Forme di licenziamento e aziende: come evitare di perdere agevolazioni

Perdere il lavoro è sempre un evento traumatico, ma non sempre il licenziamento avviene per gli stessi motivi, infatti vi sono diverse forme di licenziamento. Scopriremo quali sono e le conseguenze che possono derivarne per le aziende.

Aziende: perché devono stare attente alle forme di licenziamento

Si è visto in alcuni articoli precedenti che molte agevolazioni previste in favore delle aziende non possono essere concesse se nei mesi precedenti sono stati attuati dei licenziamenti per riduzione del personale, ad esempio le aziende che hanno attuato dei licenziamenti non possono ottenere lo sgravio fiscale per i contratti di rioccupazione. Deve però essere sottolineato che non tutte le forme di licenziamento comportano tali limiti, infatti occorre distinguere se lo stesso è avvenuto per un giustificato motivo soggettivo e quindi non per riduzione del personale dovuto a problemi aziendali.

In questa sede sarà effettuata una breve disamina sulle diverse tipologie di licenziamento con l’obiettivo di determinare se lo stesso può essere d’ostacolo all’applicazione di benefici e agevolazioni per le aziende.

Forme di licenziamento: motivi soggettivi e oggettivi

I licenziamenti possono essere ricondotti in due grandi famiglie: il licenziamento dovuto a fatto del lavoratore e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nella prima fattispecie si possono ritrovare “sotto-categorie”. In particolare si può avere il licenziamento per giusta causa quando il comportamento del lavoratore è tale da incidere sul rapporto di fiducia tra il datore di lavoro e il lavoratore e, di conseguenza, si procede al licenziamento anche definito “in tronco” quindi senza alcun preavviso.

La legge e la giurisprudenza naturalmente hanno delimitato l’ambito di applicazione di una misura così drastica. Potrebbe verificarsi il licenziamento per giusta causa senza preavviso nel caso in cui il datore di lavoro colga in flagranza il lavoratore mentre porta via dei beni dell’azienda, oppure quando commetta un reato così grave da non permettere in alcun modo di continuare il rapporto di lavoro in quanto viene meno l’elemento fiduciario o potrebbe esservi un grave danno all’azienda, anche di immagine.

Giustificato motivo soggettivo o licenziamento disciplinare

Una seconda possibilità è il licenziamento disciplinare regolato dallo Statuto dei Lavoratori legge 300 del 1970, anche in questo caso il rapporto di lavoro viene meno per un fatto del lavoratore, ma in questo caso è necessario il preavviso di 15 giorni. Il licenziamento disciplinare può essere applicato nel caso in cui si verifichi un inadempimento contrattuale. Ciò che caratterizza l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori è la particolare attenzione a tutte le fasi da rispettare. In primo luogo è previsto che il datore di lavoro renda pubblico ai dipendenti il codice disciplinare che deve essere anche affisso nel luogo di lavoro.

Al verificarsi di uno dei fatti che possono portare a un provvedimento disciplinare, il datore di lavoro deve contestarlo. La contestazione deve essere specifica e dettagliata e deve esporre in modo chiaro i comportamenti contestati. In questo modo il lavoratore potrà giustamente esercitare il diritto di difesa. La contestazione, tranne i casi in cui preveda il semplice rimprovero verbale, deve essere fatta per iscritto.

In seguito alla contestazione scritta, la sanzione disciplinare non può essere applicata prima che siano trascorsi 5 giorni. Tale lasso di tempo può essere utilizzato dal lavoratore per esercitare la sua difesa e contestare i fatti addebitati dal datore di lavoro. In seguito all’applicazione della sanzione il lavoratore può comunque proporre il ricorso avverso la stessa. Tra le varie ipotesi di sanzioni c’è appunto il licenziamento disciplinare che può essere adottato solo nei casi in cui il codice disciplinare preveda espressamente che per una determinata violazione, o la reiterazione in un breve lasso di tempo della stessa violazione, si applichi il licenziamento disciplinare.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si verifica quando l’azienda abbia delle difficoltà e di conseguenza si trovi a dover ridurre il personale. Anche in questo caso è necessario che sia seguito un iter procedurale. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo entra nel nostro ordinamento con la legge 604 del 1966 e tra i motivi che possono portare ad applicare questa misura vi sono difficoltà economiche per l’azienda, cessazione dell’attività, il venir meno delle mansioni a cui era adibito il lavoratore senza possibilità di collocarlo in nuove mansioni.

Ad esempio nel caso in cui in azienda venga soppresso un reparto e non ci sia possibilità di occupare il lavoratore in un altro reparto. In merito al licenziamento per giustificato motivo oggettivo occorre sottolineare anche che dal 2012 il licenziamento intimato al termine del periodo di comporto o per sopravvenuta inidoneità fisica e psichica sono fatti rientrare in questa particolare categoria. Occorre ricordare che questi provvedimenti possono comunque essere impugnati dal lavoratore, ma rispetto al passato è cambiato il sistema sanzionatorio, infatti nel caso in cui il licenziamento dovesse essere ritenuto illegittimo comunque non è previsto il rientro nel posto di lavoro.

