Querela contro il datore di lavoro giustifica il licenziamento

Importante pronuncia della Corte di Cassazione, una querela contro il datore di lavoro può essere a base del licenziamento. Ecco in quali casi.

Rischia il licenziamento il lavoratore che presenta una denuncia falsa

La querela è un importante strumento dato al cittadino per denunciare comportamenti illeciti nei propri confronti, ad esempio se Tizio mi picchia io posso presentare denuncia in quanto le percosse sono reato. La querela deve però essere utilizzata in modo consono e può portare anche conseguenze importanti. Ad esempio, nell’ambito del diritto del lavoro se il datore di lavoro ha comportamenti illeciti nei confronti di un dipendente, come nel caso di molestie, è possibile presentare querela e nel caso in cui il giudice riconosca le ragioni del lavoratore non si può licenziare il dipendente, sarebbe una ritorsione.

Cosa succede invece se il giudice riconosce che il datore di lavoro non ha commesso il fatto denunciato dal lavoratore?

Questo è un caso interessante ed è stato trattato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 30866/2023.

Il caso, denuncia falsa giustifica il licenziamento per giusta causa

Nel caso in oggetto il lavoratore presenta querela contro il datore di lavoro per appropriazione indebita delle somme Tfr. Le accuse si rivelano infondate, ma soprattutto emerge dal procedimento che il lavoratore era consapevole del fatto che tali accuse fossero infondate. Scatta quindi il reato di calunnia che il datore di lavoro a sua volta denuncia. In questo caso siamo di fronte alla strumentalizzazione della denuncia in violazione dell’obbligo del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del codice civile e i principi di correttezza e buona fede degli articoli 1175 e 1375 Cc.

A ciò si aggiunge che una denuncia penale infondata rappresenta un abuso nell’uso di strumenti del processo che, come sappiamo, determina delle spese a carico delle casse dello Stato.

Da qui arriva la pronuncia della Corte di Cassazione che può essere considerata storica, infatti, generalmente se anche un lavoratore denuncia il datore di lavoro e risulta soccombente, non vi è il diritto a licenziare da parte del datore di lavoro, ma solo se la parte non ha agito in malafede ma per un errore di fatto o di diritto, cioè senza premeditare di danneggiare il datore di lavoro con accuse false e infondate.

Nel caso in oggetto essendovi stata una calunnia, è legittimo il licenziamento in tronco (licenziamento per giusta causa) in quanto è venuto meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.

Ricordiamo che affinché si possa configurare la calunnia è necessario il dolo, cioè l’aver agito con lo scopo di danneggiare il datore di lavoro, nel caso in cui il giudice dovesse rigettare il ricorso del lavoratore per insufficienza di prove, non scatta il reato di calunnia.

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Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro

Tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto di buona fede e correttezza, lo stesso si esplica in diversi obblighi per il datore di lavoro e per il lavoratore. Tra questi vi è il c.d obbligo di repechage, o ripescaggio, che prevede che il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve cercare un’altra collocazione al lavoratore, solo nel caso in cui ciò sia impossibile si potrà procedere al licenziamento.

Disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’obbligo di repechage è strettamente connesso all’articolo 3 della legge 604 del 1996 che consente al datore di lavoro di licenziare i dipendenti “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Il datore di lavoro per esigenze economiche oppure di riorganizzazione dell’attività lavorativa può licenziare del personale (tra le esigenze di riorganizzazione viene riconosciuta rilevanza anche alla possibilità di esternalizzare alcune attività che prima erano gestite in modo diretto dall’azienda, ad esempio i servizi di pulizia, ma non solo), ma deve essere tutelato l’interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro.

In quest’ottica il licenziamento appare possibile nel caso in cui:

  • le ragioni del datore di lavoro siano reali e non pretestuose (ecco perché spesso i giudici esaminano i bilanci per verificare la sussistenza di ragioni eocnomiche);
  • ci sia un nesso causale tra le ragioni addotte dal datore di lavoro e il licenziamento del lavoratore;
  • non sia possibile il repechage, cioè impiegare il lavoratore in mansioni diverse per le quali abbia comunque le giuste competenze al fine di proseguire il rapporto di lavoro.

