Facebook: Zuckerberg licenzia 11.000 dipendenti Meta. Ecco perché

Il mondo dei social è in fermento, infatti dopo l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, con conseguente licenziamento di molti lavoratori, il 50%, è Mark Zuckerberg a licenziare i dipendenti di Meta, che controlla Facebook, Whatsapp e Instagram. Zuckerberg licenzia 11.000 dipendenti, ma cosa succede?

Zuckerberg licenzia 11.000 dipendenti Meta

È la prima volta che succede da quando Zuckerberg ha fatto il suo ingresso nel mondo dei social network rivoluzionando il mondo dei contatti sociali. Fino ad oggi c’erano solo state assunzioni. Il colpo è duro, infatti gli 11.000 licenziamenti Meta effettuati da Zuckerberg riguardano il 13% del personale. I licenziamenti hanno riguardato soprattutto l’area di gestione del personale, ma non solo. La decisione è arrivata dopo il crollo del valore delle azioni di Meta e dopo il crollo del patrimonio personale di Zuckerberg.

Nel comunicato ha fornito anche indicazioni per l’accompagnamento all’uscita dall’azienda. I dipendenti licenziati potranno avere 16 settimane di busta paga base, a cui si aggiungono due settimane aggiuntive per ogni anno di lavoro in azienda. I dipendenti riceveranno la remunerazione per tutte le ferie maturate ed evidentemente non godute. Infine, per 6 mesi sarà assicurata la copertura per l’assicurazione sanitaria per i dipendenti e per le loro famiglie. Al fine di aiutare i lavoratori a trovare una nuova occupazione, i dipendenti riceveranno 3 mesi di assistenza da parte di Meta.

Perché Zuckerberg licenzia 11.000 dipendenti Meta ( facebook, Instagram Whatsapp)?

Il motivo dichiarato alla base di questa scelta sono le previsioni di crescita di Meta troppo ottimistiche e quindi è stato assunto troppo personale. Per Zuckerberg, che ha dato la notizia dei licenziamenti con un comunicato, è necessario procedere a snellire la struttura dei più importanti social e in particolare Facebook.

Che ci sia una fuga di utenti dai social canonici è un problema reale. La stessa fuga, unita al proliferare degli account fake su Twitter, ha portato a un ribassamento del valore del noto social, poi acquistato da Elon Musk. Sono molti a ritenere che l’acquisto sia giunto al completamento solo perché, viste le trattative, l’improvviso dietro front di Musk lo avrebbe esposto a penali. Il fatto che Elon non sia convinto dell’investimento si è notato con il licenziamento che è conseguito all’acquisto, prima dei vertici e poi degli altri dipendenti, il 50%. In questo caso però l’eccessiva fretta ha portato errori e Musk per alcuni sta procedendo al reintegro.

È stata annunciata anche un’altra novità, cioè il pagamento per la spunta blu che certifica che trattasi di profili verificati, non fake. Emerge quindi il desiderio di Musk di rimpicciolire Twitter, ma renderlo allo stesso tempo produttivo attraverso il pagamento e la particolare affidabilità che acquisterebbe con i profili verificati. Di fatto molti utenti ora lasciano anche twitter.

Questo ulteriore licenziamento Meta sembra suggerire che l’attrattiva dei social canonici sia in declino e che sempre più le persone preferiscano canali di comunicazione alternativi e in un certo senso più liberi. L’effetto del licenziamento Meta è stato comunque subito avvertito dalla Borsa, infatti a Wall Street Meta sale del 5,37%.

Stretta antidelocalizzazioni per evitare i licenziamenti collettivi

Trovato l’accordo sulla stretta antidelocalizzazioni tra il ministro per lo Sviluppo Economico Giorgetti e il ministro del Lavoro Orlando, con la partecipazione ai lavori del ministro dell’Economia Daniele Franco. Il testo è frutto soprattutto del lavoro del vice ministro dello Sviluppo Economico Alessandra Todde.

