sulla detassazione

L’interpretazione della detassazione degli aiuti Covid deriva, altresì, proprio dall’articolo 10 bis del decreto legge numero 137 del 2020. L’articolo sulla detassazione dei contributi, delle indennità e di ogni altra misura in conseguenza dell’emergenza coronavirus, specifica che:

  • i contributi e le indennità di qualsiasi natura erogati in via eccezionale a seguito dell’emergenza Covid-19 non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e del valore della produzione per l’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap);
  • tale detassazione spetta ai soggetti esercenti impresa, arte o professione, e ai lavoratori autonomi.

La specifica del Dl 137  si è resa necessaria mancando espressamente una normativa sulla detassazione degli aiuti eccezionali per via del Covid. Proprio in virtù del vuoto legislativo, gli aiuti si ritenevano soggette a imposte sui redditi ed Irap.

Come ottenere la detassazione degli aiuti Covid nella dichiarazione dei redditi 2021

Per ottenere la detassazione dei contributi ottenuti per l’emergenza Covid, le imprese dovranno apportare, in sede di dichiarazione dei redditi 2021, una corrispondente variazione in diminuzione. Per tale variazione, dovranno essere utilizzati i codici 83 e 84, ai quali seguirà l’indicazione a quadro RS.

Quadro RG per la contabilità semplificata sugli aiuti statali Covid

Il quadro RG relativo ai soggetti a contabilità semplificata presenta delle divergenze. Proprio il regime di contabilità semplificata fa in modo che i contribuenti non debbano riportare nei registri Iva l’incasso del contributo. Pertanto, i contributi a fondo perduto dovranno essere simultaneamente indicati nel seguente modo:

  • nel rigo RG 10, corrispondente ad “Altri componenti positivi” è da indicare il codice 27;
  • nel RG 22 riportante “Altri componenti negativi”, si riporta il codice 47.

Pertanto, le istruzioni prevedono l’indicazione delle somme, sia in aumento che in diminuzione, del reddito imponibile.

Quadro RG dichiarazione redditi degli autonomi: altri aiuti diversi dal fondo perduto

Per gli altri aiuti erogati a soggetti in contabilità semplificata diversi dai contributi a fondo perduto si applicano altri codici. In particolare i codici da utilizzare sono il 28 e il 48. Uno dei casi di aiuti non a fondo perduto riguarda, ad esempio, il credito d’imposta sulle locazioni.

Omessa indicazione degli aiuti ricevuti per Covid nella dichiarazione dei redditi

L’indicazione dei codici, in ogni modo, non va a incidere sull’imponibile e, pertanto, sull’imposta. Dunque, la non indicazione degli aiuti stessi nei quadri corrispondenti non dovrebbe portare a delle sanzioni, come spiegato dallo stesso ministero dell’Economia nel question time di fine giugno.

Come si calcola l’indennità di fine mandato dell’agente di commercio?

Nel momento in cui si cessa il rapporto di agenzia, all’agente competono una serie di indennità, tra le quali quelle di cessazione del rapporto previste dall’articolo 1751 del Codice civile e dalla contrattazione collettiva. Le indennità sono dovute sia nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato che a tempo indeterminato.

Tre tipologie di indennità alla fine del rapporto di lavoro dell’agente di commercio

La determinazione di quanto dovuto alla fine del rapporto di lavoro si calcola su tre tipologie di indennità, così come previsto dalla contrattazione degli Accordi economici collettivi (Aec):

  • indennità, da versare all’Enasarco, di risoluzione del rapporto (Firr);
  • una indennità suppletiva di clientela, stabilita dalla contrattazione collettiva;
  • una componente dell’indennità suppletiva, ovvero l’indennità meritocratica.

Indennità di risoluzione del rapporto (Firr)

L’indennità di risoluzione del rapporto (Firr) è riconosciuta all’agente di commercio anche se quest’ultimo non ha concorso all’incremento del fatturato o della clientela. Il Firr, dunque, è dovuto in ogni caso ed è calcolato sulle provvigioni maturate e liquidate fino alla cessazione del rapporto. Gli accantonamenti si versano annualmente all’Enasarco e si calcolano mediante l’applicazione della percentuale del 3% al montante delle provvigioni liquidate all’agente nel corso del rapporto di lavoro.

