Più di un milione le famiglie italiane senza reddito da lavoro

Le tabelle dell’Istat con i dati aggiornati al 2016 confermano che sorpassa il milione il numero delle famiglie senza redditi da lavoro.
C’è una leggera flessione rispetto al 2015, poiché se prima si trattava di 1 milione 92 mila, ora sono 1 milione 85 mila (-0,7%), ma le cose non cambiano di molto.

Si tratta comunque di nuclei familiari dove tutti i componenti attivi sono disoccupati, e che dunque ricavano reddito non dall’impiego ma da altre fonti, come rendite o pensioni e, in percentuale, si tratta del 6,6% delle famiglie presenti sul mercato del lavoro.

Tra queste, 448 mila sono coppie con figli e 290 mila sono famiglie con un solo componente, single, più spesso uomo che donna, 178 mila contro 113 mila. Seguono 222 mila nuclei mono-genitore e 80 mila coppie senza figli.
La maggior parte si trova a Sud (587 mila), che precede sia il Nord (300 mila) che il Centro (198 mila). Analizzando il tasso di disoccupazione delle persone tra i 25 e i 64 anni e incastrando i dati con il loro ruolo in famiglia, si nota come i valori più alti si registrino per i mono-genitori (12%), mentre i single se la cavano meglio (8,4%).

Per quanto riguarda le coppie con figli, più questi aumentano, più sale anche il tasso di disoccupazione (7,3% se c’è solo un figlio, 7,7% se due e 10% per tre o più). I coniugi o conviventi senza bambini si fermano al 7,6%.

Inoltre, sono 970 mila le famiglie, con e senza figli, dove la donna risulta occupata a tempo pieno o part time, mentre l’uomo è in cerca di occupazione o inattivo, ovvero pensionato o comunque fuori dal mercato del lavoro. Le famiglie monogenitore dove c’è solo la madre ed è disoccupata sono 192 mila e la cifra è in aumento del 5%.

Vera MORETTI

Pil italiano in ascesa, ma non basta per essere alla pari con l’Ue

Sembrava una bella notizia e invece ahimè non lo è: Istat, alla luce dei dati raccolti, ha infatti presentato l’andamento del Pil registrato nel 2016 e, dopo le previsioni di un +0,7% della scorsa primavera, si è assestato allo 0,9%, superando addirittura le aspettative.

Ma, purtroppo, rispetto all’Europa, soprattutto quella che conta, si tratta di uno dei dati meno positivi.
Dei 28 paesi che compongono l’Ue, infatti, solo la Grecia l’anno scorso è riuscita a fare peggio di noi, con un risicato 0,3%, mentre il dato medio di incremento del Pil in Europa è stato del +1,9 per cento: più del doppio del nostro.

Considerando che la previsione presentata nelle settimane scorse dalla Commissione europea per il 2017 vede un aumento del Pil italiano dello 0,9%, se ciò si avvererà anche la Grecia ci supererà, con un incremento previsto del 2,7%, e l’Italia rimarrà fanalino di coda.

Probabilmente, potrebbe essere necessario rivedere la rigidità dei parametri di Maastricht che in questi anni di crisi hanno imposto a tutta Europa degli enormi vincoli alla crescita e allo sviluppo, contribuendo, per contro, a peggiorare la situazione dei conti pubblici di ciascun paese membro, ma finché ciò non avverrà, per l’Italia si prevedono tempi duri.

Vera MORETTI

Italiani automobilisti piu’ attenti nel 2016

Il 2016 è stato un anno positivo per la sicurezza sulle strade, con un calo sia del numero di incidenti sia di vittime, come dimostrano i dati appena resi noti sia da Aci sia da Istat.
Ma, nonostante questo, Facile.it ha stabilito che, per almeno 1,4 milioni di automobilisti, nel 2017 le tariffe RC auto aumenteranno, perché sono stati riconosciuti responsabili di sinistri che faranno peggiorare la loro classe di merito.