Ratio della stretta antidelocalizzazioni

Le norme antidelocalizzazione hanno l’obiettivo di “punire” le imprese sane che decidono di delocalizzare le loro produzione e non presentano un piano per il reiserimento lavorativo dei lavoratori che a causa di tale delocalizzazione perdono il posto di lavoro. La delocalizzazione purtroppo è una pratica molto odiata dai lavoratori, dai sindacati e anche dai vari governi che si sono succeduti, infatti produce disoccupazione, espone il welfare a dover corrispondere indennità e sussidi a lavoratori che spesso è difficile ricollocare nel mondo del lavoro, la delocalizzazione va ad incidere negativamente sul PIL, riduce le entrate tributarie, di fatto impoverisce il Paese. Allo stesso tempo è una pratica molto usata dalle imprese per tenere sotto controllo il costo del lavoro anche per quanto riguarda l’aspetto contributivo e assicurativo.

Gli incentivi offerti alle aziende d’altronde non hanno fatto molta breccia nel cuore degli imprenditori, infatti non sono serviti molto gli sgravi per le assunzioni degli under 36 e allora si procede alla stretta sulle delocalizzazioni.

Cosa prevede la stretta antidelocalizzazioni

L’accordo raggiunto dai ministri Orlando e Giorgetti si applica alle PMI che hanno oltre 250 dipendenti e che sono sane, di conseguenza si tratta di aziende che non hanno particolari difficoltà e di conseguenza possono restare in Italia.

La stretta antidelocalizzazioni si applica alle imprese viste in precedenza che decidano di chiudere una:

  • sede;
  • filiale;
  • ufficio;
  • stabilimento;
  • reparto autonomo.

La chiusura deve determinare la perdita di lavoro per oltre 50 dipendenti.

Procedura per una corretta delocalizzazione

Al verificarsi di ciò l’azienda è obbligata a compiere determinati passi preventivi, cioè:

  • darne comunicazione per iscritto alle rappresentanze sindacali, aziendali o territoriali;
  • comunicare la decisione sempre per iscritto alle Regioni interessate, al ministero del Lavoro, al ministero dello Sviluppo Economico e all’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attice del lavoro).

La comunicazione deve essere inviata almeno 90 giorni prima rispetto alla data prevista per il licenziamento/dismissione e deve essere dettagliata. Se non si rispettano questi primi passi, i licenziamenti sono nulli.

Fatta la comunicazione vi sono ulteriori 60 giorni di tempo per l’impresa/datore di lavoro per elaborare un piano volto a limitare le ricadute occupazionali di tale scelta imprenditoriale. Il piano deve essere presentato a sindacati, Regioni e Ministeri prima visti e deve essere discusso e alla fine sottoscritto con i sindacati (naturalmente questi possono ritenerlo non conveniente e non sottoscriverlo).

Stretta sulle delocalizzazioni: cosa succede se non si rispetta la procedura?

Nel caso in cui le procedure viste non siano rispettate, saranno applicate sanzioni. In particolare, viene si applica il raddoppio del contributo del 41%  a carico del datore di lavoro sul sussidio NASPI. Se non si procede alla sottoscrizione dell’accordo sindacale, il contributo per i licenziamenti collettivi aumenta di un ulteriore 50%. Questo quanto emerge dalla bozza dell’accordo sottoscritto.

Giudizi positivi sulla bozza sono stati espressi da Enrico Letta, Segretario del PD, l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Maggiormente critico è invece Fratoianni segretario nazionale di Sinistra Italiana perché in questo modo diventa acquistabile il diritto di licenziare, inoltre la norma andrebbe a ledere le medie imprese, ma non le multinazionali per cui questi “costi” sono irrisori. Non molta soddisfazione è stata espressa anche da Emilio Miceli, segretario confederale della Cgil.

La stretta sulle delocalizzazioni è frutto di recenti fatti di cronaca che hanno visto molti lavoratori perdere il lavoro come i dipendenti di GKN, Embraco, Whirlpool e Saga Coffee.

Occorre ricordare che anche il decreto Dignità prevede sanzioni a carico delle imprese che decidono di delocalizzare la produzione, questo provvedimento stabilisce l’obbligo di restituire eventuali aiuti pubblici ricevuti in misura raddoppiata.

