Tasso di attività, il gap tra Nord e Sud

Il tasso di attività è il numero delle persone che lavora o cerca lavoro in una determinata area geografica. Al Nord arriva al 70,5%, al Sud al 52,8%. Se si fa lo stesso confronto sui sessi, si vede che la differenza tra Nord e Sud è pari, per gli uomini, all’11,8% e per le donne al 23,4%.

I dati sono stati estrapolati da Adnkronos e riguardano appunto il cosiddetto tasso di attività delle diverse aree geografiche in Italia. L’agenzia di stampa ha elaborato i dati contenuti nel dossier “Istat Italia in cifre 2015” e relativi al 2014, scoprendo che il tasso di attività al Nord è del 17,7% superiore rispetto al Sud.

Al Centro, invece, il tasso di attività è del 68,9%, che sale al 76,6% per gli uomini e cala al 61,4% per le donne. Il tasso di attività, a livello Italia è del 63,9%, al 54,4% per le donne e al 73,6% per gli uomini.

Oltre al tasso di attività, l’analisi di Adnkronos su dati Istat ha preso in considerazione anche le differenze tra le aree geografiche relativamente al tasso di occupazione. Al Nord è del 64,3%, al Sud al 41,8%, -22,5%. Grandi differenze anche quando si parla di disoccupazione: 8,6% al Nord, 20,7% al Sud, + 12,1%. Al Centro, invece, il tasso di occupazione è del 60,9% e la disoccupazione all’11,4%.

A livello Italia, nel 2014 il tasso di occupazione è stato del 55,7% mentre la disoccupazione è arrivata al 12,7%.

Imprese gazzelle e scarsa occupazione

L’altalena dei dati relativa all’economia e al lavoro continua senza sosta anche in questo periodo di vacanza. Secondo l’Istat, in Italia è calato il numero delle imprese che creano lavoro, relativamente a quelle attive con dipendenti (escluse la pubblica amministrazione, l’agricoltura e il non profit): -3% nel 2014 rispetto al 2013 sul fronte occupazione.

Il totale degli addetti di queste imprese è di 13 milioni, di cui 11 i dipendenti, calati dell’1,4% rispetto al passato. E la difficoltà a creare occupazione è evidente anche guardando le performance delle cosiddette “imprese gazzelle”, ossia le piccole aziende con notevole tasso di crescita: ebbene, se queste, secondo il Cerved, dal 2007 al 2012 hanno raddoppiato il fatturato, non hanno però ottenuto risultati analoghi sotto il profilo occupazionale.

Se si osservano poi le dimensioni delle aziende che creano lavoro, il calo più sensibile dell’ occupazione si registra per il segmento 1-9 addetti (-3,2%), mentre per settore produttivo sono le imprese con 100-249 addetti delle costruzioni a far segnare il dato peggiore: -8,8%.

Mercato immobiliare ancora in crisi

Se alcuni settori hanno dimostrato di essere in ripresa, lo stesso non si può dire del mercato immobiliare, che negli ultimi cinque anni ha perso ben un settimo del proprio valore.
Ma, nonostante ciò, il carico fiscale sugli immobili, come ben sappiamo è aumentato, e non poco.

La Cgia di Mestre ha voluto fare un’analisi di come in questi cinque anni sono cambiati i parametri, per quanto riguarda il settore immobiliare, e di come tutto ciò ha influito sulle vite degli italiani.

In cinque anni, dati alla mano, il valore medio degli immobili italiani è calato del 14,2% e questa cifra è abbastanza vicina ai calcoli fatti anche da Istat, secondo la quale il calo del valore subito dalle case italiane è stato del 13,7% rispetto al 2010.

Ma ciò che allarma è che il calo è continuato inesorabilmente anche nell’anno corrente, e nel primo trimestre 2015, infatti, il calo è stato pari al 3,4%, rispetto al 2014.

A perdere maggior valore sono state le abitazioni già presenti che, sempre secondo l’Istat, dal 2010 hanno visto calare il proprio valore sul mercato del 18,6%; infinitamente più di quanto avvenuto per le case nuove il cui prezzo è calato, nel quinquennio dell’ 1.5%.