Il portale leader per la comparazione di assicurazioni auto, è giunto a questa conclusione analizzando più di 500mila preventivi richiesti nell’ultimo mese dello scorso anno, arrivando così alla conclusione che per il 4,12% degli utenti l’RC auto aumenterà. La percentuale è comunque in diminuzione dello 0,31%, poiché, a quanto pare, gli automobilisti italiani sono stati più attenti rispetto al 2015.

Approfondendo maggiormente i dati ricavati, si nota che in caso di incidente tra le donne si conferma un maggior ricorso alle compagnie assicurative (4,68%) con il conseguente peggioramento della classe di merito; fra gli uomini la percentuale si ferma al 3,81%.

Tra le professioni dei guidatori, infermieri e medici sono i più distratti, poiché tra loro il 4,66% nel 2017 pagherà premi maggiori, seguiti da pensionati (5,21%), insegnanti (4,58%) e impiegati (4,38%).
I più attenti, invece, si confermano i vigili urbani e gli appartenenti alle forze dell’ordine: soltanto il 2,76% ha denunciato sinistri con colpa.

Dal punto di vista territoriale, il maggior numero di denunce è la Toscana, in cui ben il 5,78% del campione si è reso colpevole di sinistri, anche se in calo comunque dello 0,10% rispetto all’anno scorso. A seguire si trovano Liguria (5,40%) e Lazio (5,21%).

La regione in cui sono aumentate maggiormente le denunce è la Valle d’Aosta, con un +1,79%, mentre chiudono la classifica Basilicata (2,05%) e Molise (2,15%), dove sono diminuiti più che altrove i sinistri con colpa denunciati, con percentuali pari rispettivamente al -1,35% e -1,93%. Buone anche le prestazioni di chi guida in Umbria, dove c’è stato un calo del -1%.

Mauro Giacobbe, Amministratore Delegato di Facile.it, ha dichiarato: “Se l’obiettivo dell’Europa è quello di dimezzare il numero di vittime della strada entro il 2020, l’Italia è ancora lontana dal traguardo. Gli ultimi anni hanno rappresentato una svolta nel comparto assicurativo che ha visto rivoluzionare non solo le pratiche burocratiche, ma anche l’atteggiamento dell’automobilista. Contrassegno elettronico e scatole nere sono stati cambiamenti importanti, e nonostante per qualcuno l’RC auto aumenterà, auspichiamo che questi strumenti creino circoli virtuosi che si amplificheranno nei mesi a venire, sommandosi a quelli provenienti dalla comparazione, ormai largamente sfruttata dagli italiani”.

Vera MORETTI

Cresce la spesa media mensile degli italiani

Le famiglie italiane tornano a spendere, almeno secondo quanto certifica l’Istat, ma lo fanno in maniera molto diversa da nord a sud e lo fanno privilegiando determinati prodotti al posto di altri.

Secondo l’Istat, nel 2015 la spesa media mensile delle famiglie italiane, al netto del costo della casa, è salita a 1.910,34 euro, +0,7% rispetto al 2014 e +1,9% rispetto al 2013. La regione con la spesa media mensile più bassa è risultata la Calabria (1.729,20 euro a famiglia), mentre Lombardia (3.030,64 euro), Trentino-Alto Adige (3.022,16) ed Emilia-Romagna (2.903,58 euro) hanno occupato i gradini del podio.

È aumentata la spesa media mensile per i generi alimentari (+1,2% globale sul 2014, pari a 441,50 euro), ma l’andamento dei prezzi dei differenti alimenti è diversificato: si ferma la spesa media mensile per la carne a 98,25 euro, cresce del 4,5% quella della frutta a 40,45 euro così come la spesa media mensile per acque minerali, bevande analcoliche, succhi di frutta e verdura (+4,2% a 20,48 euro).