Forme di licenziamento e aziende: come evitare di perdere agevolazioni

Perdere il lavoro è sempre un evento traumatico, ma non sempre il licenziamento avviene per gli stessi motivi, infatti vi sono diverse forme di licenziamento. Scopriremo quali sono e le conseguenze che possono derivarne per le aziende.

Aziende: perché devono stare attente alle forme di licenziamento

Si è visto in alcuni articoli precedenti che molte agevolazioni previste in favore delle aziende non possono essere concesse se nei mesi precedenti sono stati attuati dei licenziamenti per riduzione del personale, ad esempio le aziende che hanno attuato dei licenziamenti non possono ottenere lo sgravio fiscale per i contratti di rioccupazione. Deve però essere sottolineato che non tutte le forme di licenziamento comportano tali limiti, infatti occorre distinguere se lo stesso è avvenuto per un giustificato motivo soggettivo e quindi non per riduzione del personale dovuto a problemi aziendali.

In questa sede sarà effettuata una breve disamina sulle diverse tipologie di licenziamento con l’obiettivo di determinare se lo stesso può essere d’ostacolo all’applicazione di benefici e agevolazioni per le aziende.

Forme di licenziamento: motivi soggettivi e oggettivi

I licenziamenti possono essere ricondotti in due grandi famiglie: il licenziamento dovuto a fatto del lavoratore e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nella prima fattispecie si possono ritrovare “sotto-categorie”. In particolare si può avere il licenziamento per giusta causa quando il comportamento del lavoratore è tale da incidere sul rapporto di fiducia tra il datore di lavoro e il lavoratore e, di conseguenza, si procede al licenziamento anche definito “in tronco” quindi senza alcun preavviso.

La legge e la giurisprudenza naturalmente hanno delimitato l’ambito di applicazione di una misura così drastica. Potrebbe verificarsi il licenziamento per giusta causa senza preavviso nel caso in cui il datore di lavoro colga in flagranza il lavoratore mentre porta via dei beni dell’azienda, oppure quando commetta un reato così grave da non permettere in alcun modo di continuare il rapporto di lavoro in quanto viene meno l’elemento fiduciario o potrebbe esservi un grave danno all’azienda, anche di immagine.

Giustificato motivo soggettivo o licenziamento disciplinare

Una seconda possibilità è il licenziamento disciplinare regolato dallo Statuto dei Lavoratori legge 300 del 1970, anche in questo caso il rapporto di lavoro viene meno per un fatto del lavoratore, ma in questo caso è necessario il preavviso di 15 giorni. Il licenziamento disciplinare può essere applicato nel caso in cui si verifichi un inadempimento contrattuale. Ciò che caratterizza l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori è la particolare attenzione a tutte le fasi da rispettare. In primo luogo è previsto che il datore di lavoro renda pubblico ai dipendenti il codice disciplinare che deve essere anche affisso nel luogo di lavoro.

Al verificarsi di uno dei fatti che possono portare a un provvedimento disciplinare, il datore di lavoro deve contestarlo. La contestazione deve essere specifica e dettagliata e deve esporre in modo chiaro i comportamenti contestati. In questo modo il lavoratore potrà giustamente esercitare il diritto di difesa. La contestazione, tranne i casi in cui preveda il semplice rimprovero verbale, deve essere fatta per iscritto.

In seguito alla contestazione scritta, la sanzione disciplinare non può essere applicata prima che siano trascorsi 5 giorni. Tale lasso di tempo può essere utilizzato dal lavoratore per esercitare la sua difesa e contestare i fatti addebitati dal datore di lavoro. In seguito all’applicazione della sanzione il lavoratore può comunque proporre il ricorso avverso la stessa. Tra le varie ipotesi di sanzioni c’è appunto il licenziamento disciplinare che può essere adottato solo nei casi in cui il codice disciplinare preveda espressamente che per una determinata violazione, o la reiterazione in un breve lasso di tempo della stessa violazione, si applichi il licenziamento disciplinare.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si verifica quando l’azienda abbia delle difficoltà e di conseguenza si trovi a dover ridurre il personale. Anche in questo caso è necessario che sia seguito un iter procedurale. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo entra nel nostro ordinamento con la legge 604 del 1966 e tra i motivi che possono portare ad applicare questa misura vi sono difficoltà economiche per l’azienda, cessazione dell’attività, il venir meno delle mansioni a cui era adibito il lavoratore senza possibilità di collocarlo in nuove mansioni.