Fine mandato agente di commercio: l’indennità suppletiva di clientela

L’indennità suppletiva di clientela deve essere corrisposta all’agente di commercio senza alcuna condizione, salvo nei casi in cui il rapporto di lavoro sia terminato per fatto imputabile all’agente stesso. In altre parole, l’indennità è dovuta se il contratto si scioglie su iniziativa dell’agenzia preponente. L’indennità è dovuta all’agente anche nei casi in cui quest’ultimo rassegni le dimissioni per:

  • invalidità permanente e totale;
  • infermità o malattie per le quali non è possibile, ragionevolmente, continuare il rapporto di lavoro;
  • maturazione della pensione di vecchiaia, della pensione anticipata, dell’anticipo pensionistico Ape Enasarco o Ape Inps;
  • circostanze attribuibili al preponente;
  • gli eredi, nel caso di decesso.

Come si calcola l’indennità suppletiva di clientela

L’indennità suppletiva di clientela si calcola con l’applicazione di tre percentuali sulle provvigioni maturate. Nel dettaglio:

  • il 3% sulle provvigioni maturate nei primi 3 anni di rapporto di lavoro;
  • l’aliquota sale al 3,5% per le provvigioni rientranti tra il quarto e il sesto anno di rapporto;
  • il 4% sulle provvigioni corrisposte negli anni successivi.

Indennità meritocratica

La terza formula di indennità di fine rapporto dell’agente riguarda quella meritocratica. È riconosciuta e pagata solo quando l’attività dell’agente abbia portato l’agenzia a un aumento di fatturato con la clientela esistente o con quella acquisita. Inoltre, l’indennità è dovuta anche qualcosa l’importo complessivo dell’indennità di risoluzione e indennità suppletiva sia inferiore all’importo massimo previsto dall’articolo 1751 del Codice civile. L’articolo, al terzo comma, prevede che “l’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente a un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi 5 anni e, nel caso in cui il contratto risale a meno di 5 anni, sulla media del periodo in questione”.

Indennità di fine rapporto agenti per il Codice civile

Diverse dalla contrattazione collettiva sono le indicazioni sull’indennità di fine rapporto degli agenti enunciate dall’articolo 1751 del Codice civile. L’indennità di legge è un obbligo per l’agenzia preponente per la cessazione del rapporto quando:

  • dall’operato dell’agente, il preponente ne abbia ricavato nuovi clienti o abbia sviluppato in maniera consistente gli affari con i clienti esistenti e l’agenzia ne ricavi ancora vantaggi derivanti dagli affari con questi clienti;
  • dall’equità del pagamento dell’indennità. In particolare, occorre tener conto dalle provvigioni che l’agente perde dallo sviluppo degli affari dell’agenzia preponente con i clienti.

Di conseguenza, affinché all’agente venga riconosciuto il diritto all’indennità di scioglimento del rapporto, sempre dovuta nel caso della Firr, dovranno essere presi in considerazione sia l’accresciuto portafoglio clienti per l’operato dell’agente, sia la perdita in capo all’agente stesso per le mancate provvigioni sui clienti acquisiti.

Indennità di fine rapporto agenti, quando non è dovuta

I casi nei quali l’indennità di fine rapporto dell’agenzia non è dovuto all’agente sono elencati dallo stesso articolo 1751 del Codice civile. In particolare, l’indennità non si paga se:

  • il contratto di agenzia è stato risolto su iniziativa dell’agenzia preponente per un’inadempienza imputabile all’agente. In tal caso, per la gravità dell’inadempienza, non è possibile proseguire il contratto, anche temporaneamente;
  • l’agente recede dal contratto, ad esclusione dei casi in cui il recesso non sia giustificato. Tali circostanze devono essere imputabili all’agenzia preponente. Non possono essere imputabili all’agente circostanze nelle quali non sia ragionevolmente possibile proseguire il contratto di agenzia, come malattia o infermità;
  • l’agente ceda a un terzo i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto con l’agenzia in accordo con il proponente.

Misura indennità agenti fine rapporto per il Codice civile

La misura dell’indennità agli agenti per la fine del mandato, erogata nei casi enunciati dall’articolo 1751 del Codice civile, si determina nel limite massimo di un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente di commercio negli ultimi 5 anni e, nel caso in cui il contratto risale a meno di 5 anni, sulla media del periodo in questione. Il diritto all’indennità decade se non viene esercitato dall’agente nel limite temporale di un anno.

Come si calcola l’indennità per il patto di non concorrenza

icurarsi la fedeltà del proprio dipendente anche alla cessazione del rapporto di lavoro ha un costo, che si esplica nell’indennità per il patto di non concorrenza, ma come deve essere calcolato questo compenso?