Dato interessante è la crescita della spesa media mensile per ristoranti e hotel, segno che forse la crisi fa un po’ meno paura agli italiani. Si parla infatti di un +11%, da 110,26 a 122,39 euro, dopo 2 anni consecutivi di calo. Allo stesso modo, cresce la spesa media mensile per beni e servizi ricreativi, cultura e spettacoli: +4,1%, a 126,41 euro. Stabile, infine, la spesa per beni e servizi non alimentari (ferma a 2.057,87 euro al mese), mentre per il terzo anno consecutivo calano le spese mensili per le comunicazioni: -4,2%.

Infine, una nota interessante alla luce delle dinamiche migratori che stanno interessando in maniera massiccia il nostro Paese: le famiglie composte da soli stranieri hanno una spesa media di circa 1000 euro inferiore a quella delle famiglie italiane: 1.532,66 euro.

Il lavoro me lo trova l’amico (o lo zio)

Un’altra conferma di come il mercato del lavoro in Italia abbia dinamiche e regole tutte sue. Secondo i dati Isfol-Plus da poco pubblicati, un terzo degli occupati nel nostro Paese afferma di aver trovato lavoro grazie all’intervento diretto di familiari, amici e conoscenti. Se si includono gli interventi indiretti, si arriva al 60%.

I canali istituzionali per la ricerca di un lavoro contano invece assai poco per una ricerca diretta. Solo il 3,4% di chi ha trovato un’occupazione lo ha fatto servendosi dei centri per l’impiego e il 5,6% delle agenzie di lavoro interinale. Sull’intermediazione indiretta, tuttavia, le percentuali salgono: il 33% degli occupati si è servito dei centri per l’impiego, il 30% delle agenzie. C’è poi un residuo 10% di chi ha trovato lavoro attraverso un concorso pubblico.

Un altro canale interessante è quello dell’autocandidatura verso le aziende, utilizzato dal 58% degli occupati nella fase di ricerca. Nel 20% dei casi ha consentito l’assunzione in via diretta.

Infine, un ruolo importante nell’intermediazione indiretta viene giocato dalle offerte di lavoro pubblicate su stampa e web e dai contatti nell’ambito lavorativo: utili nel 36% dei casi le prime, nel 44% i secondi. In quanto canali diretti, hanno giocato un ruolo importante rispettivamente nel 2,6% e nel 10% dei casi.

Non dissimili i dati ai quali è giunto anche l’Istat. Secondo il rapporto Il mercato del lavoro, redatto dall’Istituto nazionale di statistica e relativo al primo trimestre 2016, oltre 8 persone su 10 si affidano alle conoscenze per ottenere un impiego. Si tratta, per la maggior parte, di persone disoccupate da oltre un anno che non sono riuscite a trovare lavoro attraverso i canali istituzionali.

L’Istat ha infatti rilevato che le persone che si rivolgono a parenti e amici sono l’84,8% di chi cerca un impiego all’inizio del 2016, contro l’83,4% del 2015. Parallelamente, cala il numero di quanti utilizzano il web (55,4% dal 59% del 2015), mentre rimane stabile la percentuale di quanti si propongono attraverso un’autocandidatura: 69,2%.

Il Paese degli sprechi

Quando, in Italia, si parla di spending review e di tagli alle spese inutili, forse si farebbe bene a concentrarsi di più sugli sprechi. Stando a quanto emerge da un rapporto redatto dall’Istat e dal ministero dell’Economia, ogni anno Comuni, Province, Regioni, Asl, Università, ministeri e organi costituzionali spendono oltre 87 miliardi di euro per l’acquisto di beni.

Tutti enti che spesso e volentieri si scordano dell’esistenza della Consip e della centrale unica di acquisto, con il risultato che, se per le loro spese, si rivolgessero a quest’ultima risparmierebbero circa 20 miliardi. Peccato che solo il 17% di loro lo faccia, cercando di porre un freno agli sprechi. Di quali sprechi si parla, è presto detto.

Secondo il rapporto, sono distribuiti a diversi livelli. Uno dei casi di sprechi più macroscopici è quello legato alle fotocopie. Ogni fotocopia a prezzo convenzionato costerebbe 0,0658 euro contro gli 0,1158 euro fuori convenzione: il 43% in meno.