Obbligo di repechage anche con demansionamento

Occorre ricordare che in questo caso è possibile anche il demansionamento. Noi sappiamo che non è possibile in azienda collocare il lavoratore in mansioni inferiori rispetto all’inquadramento raggiunto. Vi è un unico caso in cui questo è possibile ed è proprio quello che ci interessa, cioè la necessità per l’azienda di sopprimere delle posizioni per una nuova organizzazione o per difficoltà economiche. In questo caso l’azienda può offrire al dipendente un lavoro di inquadramento diverso. Resta però la libertà del lavoratore di accettare o meno il demansionamento, l’alternativa è il licenziamento.

Il datore di lavoro per poter procedere in tal modo è tenuto a dimostrare di non poter offrire una posizione equivalente e di aver ottenuto un rifiuto al demansionamento.

Tra l’altro vi sono ipotesi in cui il demansionamento può essere unilaterale, si tratta del caso in cui dalla riorganizzazione aziendale emergano delle posizioni con mansioni appartenenti a un livello di inquadramento inferiore che però rientrano nella medesima categoria legale di appartenenza. Negli altri casi, occorre invece un accordo tra le parti.

Non vi è obbligo di repechage se per il datore di lavoro questo rappresenta un costo

Il Tribunale di Roma nella sentenza del 24 luglio 2017 ha sottolineato che non vi è obbligo di repechage nel caso in cui il datore di lavoro per poter ottemperare a ciò debba sostenere costi di formazione eccessivi. Tale obbligo non può trasformarsi in un onere economico per il datore di lavoro. Quindi devono essere tenute in considerazione le posizioni presenti in azienda che richiedono le stesse competenze professionali del lavoratore che in teoria sarebbe in esubero. Tale orientamento è confermato dalla sentenza 31521 della Corte di Cassazione del 2019.

C’è obbligo di repechage anche tra aziende appartenenti allo stesso Gruppo?

La risposta è negativa o meglio solo in alcuni limitati casi il datore di lavoro ha l’obbligo di proporre al lavoratore il trasferimento in un’altra azienda del Gruppo. Si tratta delle ipotesi in cui vi sia un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Si verifica ciò nei casi:

  • vi sia un’unica struttura organizzativa e produttiva;
  • si verifichi integrazione tra le attività svolte dalle varie aziende del gruppo e il correlativo interesse comune;
  • sia possibile individuare un unico soggetto direttivo in virtù di un profondo collegamento tecnico e amministrativo-finanziario tra le varie parti del Gruppo;
  • infine, vi sia un’utilizzazione contemporanea delle prestazioni del lavoratore da parte delle aziende del gruppo.

In base alla sentenza 1656 del 2020 della Corte di Cassazione in questi specifici casi il repechage si applica anche tra le aziende del Gruppo. La prova della presenza di questi requisiti deve essere fornita dal lavoratore.

C’è sempre divieto del datore di lavoro di assumere altre persone?

Dalla giurisprudenza emergono note interessanti inerenti il caso in cui il datore di lavoro assuma altri dipendenti. Il primo caso è contenuto nella sentenza della Corte di Appello di Milano n° 909 del 2017, in questo caso il datore di lavoro successivamente aveva assunto con contratto a tempo determinato un altro lavoratore con le stesse mansioni/inquadramento. Tale assunzione non è stata ritenuta in violazione dell’obbligo di ripescaggio perché fatta al fine di sostituire un altro dipendente assente, ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro. Si trattava quindi di un posto di lavoro “diverso”.

Un altro caso particolare è invece trattato dall’Ordinanza del Tribunale di Roma del 27 ottobre 2014, in questo caso vi era stata prima un’assunzione a tempo determinato e in un secondo momento il licenziamento del lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Nella ordinanza si sottolinea che tale tipologia di contratto esclude l’obbligo per il datore di lavoro di proporre tale posizione come alternativa al licenziamento.

La sentenza 1508 del 2021 della Corte di Cassazione invece sottolinea che in caso di licenziamento del lavoratore per motivi economici, cioè l’azienda era nella necessità di tagliare i costi, l’obbligo di repechage viene meno proprio perché in contrasto con tale necessità.

Sanzioni per il datore di lavoro

Il datore di lavoro che attua un licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza impegnarsi nel ripescaccio può essere sanzionato in diversi modi  a seconda della data del contratto di lavoro. Naturalmente la sanzione è prevista laddove il giudice ritenga che vi fossero le condizioni per il repechage del lavoratore. Per i rapporti di lavoro nati prima del 7 marzo 2015 si applica l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori. Se vi è una manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo c’è il diritto al reintegro nel posto di lavoro, dove non vi sia tale manifesta insussistenza invece c’è solo il risarcimento nella misura massima di 12 mensilità.