Assunto che il valore immobiliare è calato, non si può dire altrettanto delle tasse che, al contrario, sono aumentate, e addirittura del 31,2%.
Questo significa che se nel 2010 lo Stato aveva incassato poco meno di 39,50 miliardi di euro, cinque anni dopo si è arrivati a 51,8 miliardi.

La conseguenza più ovvia è che gli italiani hanno meno soldi in tasca e dispongono di un patrimonio immobiliare di valore molto più basso, rispetto a pochi anni fa.

L’Istituto nazionale di Statistica ha certificato in maniera netta la contrazione del mercato immobiliare evidenziando come il numero delle compravendite sia anche esso diminuito.
Dal 2010 al 2014 la riduzione è stata pari a circa 208.000 unità immobiliari di tipo abitativo (il che equivale ad una riduzione del 27,3%, e di 12.500 unità (-25,1%) per gli immobili di tipo strumentale.
A determinare questa situazione, la fortissima contrazione della domanda causata dalla stretta creditizia che ha reso sempre più difficile arrivare all‘ottenimento del mutuo da parte delle banche, sia per i privati sia per le aziende.

Vera MORETTI

Imprese italiane, imprese nane

Alla crisi abbiamo imputato un sacco di colpe e disastri perpetrati verso le imprese italiane, ma su una cosa, almeno, è stata magnanima: non ha modificato in maniera sensibile le dimensioni medie delle imprese italiane né la struttura produttiva della nostra economia.

È una delle evidenze emerse dal rapporto annuale dell’Istat relativo al 2012, secondo il quale le imprese italiane hanno mantenuto la loro dimensione media, una tra le più basse d’Europa: 3,9 addetti per ciascuna, con il 47,5% degli occupati che lavora in imprese che contano meno di 10 addetti. Percentuale invariata rispetto al 2007, anno di inizio della crisi, quando era al 47,4%.

Secondo l’Istat, le imprese italiane con meno di 10 addetti sono 2,2 milioni, generano il 10% del valore aggiunto del sistema produttivo del Paese e spesso sono realtà che si presentano come forme di autoimpiego, con scarsi obiettivi di produttività e crescita. Basti ricordare che nel 2012 le imprese italiane hanno investito in ricerca e sviluppo solo lo 0,7% del Pil nazionale, contro l’1,3% dell’Unione Europea a 28.

Se non altro, però, il numero di imprese italiane innovatrici e di quelle che registrano nuovi marchi e nuovi prodotti di design industriale è di gran lunga superiore a quello di tutta Europa: 41,5% contro il 36% dell’Unione Europea a 28.

Se le imprese italiane, prese singolarmente, rimangono micro, cresce invece il numero dei gruppi di imprese: nel 2012 ne risultavano oltre 90mila, dai 76mila nel 2008 e davano lavoro a 5,6 milioni di persone in 206mila imprese.

Le prospettive, però, sono andate migliorando dal momento che, secondo l’Istat, nel 2014 i segnali di ripresa hanno coinvolto un numero rilevante di imprese italiane. Un’impresa con almeno 20 addetti su due del manifatturiero ha visto infatti crescere il proprio fatturato totale di quasi 1 punto (0,8%) mentre, rispetto al 2013, sono aumentati sia i ricavi esteri (almeno +1,6%) sia quelli interni (+0,1%) e il fatturato interno è aumentato per la prima volta da oltre tre anni.

Insomma, se è nel dna delle imprese italiane il fatto di essere micro, le dimensioni contenute possono anche essere un vantaggio competitivo, specie se si fa in modo di aggregarsi in gruppi più strutturati.

Cresce ancora l’ export italiano

In un quadro macroeconomico nel quale il nostro Paese ancora fatica a risollevare la testa, nonostante qualche timido segnale di ripresa, c’è un dato che non tradisce mai le attese, quello dell’ export italiano. Secondo i numeri diffusi dall’Istat, a febbraio 2015 le esportazioni verso i Paesi extra Ue hanno fatto segnare un +4,5% e le importazioni un +1,1% rispetto a gennaio.