Per auto e furgoni, vale un discorso analogo. Una citycar fuori convenzione costa in media 9.707 euro contro i 7.911; meno evidenti gli sprechi sulle 4×4 (13.099 euro fuori convenzione, 12.139 in convenzione), di più sui furgoni, che costano, fuori convenzione, il 25% in più.

Infine, il rapporto mette in luce (è il caso di dirlo…) gli sprechi in materia di energia, per la quale i ministeri pagano il 35% in più per i servizi elettrici e il 5% in più per l’acquisto di gasolio fuori convenzione. Spending review? Ma di che cosa parliamo, se spesso gli acquisti vengono fatti fuori convenzione per favorire gli amici degli amici?

Vino, la Cina è lontana

Nei giorni scorsi si è fatto tanto clamore intorno all’incontro, tenutosi al Vinitaly, tra Jack Ma, fondatore della piattaforma cinese di e-commerce Alibaba, la più grande al mondo, e il premier italiano Matteo Renzi, per coinvolgere il colosso cinese in una grande operazione di promozione e vendita di vino italiano nel Paese del Dragone.

Clamore, a nostro avviso ben giustificato. Principalmente perché l’Italia, attualmente, non sfrutta quasi per nulla le potenzialità della Cina come mercato per il vino. Basti dire che la quota di mercato del vino italiano nel Paese è del 6%, contro il 55% di quello francese.

I margini di crescita sono quindi incalcolabili, specialmente se, come ha sottolineato in una nota Denis Pantini, responsabile di Nomisma Wine Monitor, nei primi due mesi dell’anno il vino in Cina ha fatto segnare un “+59% di import in valore in euro“. Un treno del quale però l’Italia sta sfruttando poco le potenzialità.

La nota di Nomisma sull’import di vino in Cina lo ha messo in luce, anche in rapporto all’incontro tra Renzi e Ma: “Nell’orizzonte della tumultuosa crescita cinese, l’Italia sta giocando un ruolo marginale da Cenerentola, e i margini per crescere sono elevati“. “La Cina – ha proseguito la nota – corre e noi rincorriamo, ecco perché è utile l’incontro con Alibaba Group“.

Nel 2015 la crescita del vino in Cina è stata tumultuosa – ha aggiunto Pantini -: il Dragone lo scorso anno è diventato il quarto mercato mondiale per importazione di vini, surclassando il Canada. La Francia resta padrone incontrastato tra i vini importati in Cina (+44%), e sempre nel 2015, crescono in particolare Australia (+22%) e Sud Africa (+2%)“.

La nota si chiude guardando alle prospettive di crescita dell’import di vino in Cina per il 2016: “Nel primo bimestre, secondo i dati Wine Monitor Nomisma, l’onda lunga della crescita cinese continua imperterrita, segnando un +59% di import in valore in euro. Tra i principali Paesi da dove la Cina continua ad importare di più spicca l’Australia (+108%), mentre l’Italia conferma il ritmo del 2015 (+15%)“.

Nasce l’Osservatorio del Vino. Finalmente…

Il Vinitaly che si chiude oggi a Verona non è solo un momento di presentazione e di degustazione delle novità del vino, ma anche e soprattutto un’occasione di studio, analisi e riflessione. Specialmente se si considera che la mancanza di dati certi del settore, i numeri che variano a seconda delle fonti, ufficiali e non, e dei metodi di rilevazione sono sempre stati per il vino italiano un grande punto di debolezza.

Fino a qualche anno fa, era impossibile conoscere la superficie esatta del vigneto italiano e quindi il potenziale produttivo del nostro paese, così come sono stati molti gli anni in cui i numeri della vendemmia erano così diversi tra i dati previsionali e quelli consuntivi diffusi dall’Istat, da creare difficoltà agli operatori del settore, con scompensi e disorientamento a livello commerciale, e imbarazzo alle istituzioni nazionali nei confronti della Ue.