Dal 2012 con la riforma del mercato del lavoro il reintegro è ammesso in limitati casi, che sono stati ulteriormente ridotti con l’introduzione dal 2015 del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Infatti sono rimaste attive le tutele solo nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia stato intimato per inidoneità fisica o psichica. In tutti gli altri casi il licenziamento resta operativo e vi è solo una tutela economica.

Limiti alle agevolazioni per le aziende

Ritornando alle agevolazioni previste per le aziende, nella maggior parte dei casi gli sgravi contributivi e altri benefici riconosciuti Una Tantum si ottengono se nel periodo precedente si sono verificati dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ad esempio se vi è stato un licenziamento perché determinate mansioni in azienda non servono più, non sarà possibile ottenere agevolazioni per l’assunzione di personale in quella stessa categoria, mentre potrebbero essere ottenute per assunzione in altre mansioni. Diverso è invece il caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa. Di volta in volta quindi l’azienda deve controllare se può ottenere agevolazioni.

Obbligo di fedeltà del dipendente: norme e giurisprudenza

Un’impresa sa quanto è importante salvaguardare il proprio patrimonio, non solo materiale, ma anche immateriale, cioè relativo a processi di produzione e segreti aziendali di varia natura. E’altrettanto consapevole del fatto che non può evitare di rendere edotti i dipendenti, specialmente quelli in posizione dirigenziale. Nonostante questo, ha uno strumento di tutela, cioè l’obbligo di fedeltà del dipendente.

Il contenuto dell’obbligo di fedeltà del dipendente

La fonte dell’obbligo di fedeltà del dipendente deve essere rinvenuta nell’articolo 2105 del codice civile il quale stabilisce che: Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, ne’ divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

La norma individua tre precisi divieti per il lavoratore, in primo luogo non può trattare affari in concorrenza con l’azienda in cui lavora, in secondo luogo gli è fatto espresso divieto di divulgare i segreti aziendali, ad esempio è fatto divieto di parlare di nuovi prodotti a cui si sta lavorando e su cui ancora non è stato depositato il brevetto, ma anche processi produttivi particolari. Il terzo divieto impone di non far uso dei segreti aziendali per danneggiare l’azienda. Nel caso in cui il lavoratore dipendente violi tali disposizioni, può essere licenziato anche senza obbligo di preavviso e si tratta di un licenziamento per giustificato motivo. La ratio della norma è aiutare l’imprenditore a tutelare la propria attività dalla concorrenza sleale che potrebbe portare via clienti, o vanificare i propri investimenti in ricerca. Non solo, vedremo che la norma viene applicata in modo estensivo.

Quando nasce l’obbligo di fedeltà del dipendente

L’obbligo di fedeltà nasce con la stipula del contratto di lavoro ed è ad esso connaturato, il contratto non deve specificarne il contenuto in modo esplicito. Il dipendente che viola tale norme incorre in responsabilità contrattuale. Tale obbligo deve essere tenuto distinto dal patto di non concorrenza che è indipendente rispetto al contratto di lavoro, si esplica dopo la cessazione del rapporto di lavoro, deve essere remunerato.

Scopri di più sul patto di non concorrenza

 

Giurisprudenza sull’obbligo di fedeltà del dipendente

Naturalmente un lavoratore licenziato senza preavviso cerca di difendersi da tali effetti e la giurisprudenza di sicuro fornisce ottimi spunti per capire la reale portata dell’obbligo di fedeltà del dipendente.

Licenziamento illegittimo

La giurisprudenza non sempre ha adottato un criterio unanime nello stabilire se effettivamente vi erano i presupposti per un licenziamento per giustificato motivo. Ad esempio la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a un dipendente a tempo parziale che nelle ore rimanenti intratteneva rapporti di lavoro con un’azienda concorrente. In tal caso per potersi verificare l’ipotesi di violazione dell’obbligo di fedeltà occorre che per il datore di lavoro si sia verificato in costanza di rapporto di lavoro un danno, un rischio concreto di essere danneggiato da parte del dipendente e che costui fosse consapevole della rischiosità del suo comportamento, inoltre deve esservi da parte del lavoratore l’animus nocendi.

Interpretazione dell’obbligo

Importante è anche la sentenza della Corte di Cassazione n° 11181 del 23 aprile del 2019, questa infatti è inerente il comportamento tenuto da una cassiera che ha utilizzato la tessera sconti di una cliente, pari a circa 24 euro successivamente riscossi dal coniuge della stessa cassiera. In questo comportamento è stata vista la violazione dell’obbligo di fedeltà perché, secondo la Corte, l’articolo 2105 contiene dei meri esempi, di un più vasto obbligo per i dipendenti di non comportarsi in modo da arrecare danno all’azienda. La sentenza dice che: nel prescrivere un dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia solo alcune manifestazioni di obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di più vasta gamma di comportamenti, anche positivi ma pur sempre riconducibili, in senso ampio ed in collegamento ai doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., all’obbligo di fedeltà.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito tale posizione infatti sottolinea ancora:  l’obbligo di fedeltà [..]deve intendersi non soltanto come mero divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi, ma anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l’inserimento del dipendente nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.