Per i rapporti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 invece non è previsto il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro ma una tutela risarcitoria di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio e comunque non inferiore a 6 mensilità e non superiore a 36 mensilità.

Licenziamento: il datore di lavoro deve sempre indicare i motivi del recesso

Oggi ci addentreremo nel mondo del lavoro e nel termine ultimo dello stesso. Ovvero, nel licenziamento, se e quando il datore di lavoro deve indicare necessariamente i motivi del recesso. Scopriamolo assieme.

Licenziamento, i motivi del recesso

Innanzitutto, andiamo a specificare cosa si intende per recesso e quando si può parlare di licenziamento per giusta causa.

Possiamo, in tal senso, subito dire che il recesso è l’atto con il quale una delle parti può sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale, in deroga al principio sancito dall’art. 1372 c.c. secondo il quale il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso o per le altre cause ammesse dalla legge.

Quando si parla di recesso per giusta causa si intende l’avveramento di un fatto di gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il prestatore.

Andiamo, dunque, successivamente al nocciolo della nostra questione, quindi alla domanda essenziale della nostra mini guida.

I motivi del recesso vanno sempre indicati?

Sostanzialmente, la risposta a questa domanda è “si”. Ovvero, il datore di lavoro è tenuto a specificare i motivi del recesso del contratto, quindi a motivare il proprio licenziamento al dipendente.

Di fatto, stando ai sensi dell’articolo 2, comma 2, della Legge n. 604 del 1966, “il lavoratore può chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso: in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto”.

La sostanza non cambia anche nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto. In tal caso, infatti, a fronte della richiesta del lavoratore di conoscere i periodi di malattia, il datore di lavoro deve provvedere ad indicare i motivi del recesso.

Va aggiunto che laddove il datore di lavoro non abbia provveduto autonomamente ad indicare i motivi posti alla base del licenziamento, l’obbligo di motivazione scatta soltanto a seguito della richiesta da parte del datore di lavoro.

C’è un solo esclusivo caso in cui il datore di lavoro può omettere i motivi del recesso.

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Quando il datore può evitare i motivi del recesso?

La risposta a questa domanda è inscritta nel periodo di prova.

Infatti, contrariamente a ciò che accade col normale rapporto di lavoro, il datore di lavoro può recedere sia durante che alla scadenza del periodo di prova senza dover fornire motivazioni. Non sussiste quindi l’obbligo di indicare una «giusta causa» o comunque un «giustificato motivo soggettivo o oggettivo» nella lettera di licenziamento che sarà presentata al dipendente.

In tal caso, il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, va comunicato rispettando determinate forme e regole (come la lettera scritta, tempi di consegna, etc.), sancite prima di tutto nell’articolo 2096 c.c. e poi nel CCNL.

Licenziamento per periodo di comporto, di cosa si tratta

Il periodo di comporto non è altro che quel periodo massimo da tenere conto, in cui il lavoratore è assente dal lavoro per malattia. E, al superamento del limite previsto di tale assenza, può scattare il licenziamento.

A tal proposito, il licenziamento per superamento del periodo di comporto, quindi in merito alle assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087, c.c.) o di specifiche norme.

Questo è quanto, dunque, vi fosse di più necessario, utile e sostanziale da sapere in merito alla recessione del contratto di lavoro, quindi al conseguente licenziamento con necessità di indicare i motivi del recesso da parte del datore di lavoro.

Non vi resta che tornare al lavoro, consci della nostra guida.

Categoria protetta e licenziamento: è possibile licenziare il dipendente?

Nel mondo del lavoro esistono particolari tutele, come quelle delle categorie protette. Si tratta della tutela più importante prevista dal Diritto del Lavoro ed è relativa all’inserimento di un numero di posti riservato alle persone appartenenti a questa categoria.

Le categorie protette sono previste dalla legge n. 68 del 1999, in cui vi rientrano tutte le persone affette da disabilità o invalidità. Ci riferiamo agli invalidi di guerra e civili di guerra, ai non udenti, non vedenti, invalidi per servizio, ma anche orfani e coniugi di grandi invalidi o deceduti in guerra o lavoro, coniugi e figli di profughi italiani rimpatriati.

Puoi leggere anche l’approfondimento su: chi ha diritto all’assunzione come categoria protetta.

E’ possibile licenziare un lavoratore in categoria protetta?