Ad esempio nel caso in cui in azienda venga soppresso un reparto e non ci sia possibilità di occupare il lavoratore in un altro reparto. In merito al licenziamento per giustificato motivo oggettivo occorre sottolineare anche che dal 2012 il licenziamento intimato al termine del periodo di comporto o per sopravvenuta inidoneità fisica e psichica sono fatti rientrare in questa particolare categoria. Occorre ricordare che questi provvedimenti possono comunque essere impugnati dal lavoratore, ma rispetto al passato è cambiato il sistema sanzionatorio, infatti nel caso in cui il licenziamento dovesse essere ritenuto illegittimo comunque non è previsto il rientro nel posto di lavoro.

Dal 2012 con la riforma del mercato del lavoro il reintegro è ammesso in limitati casi, che sono stati ulteriormente ridotti con l’introduzione dal 2015 del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Infatti sono rimaste attive le tutele solo nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia stato intimato per inidoneità fisica o psichica. In tutti gli altri casi il licenziamento resta operativo e vi è solo una tutela economica.

Limiti alle agevolazioni per le aziende

Ritornando alle agevolazioni previste per le aziende, nella maggior parte dei casi gli sgravi contributivi e altri benefici riconosciuti Una Tantum si ottengono se nel periodo precedente si sono verificati dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ad esempio se vi è stato un licenziamento perché determinate mansioni in azienda non servono più, non sarà possibile ottenere agevolazioni per l’assunzione di personale in quella stessa categoria, mentre potrebbero essere ottenute per assunzione in altre mansioni. Diverso è invece il caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa. Di volta in volta quindi l’azienda deve controllare se può ottenere agevolazioni.

Le novità dei risarcimenti sul licenziamento

Se, da un lato, le regole sul licenziamento previste dal Job Act non si applicano al pubblico impiego, per quest’ultimo cambia comunque il tetto del risarcimento economico in 24 mensilità mentre per il resto si continua d applicare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con reintegro nel posto di lavoro in assenza di giusta causa, indipendentemente dalla data di assunzione.

E’ possibile consultare le nuove regole sul lavoro pubblico nel decreto legislativo 75/2017, in vigore dal 22 giugno scorso. Si tratta del provvedimento che contiene anche le norme salva precari, le novità in materia di responsabilità disciplinare con la stretta sui furbetti del cartellino, l’introduzione del Polo unico delle visite fiscali.

La disciplina sul licenziamento, applicabile al contratto di lavoratore dipendente a tempo indeterminato, prevede un risarcimento economico sia in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, causato da crisi aziendale, sia per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ossia i cosiddetti licenziamenti disciplinari che riguardano in genere un singolo lavoratore. Il risarcimento è pari a due mensilità per ogni anno di lavoro in caso di licenziamento economico, da un minimo di quattro fino a un massimo di 24 mensilità.

Resta il reintegro, più un’indennità economica fino a 12 mesi, solo in caso di licenziamento discriminatorio o disciplinare basato su un fatto inesistente. Le piccole imprese sotto i 15 dipendenti in caso di licenziamento illegittimo pagano una mensilità per ogni anno di lavoro, da un minimo di due a un massimo di sei.

Vera MORETTI

Licenziamenti per giusta causa in aumento

Da un’indagine dell’Ufficio Studi della CGIA emerge che i licenziamenti per giusta causa, o giustificato motivo soggettivo, nel settore privato sono aumentati nell’ultimo anno del 26,5%, mentre i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sono aumentati solo del 4,6% e quelli per esodo incentivato sono calati del 19%.

Questo trend si giustifica a causa di un’abitudine ormai diffusa tra i dipendenti, che in caso di dimissioni vogliono evitare incombenze burocratiche ed evitare la NASpI, e che per ora riguarda 74.600 lavoratori ma che, se la tendenza rimarrà questa, aumenteranno vertiginosamente.