Sintesi patto di non concorrenza

Si è parlato nel precedente articolo del patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratori ed è stato sottolineato che questo ha dei limiti temporali e territoriali, che devono essere esplicati nell’atto scritto a pena di nullità del patto. Abbiamo sottolineato che il patto di non concorrenza deve essere retribuito, ora vedremo come si calcola il compenso. Infine, si è accennato nell’articolo precedente, che è possibile trovare QUI, che il compenso per il patto di non concorrenza deve essere congruo e che nel caso in cui sia irrisorio il patto stesso può essere dichiarato nullo, cioè come mai posto in essere. Ciò che invece manca è una precisa indicazione su come si deve calcolare l’indennità, elemento che non chiarisce l’articolo 2125 del codice civile,  e per questo è necessario ricostruire delle regole tenendo in considerazione la giurisprudenza prodotta negli anni.

Elementi da valutare per il calcolo dell’indennità per il patto di non concorrenza

L’indennità per il patto di non concorrenza deve risultare da atto scritto, come d’altronde il patto stesso deve essere formulato per iscritto, il compenso deve essere proporzionale e deve tenere in considerazione le retribuzioni del lavoratore durante il periodo in cui il rapporto stesso era in vigore, l’estensione territoriale del divieto di prestare lavoro per aziende concorrenti, l’oggetto del divieto, nel senso che se il patto di non concorrenza prevede che il lavoratore debba semplicemente evitare determinate mansioni, ma che possa comunque stipulare un valido contratto di lavoro anche nello stesso settore, il compenso è ovviamente ridotto rispetto al caso in cui non possa esercitare alcun tipo di lavoro affine alla propria preparazione. Infine, deve tenere in considerazione la durata del patto di non concorrenza.

Il patto comunque non deve avere un contenuto tale da comprimere l’esplicarsi delle potenzialità del lavoratore.

Quelle indicate sono le linee generali, ma  vediamo nel dettaglio qual è la linea adottata per evitare di incappare in una nullità dell’atto che può molto penalizzare il datore di lavoro. Solitamente si consiglia di non stipulare un atto che preveda un compenso per il patto di non concorrenza che abbia un valore inferiore al 30% della retribuzione se l’estensione del divieto è valida solo il Italia e il 50% nel caso in cui il divieto si estenda in tutta l’Unione Europea. Un caso particolare è quello di Flavio Cattaneo che ha ricevuto un compenso di 2,1 milioni di euro attraverso il patto di non concorrenza stipulato con TIM.

Cosa dice la giurisprudenza sull’indennità per il patto di non concorrenza 2021

Tra le pronunce della Corte di Cassazione merita una menzione l’ordinanza 5540 del 1° marzo 2021 in cui si sottolinea che il corrispettivo deve essere determinato o determinabile e allo stesso tempo deve essere congruo.  Nel caso concreto, il datore di lavoro e il lavoratore nello stipulare il patto di non concorrenza avevano stabilito che  il compenso sarebbe stato di 18.000 euro da corrispondere in 3 anni, ma nel caso di cessazione anticipata del rapporto, lo stesso sarebbe stato calcolato in base a quanto effettivamente maturato.

Il lavoratore impugna il patto di non concorrenza per indeterminatezza del compenso, il giudice di merito sposa la tesi del lavoratore, ma la Corte di Cassazione ribalta tale decisione e stabilisce che in realtà il patto di non concorrenza è autonomo rispetto al contratto di lavoro e vede l’applicazione dell’articolo 1346 del codice civile che richiede la determinabilità della prestazione oggetto del contratto e di fatto tale criterio era comunque rispettato nel contratto posto in essere dalle parti. Di conseguenza l’unico elemento da valutare, in quel determinato caso era la congruità tra le somme stabilite e il sacrificio del lavoratore stesso. La Corte di Cassazione ritiene, in quel determinato caso, i compensi comunque congrui.

Il principio inerente la congruità delle somme è unanimemente accettato dalla giurisprudenza. Il compenso per il patto di non concorrenza 2021 non  deve essere sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto in termini di limiti posti alla capacità reddituale del lavoratore e non deve essere iniquo.