Quanto sopra indicato, vuol dire che non è possibile licenziare un lavoratore appartenente a una categoria protetta? La risposta è “NO”. In realtà, è possibile licenziare un dipendente che rientra nelle predetta categoria, ma solo in determinati casi. E’ l’art. 10 della legge sopra indicata a disciplinarlo. Inoltre, a chiarire la situazione è intervenuta più volte la Corte di Cassazione con l’emissione di precise sentenze.

I casi in cui si può licenziare un dipendente in categoria protetta

Tutti i lavoratori, e non fanno eccezioni i dipendenti appartenenti alle categorie protette, possono essere licenziati per giusta causa. Ricordiamo che essa ricorre quando il lavoratore alle dipendenze di un datore di lavoro, assume un grave comportamento tale o si mostra inadempiente da non permettere la prosecuzione del rapporto di lavoro, in quanto viene scalfita irrimediabilmente il rapporto di fiducia. E’ pur vero, che spetta sempre al tribunale stabilire la sussistenza dei fatti.

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Il dipendente appartenente alle categorie protette può essere licenziato anche per giustificato motivo oggettivo e soggettivo. Quindi, per necessità di riduzione del personale da parte del datore di lavoro o per l’aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore, tale da non consentire la prosecuzione dell’attività e contemporaneamente non sussiste la possibilità di affidargli un’altra mansione per ricollocarlo in un altro settore o reparto dell’azienda.

Tuttavia, è bene precisare che il licenziamento per riduzione del personale o per giustificato motivo oggettivo può venire annullato se, in seguito al licenziamento, il numero dei dipendenti alle categorie protette assunti è minore della quota di riserva, così come stabilito dall’art. 3 della legge n. 68 del 1999.

Aggravamento

Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute del dipendente appartenente alle categorie protette oppure a causa di rilevanti modifiche nell’organizzazione aziendale, il datore di lavoro può chiedere agli organi competenti l’accertamento dell’idoneità del dipendente alla mansione. Se il lavoratore alle sue dipendenze non dovesse risultare idoneo, quest’ultimo acquisisce il diritto alla sospensione dal lavoro senza ricevere alcun stipendio, sino al momento in cui le condizioni di salute dovessero migliorare e rendere possibile un reinserimento.

Diversamente, se l’aggravamento resta tale, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, in quanto non consente al dipendente in categoria protetta di far fronte alla propria attività di lavoro, quindi, diventa impossibile reinserirlo anche in altri reparti aziendali, il licenziamento è legittimo. Lo stesso discorso vale dopo le variazioni avvenute all’interno dell’organizzazione del lavoro, nonostante tutti i tentativi di reinserimento per lo svolgimento di altre mansioni.

A supporto della legge sono arrivate anche delle sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione Civile che ha dichiarato legittimo il licenziamento di dipendenti appartenenti alle categorie protette, una volta dimostrata l’impossibilità del dipendente anche a svolgere compiti lavoratori minori.

Licenziamenti collettivi

I lavoratori appartenenti alle categorie protette sono tutelati qualora sia attuata una riduzione del personale da parte del datore di lavoro, licenziamento collettivo, o soppressione del posto di lavoro avvenuto per ragioni economiche. Infatti, in tali casi, il dipendente non può essere licenziato se, a seguito di questa decisione, in azienda resta un numero di lavoratori affetti da disabilità o invalidità, inferiore alla quota di riserva prevista dalla legge suddetta.

La madre lavoratrice può essere licenziata?

La legge prevede una serie di tutele per le madri lavoratrici. Ma questo vale anche in caso di licenziamento? Approfondiremo l’argomento in questo articolo, dedicando una parte di esso alle dimissioni e al diritto al rientro.

Divieto di licenziamento della madre lavoratrice

Il datore di lavoro non può licenziare una sua lavoratrice a partire dall’inizio dello stato interessante e fino a quando il figlio compie il primo anno d’età. Lo ha stabilito il Decreto Legislativo n. 151 del 2001. Il divieto è correlato con lo stato oggettivo di gravidanza, quindi, anche nel caso in cui il datore di lavoro non sia al corrente di tale stato della lavoratrice.

Infatti, basta l’esibizione di un’idonea certificazione che dimostri come all’atto del licenziamento la lavoratrice fosse incinta, quindi, non licenziabile.

Il licenziamento della lavoratrice avvenuto in condizione oggettiva di gravidanza e puerperio è da ritenersi nullo. In tal caso, la stessa acquisisce il diritto al ripristino del rapporto di lavoro.