Con l’introduzione della riforma Fornero, dal 2013 chi viene licenziato ha diritto all’ASpI, l’indennità mensile di disoccupazione, che rappresenta una misura di sostegno al reddito con una durata massima di 2 anni che costringe l’imprenditore che ha deciso di lasciare a casa il proprio dipendente al pagamento di una tassa di licenziamento. Se si verifica questa situazione, infatti, il datore di lavoro deve versare all’Inps una somma pari al 41% del massimale mensile della NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi 3 anni. Per una persona con un’anzianità lavorativa di almeno 3 anni, la tassa a carico dell’azienda può sfiorare i 1.500 euro.

Renato Mason, segretario della CGIA, ha dichiarato in proposito: “Se una impresa contribuisce ad aumentare il numero dei disoccupati provoca dei costi sociali che in parte deve sostenere. Negli ultimi tempi, però, la questione ha assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perché un numero sempre più crescente di dipendenti non rispetta la norma e costringe gli imprenditori al licenziamento e, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI in maniera impropria”.

Il trend rilevato dalla CGIA si sta affermando anche nell’anno in corso, poiché l’incremento dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel solo primo trimestre è stato del 14,7%
Negli ultimi tempi, infatti, i lavoratori tendono a non recarsi più al lavoro senza alcuna comunicazione al proprio titolare, poiché sanno che in questi casi, dal marzo 2016, è stata introdotta l’obbligatorietà delle dimissioni on-line e che, in caso di decisione volontaria di starsene a casa, il datore di lavoro deve avviare la procedura del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
In questo caso, il dipendente riceve la NASpI, che invece non gli spetterebbe in caso di dimissioni volontarie.

Paolo Zabeo, coordinatore Ufficio Studi CGIA, ha commentato: “Questo astuto espediente sta creando un danno economico non indifferente. Non solo perché costringe il titolare dell’azienda a versare la tassa di licenziamento che, come dicevamo, può arrivare fino a 1.500 euro, ma anche alla collettività che deve farsi carico del costo della NASpI. Se quest’ultima viene erogata per tutti i 2 anni previsti dalla legge Fornero, il costo complessivo per le casse dell’Inps può arrivare fino a 20.000 euro a lavoratore”.

Vera MORETTI

Riforma del lavoro? Una guerra tra poveri

La riforma del lavoro è realtà. Approvata lo scorso 27 giugno, entrerà ufficialmente in vigore il prossimo 18 luglio. E dopo 40 anni le regole di assunzione e licenziamento in Italia cambiano. Tutti lo sapevano ma solo ora si alza definitivamente il polverone.

La parola d’ordine del nuovo ordinamento è flessibilità. Flessibilità in ingresso e in uscita nel mercato del lavoro, stando alla nuova disciplina sostanziale che regolerà i licenziamenti.

I margini? Resta ancora da vedere quali siano i margini di suddetta flessibilità e che reale vantaggio avranno piccole e medie imprese, oltre che i lavoratori.

Flessibili nel licenziare, flessibili nel reintegrare o assumere.

Il processo sui licenziamenti sarà più veloce e saranno introdotte nuove forme di tutela della disoccupazione, ovvero, stando all’articolo 3 della Riforma di legge il deus ex machina del licenziamento per giusta causa sarà lo sfruttamento degli ammortizzatori sociali: la novità principale riguarderà l’introduzione dell’ASPI (Assicurazione Sociale per l’impiego), che sarà in vigore nel 2013 e sostituirà a regime, nel 2017, l’indennità di mobilità e di disoccupazione. A usufruire, oltre i lavoratori dipendenti, potranno essere gli apprendisti e gli artisti. Sarà possibile trasformare l’indennità Aspi in liquidazione per disporre in tal modo di un capitale per avviare un’impresa.

Già, un’impresa, stando all’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro sarà un’impresa trovare un posto di lavoro e mantenerlo.

Addio quindi al reintegro automatico in caso di licenziamento per motivi economici, anche se per alcuni casi specifici sarà prevista un’indennità risarcitoria. Nel caso di licenziamento disciplinare, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il giudice avrà una minor discrezionalità nella decisione del reintegro, che sarà previsto solo sulla base dei contratti collettivi.