L’incertezza statistica sul vino italiano era dovuta tanto alle difficoltà del sistema di rilevazione pubblico, quanto alla mancanza di un organismo ufficiale e rappresentativo che monitorasse il mercato sul fronte produttivo, commerciale e distributivo e potesse diffondere in modo organico e competente analisi aggregate delle statistiche ufficiali riguardanti il vino, monitorando le fonti interne e internazionali e raccogliendo in autonomia i dati dalle imprese.

Una lacuna che ha penalizzato il settore del vino italiano – imprenditori ed aziende in primis – considerata l’estrema importanza assunta dalla conoscenza dei numeri di un comparto economico, delle statistiche produttive, delle dinamiche e dei trend del mercato sia per il decisore pubblico, sia per l’imprenditore e l’impresa che devono quotidianamente confrontarsi con un mercato vivo e in costante e continua evoluzione.

Per colmare questa lacuna nasce l’Osservatorio del Vino. Un’iniziativa dell’Unione Italiana Vini, sviluppata in risposta alle esigenze delle imprese vitivinicole italiane, desiderose di colmare questo vuoto e di offrire una risposta attendibile, capace di supportare le strategie di marketing delle aziende. Obiettivo dell’Osservatorio del Vino è dare sia alla politica sia alla pubblica amministrazione un quadro corretto del mercato, necessario per poter operare scelte normative e di regolazione efficaci e adeguate.

L’Osservatorio istituzionalizza e rende organico il rapporto di collaborazione nato tra Unione Italiana Vini e Ismea oltre vent’anni fa, che dalle previsioni vendemmiali si allarga a tutta la sfera produttiva e di mercato del vino italiano nelle sue segmentazioni geografiche, a livello interno e relativa ai diversi mercati internazionali, per tipologia di vino, per canale distributivo.

L’analisi dell’Osservatorio del Vino si allarga all’esplorazione delle strategie di marketing collegate alle evoluzioni del mercato proposte dal WINE management lab della SDA-Bocconi, che ha maturato negli anni una lunga esperienza nello studio e nelle analisi delle strategie di marketing del vino italiano.

Inoltre, la struttura di analisi e monitoraggio dei trend del vino italiano si avvarrà, come partner tecnico, dei ricercatori del Wine Monitor di Nomisma, che interverranno con alcune analisi di dettaglio che completeranno il lavoro svolto da tecnici dell’Ismea.

Le fonti dell’Osservatorio saranno:

  • Dati trasmessi delle aziende;
  • Fonti ufficiali (Istat Agenzia delle Dogane, Commissione Europea, Eurostat, Monopoli di Stato OIV, ecc.);
  • Fonti internazionali relative ai diversi Paesi (Agenzie private di analisi quali Global Trade Atlas, Wine Intelligence, PWSR, ecc,).

Gli ambiti di ricerca saranno:

  • Dati vendemmiali e di produzione del vino italiano;
  • Analisi dell’andamento dei prezzi all’origine (per tipologie, aree prodotto, ecc.);
  • Analisi dell’andamento dei prezzi al consumo (per tipologie, aree geografiche, canali, ecc.);
  • Analisi delle vendite mercato interno per canale, tipologia, area geografica;
  • Analisi dei mercati internazionali (singoli, aggregati, per tipologia, per canale ecc.);
  • Survey sui consumatori di vino italiani e sulle abitudini di acquisto e consumo nel fuori-casa ;
  • On Trade Tracking – Monitoraggio delle vendite di vino nell’on-trade italiano (riservato alle imprese vinicole).

L’Osservatorio avrà anche un output pubblico, con statistiche agli organi di informazione relative a dati aggregati dei principali trend di mercato, e uno riservato alle imprese associate all’Unione Italiana Vini che aderiscono all’Osservatorio, le quali potranno ricevere elaborazioni statistiche mirate a singoli prodotti e segmenti di mercato sulla base dei dati di volta in volta trasmessi dalle imprese stesse.