La forte la crescita tendenziale dell’ export italiano (+7,1%) è stata determinata, secondo l’Istat, dai beni strumentali (+19,9%) e, in misura minore, dai cosiddetti prodotti intermedi (+4,6%). A febbraio l’avanzo commerciale è stato pari a 2.840 milioni di euro (+1.338 milioni rispetto a febbraio 2014), mentre il surplus nell’interscambio di prodotti non energetici è stata pari a 5 miliardi rispetto ai 4,7 miliardi di febbraio 2014.

Nell’ultimo trimestre, la dinamica congiunturale dell’ export italiano verso i Paesi extra Ue si conferma positiva (+1,5%) e investe tutti i principali beni, esclusa l’energia (-17,9%). Le vendite di prodotti intermedi sono in rilevante espansione (+3,7%).

Nel mese di febbraio 2015, i mercati di sbocco più dinamici per l’ export italiano sono stati gli Usa (+49,3%, che scende a +24,8% al netto dei mezzi di navigazione marittima) e la Turchia (+10,7%). L’embargo verso la Russia e la debolezza del rublo hanno invece penalizzato l’ export italiano verso quel Paese (-28,5%) e anche i Paesi dell’area Mercosur (il mercato comune del Sudamerica) hanno fatto registrare un calo piuttosto sensibile: -17,6%.

Pressione fiscale e oppressione fiscale

Puntuale come la Quaresima, è arrivata la notizia che ogni anno purtroppo ci aspettiamo: nel 2014 in Italia è aumentata ancora la pressione fiscale. Addirittura nel quarto trimestre dello scorso anno è arrivata al 50,3%, in aumento dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente.

In tutto il 2014, la pressione fiscale italiana è stata pari al 43,5%, in aumento anche qui dello 0,1% rispetto al 2013. I dati sono stati diffusi dall’Istat che ha anche sottolineato come la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è diminuita dello 0,3% nel 2014 e il reddito disponibile è calato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e aumentato dello 0,8% rispetto al corrispondente periodo del 2013.

E mentre sale la pressione fiscale e cala il reddito disponibile delle famiglie italiane, scende anche il loro potere d’acquisto: -0,5% nel quarto trimestre 2014, rispetto al trimestre precedente, anche se cresciuto dello 0,8% rispetto al quarto trimestre del 2013. E la ripresa? Sì, quella delle tasse…

Gli architetti a difesa dell’ edilizia italiana

La crisi dell’ edilizia italiana è una brutta bestia che colpisce trasversalmente tutti i comparti e le professionalità del settore. Imprese costruttrici, fornitori, produttori di materie prime, architetti, ingegneri, tutta la filiera è interessata da una sofferenza che, come dimostrano i dati dell’Istat, in 5 anni è costata all’ edilizia italiana un quarto dei suoi occupati.

A proposito di professionisti che operano nel campo dell’ edilizia italiana, una dura presa di posizione contro le politiche del governo in questo ambito, ritenute inefficaci, miopi e troppo morbide, viene dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. “Ora che organi di stampa e personalità pubbliche sembrano aver compreso l’allarme degli architetti italiani, ovvero che mentre si discuteva dell’art. 18 centinaia e centinaia di migliaia di persone rimanevano senza lavoro, il Governo intende finalmente intervenire?”, recita una nota del Cnappc.

Sembra, infatti che solo ora molti si accorgano, Istat in primis, che l’ edilizia italiana ha pagato, con la perdita di mezzo milione di posti di lavoro – ottocentomila per l’Ance – più di ogni altro settore in questi cinque anni di crisi e che il deficit italiano è stato finanziato con una delirante imposizione fiscale sulla casa e sul settore delle costruzioni che ha distrutto il comparto della progettazione e delle costruzioni che era vanto dell’Italia nel mondo”, continua la nota.