E i piccoli medi imprenditori? Dovranno puntare sul contratto di apprendistato che diventerà la forma contrattuale dominante attraverso un sistema di incentivi e di benefici contributivi e che dovrà avere una durata minima non inferiore ai 6 mesi, unica vera novità sotto questo fronte.

E i titolari di Partita Iva? Nodo ancora irrisolto e che si appresta a diventare focolaio di discussioni e polemiche. Per i liberi professionisti la durata di collaborazione non dovrà superare gli 8 mesi e il corrispettivo pagato non dovrà superare l’80% di quello di dipendenti e co.co.co. In caso di collaborazione continuata che superi gli 8 mesi, il rapporto di lavoro si dovrà tramutare in altra forma contrattuale.

Mettiamo insieme le due cose: la guerra ai partitivisti porterà sempre meno titolari a mettersi in proprio e a fare, come accade oggi, di necessità virtù. Dall’altra parte, i piccoli medi imprenditori, ai quali mancheranno agevolazioni e aiuti nell’ acquisizione di nuove risorse, saranno costretti a trovare un mutuo accordo con chi sarà in cerca di un impiego. Che per uscire da un circolo vizioso come quello proposto dall’attuale Riforma si proceda alla mala parata e si fomenti il lavoro nero?

Mutua solidarietà tra piccolo imprenditore e lavoratore, l’uno alla ricerca di nuove commesse e l’altro alla ricerca di un nuovo lavoro?

Ma non sarebbe meglio incentivare le assunzioni a tempo indeterminato liberando le pmi dalle tassazioni e dalla pressione fiscale cui sono soggette, almeno nei primi tre anni di vita dell’attività?

Una riforma apprezzabile, dunque, o solo fumo negli occhi? A dire il vero molti sono ancora i tasti dolenti e quelli poco chiari. Come essere tutelati e scegliere la più opportuna tipologia di contratto di lavoro da proporre o da accettare? Che fine faranno gli ordini professionali ancora in bilico con relative casse previdenziali al seguito? E le partite IVA finte e i lavoratori parasubordinati che esistono da sempre?

Dopo tante chiacchiere e pagine di Riforma, un punto proprio ci manca: dov’è finita la forza di trascinamento e incoraggiamento verso le piccole e medie imprese?

 

Alzi la mano chi conosce la riforma del lavoro!

La riforma del lavoro, dopo aver suscitato molte polemiche, si ripresenta con alcune modifiche, in certi casi consistenti.
Vediamole punto per punto.

Una delle note dolenti era rappresentata dall’apprendistato, che ora diventa canale d’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani. Se si tratta di aziende con meno di 10 dipendenti il rapporto tra apprendisti e professionisti non può superare quello di 1 a 1, se si tratta per le aziende con meno di 10 dipendenti. Nulla di fatto per gli apprendisti in staff leasing.

Per quanto riguarda gli ammortizzatori, arriva la nuova Aspi dal 2013. Dal 2017 sostituirà l’indennità di mobilità e le varie indennità di disoccupazione. C‘è inoltre la possiblità, in via sperimentale, dal 2013 al 2015, di prendere tutta insieme l’indennità per avviare un lavoro autonomo.

Per i collaboratori a progetto è previsto un salario base. In via sperimentale per tre anni l’una tantum, in caso di perdita del lavoro, viene rafforzata: potrà arrivare a 6mila euro per un collaboratore che abbia lavorato da sei mesi a un anno.

Anche il congedo di paternità è stato modificato: si potrà usifruirne nei primi 5 mesi di vita del figlio e sarà obbligatorio un giorno e facoltativo (e in accordo con la madre) per gli altri due. E i voucher per la baby sitter potranno pagare anche le rette dell’asilo.

Le aziende potranno esimersi dall’indicare la causale del contratto, quando si tratta di contratti a tempo, fino a un anno. I contratti collettivi possono prevedere, in alternativa ai 12 mesi, una “franchigia” nei casi di specifici processi organizzativi nel limite del 6% degli occupati.