La ratio del compenso per il patto di non concorrenza

Un’altra pronuncia importante è l’ordinanza 9790 della Corte di Cassazione del 26 maggio 2020. In essa si stabilisce che il patto di non concorrenza non ha natura risarcitoria, ma costituisce il corrispettivo di un obbligo di non facere (cioè non lavorare in settori in cui si può distrarre clientela al precedente datore di lavoro). Secondo i giudici di legittimità il fine del compenso è tutelare il datore di lavoro da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda tra cui c’è anche la clientela. La Corte ha ribadito che “il patto di non concorrenza, previsto dall’articolo 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro”

 Nella stessa ordinanza la Corte di Cassazione ha ribadito nuovamente che i compensi non devono essere simbolici, manifestamente iniqui, sproporzionati rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.

Nel caso in oggetto le parti avevano pattuito in favore della lavoratrice del settore private banking un compenso di 7.500 euro annui per tre anni con divieto di svolgere esclusivamente attività di private banking, nella regione Lazio e con la stessa clientela e di conseguenza il divieto era limitato territorialmente e rispettava i limiti temporali e oggettivi. Inoltre secondo la Suprema Corte il divieto era strettamente correlato al danno che avrebbe ricevuto l’azienda. Di conseguenza il patto è ritenuto valido dalla Corte di Cassazione e la dipendente sanzionata perché non aveva rispettato i limiti previsti dal patto di non concorrenza.

Regole nuove per il TFM degli amministratori

di Vera MORETTI

Una delle novità della Manovra Monti riguarda gli amministratori e le indennità percepite in seguito alla cessazione del rapporto, che d’ora in poi avranno l’obbligo della tassazione ordinaria.

Ad essere modificati sono stati anche i regimi di tassazione del TFR dei dipendenti e delle indennità percepite dalla cessazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Se si tratta di importi superiori a 1 milione di € la tassazione non sarà più separata ma ordinaria.

Ad essere tassato sempre in via ordinaria sarà anche il TFM degli amministratori di società di capitali indipendentemente dalla presenza o meno di un atto di data certa anteriore all’inizio del rapporto e a prescindere dal limite di un milione di euro, franchigia prevista negli altri casi.

Prima della manovra Monti l’amministratore beneficiava della tassazione separata del TFM a condizione che il diritto all’indennità risultasse da un atto avente data certa, anteriore all’inizio del rapporto. Ora, invece, questa possibilità non sussiste più e l’amministratore non potrà più beneficiare della tassazione separata, ma l’importo percepito dovrà essere assoggettato all’Irpef sulla base degli scaglioni di reddito.

Le nuove disposizioni in materia di tassazione ordinaria, in luogo della tassazione separata, si applicano retroattivamente, con riferimento alle indennità ed ai compensi il cui diritto alla percezione è sorto a decorrere dall’1.1.2011.
Non dovrebbe subire modifiche il regime di deducibilità del TFM per la società erogante.

Per quanto riguarda gli accantonamenti relativi alle indennità di fine rapporto, la deduzione è ammessa per competenza in misura corrispondente alla quota maturata nell’esercizio, analogamente a quanto previsto per gli accantonamenti al fondo TFR dei dipendenti.

L’Agenzia delle Entrate ha affermato che la deduzione per competenza degli accantonamenti da parte della società è subordinata al fatto che il diritto al TFM risulti da un atto di data certa anteriore all’inizio del rapporto. Se tale condizione non è soddisfatta, la società può dedurre gli importi in esame per cassa, ossia nell’anno di corresponsione del TFM all’amministratore.

Ora che viene meno la tassazione separata in capo all’amministratore, e l’irrilevanza, in questo caso, dell’atto avente data certa anteriore all’inizio del rapporto, sarà indispensabile un intervento dell’Agenzia delle Entrate che faccia chiarezza sulla deducibilità dell’accantonamento al TFM.

Indennità e retribuzioni per l’amministratore di sostegno

di Vera MORETTI

Il professionista che assiste le persone affette da menomazioni fisiche o psichiche, anche qualora si tratti di condizioni temporanee, e amministra i loro interessi, ora ha un nome ben preciso.
Si chiama amministratore di sostegno e viene nominato dal giudice tutelare del luogo in cui l’infermo ha la propria residenza o domicilio.

Generalmente, questo ruolo è ricoperto da un familiare ma, nei casi in cui non è presente, o si richiede la presenza di una persona qualificata, si ricorre ad un avvocato.

Come anche stabilito dall’articolo 379 del codice civile, si tratta di un incarico gratuito, ma “considerando l’entità del patrimonio e le difficoltà dell’amministrazione, il giudice tutelare può assegnare al tutore una equa indennità”. In questi casi, perciò, l’indennità rappresenterebbe un compenso per lo svolgimento di un’attività professionale e quindi a tutti gli effetti da considerare come reddito di lavoro autonomo e rilevante ai fini Iva.