Il Consiglio, preoccupato dalle conseguenze che la crisi dell’ edilizia italiana ha sui fatturati degli architetti, ricorda di avere “lanciato l’allarme – senza che i Governi se ne preoccupassero – che la perdita di metà dei fatturati dei progettisti con redditi sotto la soglia di povertà, e per questo motivi costretti a chiudere gli studi o ad emigrare, erano e sono segnali gravissimi per un settore che è trainante per tutta l’economia. L’unico risultato è stato quello di eliminare, in preda ad un furore degno di miglior causa, ogni regola tariffaria in nome di una illusoria idea di ‘concorrenza’ che però non ha toccato i grandi interessi monopolistici, di fare intervenire l’antitrust contro il principio di ‘dignità’ della professione legato ad un minimo di retribuzione dell’attività peraltro stabilito dall’art. 36 della Costituzione, che evidentemente si deve applicare a tutti meno che a noi professionisti”.

E gli architetti rivendicano il proprio ruolo chiave, sia nell’operatività sia nel suggerire proposte per affrontate la crisi dell’ edilizia italiana. “Le nostre proposte – ricorda il Cnappcsulla rigenerazione delle città, sulla manutenzione del territorio, sull’investimento nell’economia delle conoscenza, sulla semplificazione amministrativa, la valorizzazione dei giovani talenti e la promozione della cultura architettonica vista come espressione della cultura e della produttività del Paese sono da molto tempo sul tavolo della politica, anzi nei cassetti della politica, basterebbe aprirli e iniziare a fare per affrontare finalmente la crisi dell’ edilizia italiana”.

Edilizia italiana schiava delle grandi opere (incompiute)

Lo abbiamo scritto ieri e altre volte: l’ edilizia italiana non sembra dare accettabili segni di risveglio dal coma in cui è piombata insieme all’economia del Paese. E abbiamo anche ricordato, sommariamente, quali sono le principale cause del profondo rosso, dal crollo del mercato immobiliare, alla tassazione sulla prima casa, alle grandi opere pubbliche inchiodate al palo.

Proprio da quest’ultimo punto vogliamo ripartire oggi: la stasi delle grandi opere che, per l’ edilizia italiana, significa anche stasi del settore. Una stasi che parte dai freddi numeri, evidenziati dal 9° Rapporto sull’attuazione della “legge obiettivo” (443/2001), realizzato dal Servizio Studi della Camera in collaborazione con l’Autorità nazionale anticorruzione e il Cresme: dei 285 miliardi di euro investiti in opere pubbliche, dal 2001 a oggi sono state concluse opere per 23 miliardi, pari a circa l’8% del totale.

Ancora più crudi i dati, per l’ edilizia italiana, se si prendono in considerazione solo le opere approvate dal Cipe: a fronte di un investimento pari a 149 miliardi, le opere concluse mettono insieme la miseria di 6,5 miliardi. Una cifra che deriva dal fatto che, delle 187 opere deliberate dal Comitato interministeriale per la programmazione economica, 40 risultano concluse al 31 dicembre 2014 (contro una previsione di 54) e 69 in fase di realizzazione. E le altre 78? Non pervenute.

Tradotto in costi, le opere completate o in corso di costruzione hanno un valore per l’ edilizia italiana che supera i 78,7 miliardi di euro (il 53% del valore complessivo delle opere esaminate dal Comitato interministeriale per la programmazione economica al 31 dicembre 2014).

Sempre sul fronte costi, il Rapporto del Servizio Studi della Camera ha analizzato 97 opere deliberate dal Cipe, contenute nel programma a partire dal 2004; ebbene, stando alle analisi, il loro costo ha visto una crescita del 40,3%: dagli iniziali 65 miliardi e 227 milioni dell’aprile 2004 ai 91 miliardi e 516 milioni di fine 2014. Tutti aumenti da giustificare ma che, al momento, per l’ edilizia italiana si sono tradotti in un nulla di fatto.

In sostanza, l’ edilizia italiana è pesantemente schiava di ciò che invece, storicamente, ne ha sempre decretato lo sviluppo e il successo: le opere pubbliche immobili e l’altrettanto immobile mercato residenziale. In entrambi i casi, la politica ha pesanti responsabilità: che siano gli sprechi pubblici che portano alla mancanza di fondi e quindi al blocco delle opere, o la fiscalità sulla prima casa che uccide la voglia di acquisto, a farne le spese è sempre l’ edilizia italiana.

Edilizia italiana, quale futuro?