L’articolo 18 che riguarda i licenziamenti ha subito alcune modifiche: nei licenziamenti disciplinari il reintegro è possibile in base alla “tipizzazioni” dei contratti collettivi (e non più dalla legge). Una finta malattia poi non potrà più inficiare il recesso (salvo maternità e infortuni).

Cambiano le regole anche per accedere alla sospensione delle rate di mutuo sulla prima casa.
In questo caso, non verranno applicate commissioni o spese di istruttoria e il tutto avverrà senza richiesta di garanzie aggiuntive.

Le partite Iva, per le quali si era scatenato un putiferio, sono considerate valide con un reddito lordo annuo superiore a 18mila euro. Per riconoscere quelle fittizie ci si baserà su tre indici: durata di 8 mesi della collaborazione, 80% del reddito totale e avere una postazione fissa.

Gli sgravi sul salario di produttività diventano strutturali dal 2012. La “cedolare secca” del 10%, introdotta in via sperimentale per il triennio 2008-2010,potrà contare su 650 milioni di euro.

Approvati i voucher in agricoltura per studenti, pensionati e casalinghe, ma per le imprese con un fatturato sotto i 7mila euro. Per tutte le altre imprese le casalinghe sono escluse. Previsto un valore orario, da aggiornare con i sindacati.

Vera MORETTI

Dirigenti falciati dalla crisi

La crisi non guarda in faccia nessuno. Nemmeno i dirigenti. In Italia, dall’inizio della depressione dei mercati, ne sono “caduti” almeno 100mila. Dati freddi, tipici dell’Istat – che li ha diffusi – che rilevano come il numero dei dirigenti sia sceso del 20,8% dal 2008 al 2011, passando da 500mila a 396mila unità.

Preoccupata Federmanager, che all’Ansa, per bocca del presidente Giorgio Ambrogioni, ha dichiarato: “Solo una parte limitata di dirigenti riesce a collocarsi mantenendo la stessa qualifica. Alcuni sono costretti ad accettare il ritorno alla posizione di quadro. Sono ancora di più quelli che diventano manager atipici, ovvero una sorta di co.co.pro o partita Iva“.

Una realtà, quest’ultima, che non sempre va giù a chi ha ricoperto, magari per anni, un posto chiave anche in grandi imprese. Sempre secondo Ambrogionici sono persone, migliaia di colleghi, che a 45-50 anni sperimentano il dramma della disoccupazione, visto che è sempre più difficile ricollocarli di fronte a un mercato fermo. I dirigenti sono gli unici lavoratori dipendenti che non hanno alcuna tutela reale del loro posto di lavoro, possono essere licenziati in qualunque momento. Paghiamo i contributi per mobilità ma ne siamo esclusi per legge“.

Una tendenza che, sempre secondo Ambrogioni, non è frutto solo della crisi economica: colpa anche delle “ristrutturazioni, con le imprese che tendono a diventare più piccole, in controtendenza a quello che occorrerebbe, e le grandi imprese che snelliscono gli organici dirigenziali; le delocalizzazioni, che spostano all’estero tante realtà produttive prima situate in Italia“.

Come porre rimedio? Per Federmanager alcune mosse sono da fare subito, altre richiedono interventi più strutturali. Intanto, conclude Ambrogioni, “insieme con Confindustria stiamo lanciando e finanziamo un progetto che vede i nostri dirigenti disoccupati mettersi a disposizioni delle Pmi che si fanno avanti per attività di coaching, formazione nei confronti del piccolo imprenditore, dei suoi dipendenti, perché siamo convinti che questa espulsione di dirigenti anche bravi sia una perdita di valore per il sistema Paese“. Parole sante.

Riforma del lavoro, le imprese ringhiano

Ora che la riforma del lavoro è passata al Parlamento, vedremo quale testo uscirà dall’esame delle Camere.

Certo è che le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, così è indicata la riforma, hanno lasciato parecchi scontenti per strada. Era inevitabile, ma forse Monti stesso non pensava che le critiche più feroci gli sarebbero venute da quelle parti, imprese e banche, alle quali è sempre stato sintonicamente più vicino.