L’introduzione di questa figura si è resa necessaria perché, negli ultimi anni, le sue mansioni venivano richieste sempre più spesso, tanto da richiedere un inquadramento, anche e soprattutto dal punto di vista tributario.

Punto di partenza per la definizione del quesito è la legge n. 6/2004, che ha istituito la figura dell’amministratore di sostegno, introducendo i relativi principi nell’ambito del codice civile, del quale, tra l’altro, trovano applicazione, per il rinvio operato dall’articolo 411, alcune norme riguardanti l’ufficio tutelare. Tra questi, l’articolo 379 che ne stabilisce la gratuità, prevedendo comunque la possibilità che il giudice assegni, se del caso, una equa indennità.

La risoluzione precisa che, se la scelta ricade su un avvocato, “la relativa indennità si configura, in ogni caso, sotto il profilo tributario, come un compenso per lo svolgimento di un’attività professionale e deve, perciò, essere inquadrata come reddito di lavoro autonomo soggetto a Irpef e rilevante ai fini Iva“.

Agente di commercio: come determinare il reddito d’impresa

Il reddito dell’agente di commercio si inquadra tra i redditi derivanti dall’esercizio di attività commerciali previsti dall’art. 2195 del C.C.. Il riferimento ai fini delle Imposte dirette la definizione del reddito di impresa si trova all’art. 55 del TUIR 917/1986. L’attività può essere svolta in forma individuale o in forma societaria, ma la forma giuridica non comporta sostanziali differenze sulla determinazione del reddito. In qualità di Reddito d’impresa dovrà essere il Quadro RF, nel caso di contabilità ordinaria, o Quadro RG, in caso di contabilità semplificata, a seconda del regime di contabilità adottato.

La competenza riguarda per i ricavi da dichiarare

  • Si considerano conseguiti alla data di ultimazione della prestazione.

Per i costi da portare in detrazione

  • Si considerano di competenza e sono quindi deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono alla formazione del reddito.

Il criterio della competenza applicabile a tutti i redditi di impresa si estende anche all’attività dell’agente, in quanto considerato rientrante in questa categoria reddituale. Le provvigioni spettanti risultano essere di competenza dell’esercizio in cui il preponente esegue la prestazione, ovvero, nell’esercizio in cui avviene la spedizione o la consegna dei beni mobili, l’ultimazione della prestazione del servizio, o la stipulazione dell’atto nel caso di immobili.

In caso di cessazione del rapporto di agenzia a tempo indeterminato, l’agente ha diritto ad una indennità proporzionale all’ammontare delle provvigioni liquidate nel corso del contratto.

Proposta di legge: Indennità del 50% per lavoratori in difficoltà che avviano una nuova impresa

Nei giorni scorsi è stata presentata in commissione Lavoro, una proposta di legge che prevede che i lavoratori che fruiscono di specifici trattamenti di sostegno al reddito e che intendano avviare una nuova attività d’impresa, potranno godere di un’indennità pari al 50% dell’importo del trattamento di cui sono titolari. Il testo è già stato approvato dalla Camera e ora è sottoposto all’esame del Senato.

Si tratta di una sorta di “esperimento” da applicare per 2 anni al fine di darne una valutazione prima di confermarla a tempo indeterminato. La misura si rivolge ai lavoratori che beneficiano di ammortizzatori sociali, in particolare indennità ordinaria di disoccupazione non agricola, con requisiti normali o ridotti; trattamenti di cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria; trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale in deroga; contratti di solidarietà stipulati con società non incluse nell’ambito di applicazione della disciplina della Cigs. I lavoratori interessati potranno avviare un’attività in proprio percependo, un’indennità pari al 50% dell’ammontare ordinario, con contribuzione figurativa del 50%, in sostituzione a quanto spetterebbe loro ordinariamente. Si potrà usufruire de beneficio erogato dall’Inps per 18 mesi.

Lo scopo di tale misura è di incentivare l’avvio di nuove imprese da parte di lavoratori, garantendo una fonte di reddito minima. Atri benefici sono: accesso a finanziamenti bancari garantiti dai fondi speciali antiusura, oltre che a un regime fiscale agevolato e a procedure amministrative semplificate in materia di sicurezza e di tutela ambientale e l’esonero dal versamento dei contributi obbligatori qualora nell’impresa siano assunti dipendenti con ammortizzatori sociali.

Mirko Zago