Se da più parti si grida già alla ripresa dopo i primi dati macro e micro economici relativi all’inizio del 2015, c’è un settore che di ripartire, purtroppo, non sembra avere la minima intenzione. È il settore dell’ edilizia italiana.

Secondo l’Istati, infatti, negli ultimi 5 anni l’ edilizia italiana ha perso quasi il 25% degli occupati e anche i dati relativi al 2014 sono tutt’altro che tranquillizzanti: 500mila posti di lavoro in meno tra la fine del 2009 alla fine del 2014, con un’ edilizia italiana che è passata da 1 milione e 964mila occupati a 1 milione e 454mila. Una sfilza di segni meno che parte dal terzo trimestre del 2010 e prosegue ininterrottamente fino alla fine dello scorso anno: 18 trimestri consecutivi di cali, senza alcun rimbalzo, né grande, né piccolo.

Una situazione che non lascia per nulla tranquilli imprese e addetti del settore, dal momento che quello dell’ edilizia italiana è un caso unico nell’economia del nostro Paese. Se, infatti, l’industria in generale ha percepito qualche segnale di ripresa dalla metà dello scorso anno in poi, il settore dell’ edilizia italiana è stato invece sempre depresso e in recessione. Se lo ricordano bene gli addetti dell’ edilizia italiana il primo semestre del 2013, quando gli occupati del settore scesero di ben il 12% tra aprile e giugno.

Ciò che ha trascinato a fondo il settore dell’ edilizia italiana è stato soprattutto il crollo del mercato immobiliare, insieme allo stallo nelle grandi opere; capitolo grandi opere che porta con sé un’altra pesantissima zavorra per l’ edilizia italiana: il ritardo nel pagamento dei debiti della Pa verso le imprese.

A rincarare la dose, oltre all’Istat, ci pensano anche i dati aggiornati di Bankitalia, secondo i quali a gennaio 2015 i prestiti elargiti dalle banche alle imprese dell’ edilizia italiana hanno toccato la cifra record di 154 miliardi, quasi tre quarti di quanto gli istituti di credito hanno iniettato nell’intero settore manifatturiero italiano: 211 miliardi. E anche nel rapporto tra prestiti erogati e sofferenze bancarie, i rapporti di forza sono più o meno i medesimi: 185 miliardi di sofferenze bancarie a gennaio, dei quali 39 da imprese dell’ edilizia italiana e 35 dall’intero settore manifatturiero.

Vie d’uscita per l’ edilizia italiana? Le imprese del settore guardano con speranza al risanamento dei debiti Pa, oltre alle grandi opere che dovrebbero essere fatte ripartire dai provvedimenti contenuti nel decreto Sblocca-Italia. Se, a questo, si aggiunge il fatto che qualche timido segnale di ripresa arriva anche dal mercato immobiliare, qualcuno prova anche a sperare. Perché, oltre alla speranza, rischia di rimanere ben poco.

Bollicine italiane superstar

Alla faccia dello champagne, il Capodanno appena passato è stato un trionfo per le bollicine italiane nel mondo. Secondo Coldiretti, in occasione dei festeggiamenti di Capodanno, sono state stappate 170 milioni di bottiglie di spumante Made in Italy. Un dato figlio del fatto che all’estero non sono mai state richieste così tante bollicine italiane come quest’anno.

L’Istat rileva infatti che nei primi nove mesi del 2014 si è registrato il record di esportazione di spumante, +24%, che ha portato il 2014 a chiudersi con un totale di bottiglie di spumante esportate pari a quasi 300 milioni. Se si considera che le esportazioni di champagne hanno fatto registrare un +6% è facile ipotizzare che le bollicine italiane (soprattutto Prosecco e Asti) abbiano stracciato quelle francesi.

Per quanto riguarda i mercati più importanti, la Cina ha fatto registrare un boom di bollicine italiane (+110%), ma anche il Regno Unito si è difeso bene (+49%), superando gli Stati Uniti (+21%) come mercato di riferimento per le bollicine italiane. Gradino più basso del podio per la Germania, le cui importazioni di spumante italiano sono rimaste stabili.

In Italia, invece, sono state stappate circa 50 milioni di bottiglie di spumante Made in Italy, scelte dall’89% degli italiani.