Ulteriori sentenze

Di particolare rilevanza è anche la sentenza 7425 del 2018, sempre della Corte di Cassazione, in questo caso si conferma la condanna di un autista in congedo parentale che durante tale periodo aveva svolto, seppur gratuitamente, servizio presso un altro vettore concorrente. La sentenza 7461 del 2019 ha invece ritenuto giustificato il licenziamento di un dipendente in malattia a causa di infortunio che, durante tale periodo aveva prestato servizio presso un’altra azienda. In questo caso i giudici oltre a rilevare che vi è stata violazione del’articolo 2105 del codice civile, hanno sottolineato anche che tale comportamento era idoneo a ritardare il recupero fisico del dipendente in malattia.  Infine, i giudici hanno rilevato violazione dell’obbligo di fedeltà anche nel comportamento del dipendente che era socio al 10% e consigliere di amministrazione in una società concorrente con quella di cui era dipendente con contratto di livello “quadro”(10239 del 2019).

Si evince da questa disamina che le imprese hanno ampio spazio per tutelarsi dal comportamento infedele dei propri dipendenti.

Limiti all’obbligo di fedeltà

La giurisprudenza ha sottolineato che non costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà il divulgare notizie inerenti illeciti compiuti dall’azienda, ad esempio evasione fiscale.  Inoltre non costituisce violazione dell’obbligo l’utilizzo delle informazioni nell’ambito della propria attività professionale se queste rappresentano il proprio bagaglio di competenze specifiche, In questo caso dei limiti vi possono essere con il patto di non concorrenza.

Licenziamenti per giusta causa in aumento

Da un’indagine dell’Ufficio Studi della CGIA emerge che i licenziamenti per giusta causa, o giustificato motivo soggettivo, nel settore privato sono aumentati nell’ultimo anno del 26,5%, mentre i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sono aumentati solo del 4,6% e quelli per esodo incentivato sono calati del 19%.

Questo trend si giustifica a causa di un’abitudine ormai diffusa tra i dipendenti, che in caso di dimissioni vogliono evitare incombenze burocratiche ed evitare la NASpI, e che per ora riguarda 74.600 lavoratori ma che, se la tendenza rimarrà questa, aumenteranno vertiginosamente.

Con l’introduzione della riforma Fornero, dal 2013 chi viene licenziato ha diritto all’ASpI, l’indennità mensile di disoccupazione, che rappresenta una misura di sostegno al reddito con una durata massima di 2 anni che costringe l’imprenditore che ha deciso di lasciare a casa il proprio dipendente al pagamento di una tassa di licenziamento. Se si verifica questa situazione, infatti, il datore di lavoro deve versare all’Inps una somma pari al 41% del massimale mensile della NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi 3 anni. Per una persona con un’anzianità lavorativa di almeno 3 anni, la tassa a carico dell’azienda può sfiorare i 1.500 euro.

Renato Mason, segretario della CGIA, ha dichiarato in proposito: “Se una impresa contribuisce ad aumentare il numero dei disoccupati provoca dei costi sociali che in parte deve sostenere. Negli ultimi tempi, però, la questione ha assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perché un numero sempre più crescente di dipendenti non rispetta la norma e costringe gli imprenditori al licenziamento e, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI in maniera impropria”.

Il trend rilevato dalla CGIA si sta affermando anche nell’anno in corso, poiché l’incremento dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel solo primo trimestre è stato del 14,7%
Negli ultimi tempi, infatti, i lavoratori tendono a non recarsi più al lavoro senza alcuna comunicazione al proprio titolare, poiché sanno che in questi casi, dal marzo 2016, è stata introdotta l’obbligatorietà delle dimissioni on-line e che, in caso di decisione volontaria di starsene a casa, il datore di lavoro deve avviare la procedura del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
In questo caso, il dipendente riceve la NASpI, che invece non gli spetterebbe in caso di dimissioni volontarie.

Paolo Zabeo, coordinatore Ufficio Studi CGIA, ha commentato: “Questo astuto espediente sta creando un danno economico non indifferente. Non solo perché costringe il titolare dell’azienda a versare la tassa di licenziamento che, come dicevamo, può arrivare fino a 1.500 euro, ma anche alla collettività che deve farsi carico del costo della NASpI. Se quest’ultima viene erogata per tutti i 2 anni previsti dalla legge Fornero, il costo complessivo per le casse dell’Inps può arrivare fino a 20.000 euro a lavoratore”.

Vera MORETTI