Non cala il disagio sociale in Italia

Se alcuni degli indicatori economici italiani hanno cominciato a virare in positivo nel 2015, confermando la svolta nei primi mesi di quest’anno, c’è un indice che, purtroppo, è rimasto invariato a inizio 2016: l’indice del disagio sociale elaborato da Confcommercio.

Secondo una nota della confederazione dei commercianti, l’indice del disagio sociale a gennaio è risultato stabile a 19,5 punti. Pur non trattandosi di un indice dalla scientificità assoluta, è comunque un dato che fa tenuto in considerazione.

A fronte di un tasso di disoccupazione esteso (disoccupati in senso stretto + cassintegrati a zero ore + scoraggiati) che resta stabile al 15,4%, “la moderata tendenza all’ampliamento dell’area del disagio sociale rilevata nell’ultimo bimestre – recita la nota di Confcommercioriflette le difficoltà dell’economia a instradarsi su un sentiero di ripresa sostenuta, atta a garantire miglioramenti significativi dei livelli occupazionali e reddituali delle famiglie”.

Il quadro economico interno – prosegue la nota sul disagio socialeè, infatti, ancora caratterizzato da alcuni elementi di discontinuità che impediscono, pur in un contesto di graduale miglioramento degli indicatori, di creare opportunità di lavoro adeguate a ridurre in modo significativo sia il numero di coloro che sono attivamente in cerca di un’occupazione (disoccupati ufficiali), sia di quanti per ‘scoraggiamento’ cercano un lavoro in modo più discontinuo”.

Crisi economica alle spalle? Le Pmi ci credono

I dati su Pil e occupazione diffusi nei giorni scorsi dall’Istat hanno alimentato facili entusiasmi che hanno portato molti a pensare che, oltre ad esserci messi il peggio alle spalle, la crisi economica stia ormai per finire. In realtà, il termometro vero per capire a che punto è questa crisi economica, oltre alla propensione delle famiglie ai consumi, sono le imprese, chi produce, chi con la crisi sta facendo i conti da otto anni, cercando di sopravvivere.

Ebbene, da questo lato arrivano segnali incoraggianti. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Congiunturale di Fondazione Impresa, una buona parte di piccole imprese italiane sostiene che la crisi economica sia finita.

Secondo la ricerca, nel primo semestre 2015, il 35,9% delle piccole imprese italiane – al di sotto dei 20 addetti – sostiene di aver superato la crisi economica. Una quota che aumenta tra le piccole imprese manifatturiere e tra quelle dei servizi: il 46,7% del manifatturiero dichiara infatti di “essere fuori dal tunnel” contro il 39,4% di quelle che operano nei servizi.

Meno ottimiste che operano nel settore del commercio e quelle dell’artigianato: il 22,3% delle prime dichiara di essere uscito dalla crisi economica, contro il 25,8% delle seconde. Segno che questi due settori, che hanno sofferto più di altri i morsi della crisi, faticano a riprendersi in maniera completa.

Le imprese che dichiarano di essersi lasciate alle spalle la crisi economica sono quelle che, probabilmente, potranno pensare di tornare a investire dopo che, negli ultimi anni, hanno di fatto adottato una strategia conservativa per difendere le proprie quote di mercato anziché cercare di ritagliarsene di nuove.

Secondo le rilevazioni dell’Istat, infatti, ben il 70,5% delle imprese ha scelto di mantenere le proprie quote tra il 2011 e il 2012, negli anni più bui della crisi economica. Una percentuale di aziende trasversale a tutti i settori economici e di ogni dimensione.

Del resto, già il fatto che l’indagine dell’Osservatorio Congiunturale di Fondazione Impresa abbia avuto un campione sul quale insistere è importante, perché si tratta di imprese che hanno resistito alla crisi economica a differenza delle oltre 82mila fallite tra il 2008 e il 2014, secondo dati Cerved. Una mattanza che ha lasciato sul campo oltre un milione di posti di lavoro.