Detto della moderata soddisfazione di Cisl e Uil, della insolita apertura della Cgil e della ostinata ostilità della Fiom, dalle forze politiche di maggioranza è arrivato un sostanziale plauso mentre da Abi e Confindustria solo siluri. Alla Marcegaglia, in particolar modo, non è andato giù il dietro front sul reintegro del lavoratore in caso di licenziamento per ragioni economiche; un reintegro che, a detta di Monti, sarà limitato esclusivamente a “fattispecie molto estreme e improbabili“. Tanto che, secondo il premier, le imprese con il tempo capiranno. Intanto hanno capito che questa riforma lascia da parte i problemi veri, aumenta i costi del lavoro e penalizza le prospettive di investimento e di nuova occupazione.

Normale che, alla luce di questi ostacoli imprevisti, Monti stia pensando di chiedere la fiducia in Parlamento: poche modifiche, rapidità dell’iter, veloce conversione in legge.

Intanto, il giudizio dei mercati non pare essere positivo, contrariamente a quello della Commissione UE, che in una nota ha scritto: “Il Governo italiano sta dimostrando forte determinazione e impegno per affrontare la doppia sfida di consolidamento dei conti e crescita, i progressi fatti finora sono straordinari, e cruciale è ora l’adozione da parte del Parlamento della riforma del lavoro attesa da tanto“.

Di tono radicalmente opposto un totem dell’informazione mondiale come il Wall Street Journal, che ha scritto: “Gli ottimisti in Italia – ebbene sì, ve ne sono ancora – dicono che una riforma limitata è meglio di niente. forse. Tuttavia Monti è stato scelto per recuperare l’Italia dalla soglia di un abisso greco. La riforma del lavoro è una resa a coloro che la stanno portando laggiù“. Vedremo chi avrà ragione…

Articolo 18, i costi della riforma per le Pmi

Ne abbiamo parlato qualche giorno fa. I costi della riforma del lavoro, specialmente quelli legati alla modifica dell’articolo 18, rischiano di ricadere pesantemente sulle aziende. Qualcuno, ora, i conti di queste ricadute possibili li ha fatti e i risultati non sono proprio incoraggianti.

Lo studio meritorio è ancora una volta opera della Cgia di Mestre, secondo la quale, se sarà confermata la riforma dell’articolo 18 che prevede un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità per i dipendenti licenziati per ragioni economiche, i costi a carico dell’impresa potranno arrivare, per gli operai qualificati (sia del settore metalmeccanico, sia del settore del commercio), a un esborso massimo che sfiora i 49mila euro.

La Cgia di Mestre ha rilevato che un operaio metalmeccanico generico con 10 anni di anzianità e uno stipendio lordo di 1.418 euro, in caso di licenziamento per ragioni economiche dovrà essere indennizzato, nel caso delle 15 mensilità, con almeno 21.271 euro, nel caso delle 27 con 38.289 euro. Un operaio qualificato con 1.812 euro di stipendio mensile lordo, invece, percepirà un minimo di 27.177 euro (15 mensilità) fino ad un massimo di 48.918 euro (27 mensilità).

Passando dal metalmeccanico al commercio in caso di licenziamento per ragioni economiche, un operaio generico con una retribuzione mensile pari a 1.393 euro sarà risarcito con 20.895 euro (15 mensilità), con 37.612 euro (27 mensilità). Nel caso di un operaio specializzato con una retribuzione mensile lorda pari a 1.737 euro, con una indennità di 15 mesi prenderà 26.053 euro, 46.896 euro con 27 mensilità

Acuto, come sempre, il commento di Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre: “Al di là delle legittime posizioni di chi sostiene che un licenziamento non è mai monetizzabile, l’ammontare degli indennizzi da noi individuati è di tutto rispetto. Pertanto, non crediamo che gli imprenditori utilizzeranno questo strumento con una certa superficialità“.

Particolare non trascurabile, queste simulazioni le indennità sono al lordo delle ritenute Irpef. Nel caso poi fossero riconosciuti anche i contributi Inps (cosa che finora non paredovuta), l’esborso da parte dell’azienda aumenterà di un altro 30%.

Siamo proprio sicuri che una riforma dell‘articolo 18 in questi termini agevolerà la flessibilità in uscita?