Un’altra situazione per cui è considerato nullo il licenziamento, ricorre nel caso di richiesta o fruizione del congedo parentale e in quello di malattia del figlio.

E’ fatto divieto di licenziamento anche del padre lavoratore, quando beneficia del congedo di paternità e per tutta la sua durata. Esso viene esteso fino a quando il bambino compie un anno d’età.

Altresì, il divieto di licenziamento sussiste anche in caso di affidamento e di adozione, fino a un anno dall’ingresso in famiglia del minore, e qualora si fruisca del congedo di maternità e di paternità.

Nel lasso di tempo in cui opera il divieto di licenziamento, il datore di lavoro non può sospendere la lavoratrice, eccezion fatta per sospensione dell’attività aziendale o del ramo d’azienda in cui la lavoratrice è impiegata. Altresì, non può essere posta in mobilità in conseguenza di un licenziamento collettivo, eccetto che sia avvenuto per chiusura dell’attività dell’azienda.

Quando è possibile licenziare una madre lavoratrice

Tuttavia, esistono dei casi in cui il licenziamento non è vietato, ecco quali:

  • per colpa grave da parte della lavoratrice, che rappresenta “giusta causa” per la cessazione del rapporto di lavoro;
  • per chiusura dell’attività aziendale in cui lavoratrice è impiegata;
    per conclusione dell’attività lavorativa per cui la lavoratrice è stata assunta o per sopraggiunta cessazione del rapporto di lavoro dovuta alla scadenza del termine prefissato in sede contrattuale;
  • per esito negativo della prova, fatto salvo che ciò non avvenga per motivi discriminatori stabiliti dalla Legge n. 125 del 1991, articolo 4.

In caso di mancata sussistenza dei casi sopra indicati, il licenziamento effettuato nel periodo in cui vige il divieto è da considerarsi nullo e la lavoratrice beneficia delle tutele previste dai primi tre commi dell’articolo 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012, in caso di assunzione antecedente il 7 marzo 2015.

In caso la lavoratrice sia stata assunta a partire dal 7 marzo 2015, beneficia delle tutele stabilite dall’articolo 2 del DL n. 23 del 2015.

Il contenuto delle suddette norme sono sostanzialmente uguali, in quanto, entrambe stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla reintegrazione piena. Ma in cosa consiste questo tipo di tutela? Scopriamolo qui di seguito:

  • il datore di lavoro è tenuto a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro;
  • il datore di lavoro è obbligato a risarcire il danno subito dalla lavoratrice, per il periodo di retribuzione maturata tra il giorno del licenziamento e il giorno del reintegro. Nel caso la lavoratrice abbia incassato dei compensi derivanti da un altro lavoro, il relativo importo va sottratto. Ad ogni modo, l’entità del risarcimento deve corrispondere ad almeno cinque mensilità;
  • il datore di lavoro deve versare i contributi di previdenza e di assistenza relativamente al periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello della reintegrazione del posto di lavoro;
  • il cosiddetto diritto di opzione a favore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in sostituzione del reintegro, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

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Dimissioni della madre lavoratrice

La lavoratrice incinta può rassegnare le dimissioni che, tuttavia, hanno bisogno di ricevere la convalida da parte degli Ispettori del Lavoro e del servizio di politiche sociali competente del territorio.

Le dimissioni devono essere convalidate dai suddetti servizi, anche nel caso in cui siano presentate dalla lavoratrice come dal lavoratore nei primi tre anni di vita del figlio, o nei primi tre anni di ingresso nel nucleo familiare del minore in affidamento o adottato. In assenza di tale convalida, l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro è sospesa.

Qualora non venga accertata la volontà di richiesta di dimissioni tramite la suddetta convalida, esse sono da ritenersi nulle, a prescindere dalla conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di maternità della lavoratrice.

Per dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.

Inoltre, la legge in vigore stabilisce che la lavoratrice e il lavoratore che rassegnano le dimissioni nel periodo in questione non sono obbligati a dare il preavviso al datore di lavoro. Lo stesso vale per il lavoratore padre che ha beneficiato del congedo di paternità e nel caso di affidamento o adozione, entro un anno dall’accoglienza del minore nella famiglia.

Conservazione del posto di lavoro

Quando si conclude il periodo di congedo di maternità o di paternità, la lavoratrice o il lavoratore hanno diritto al rientro nel posto di lavoro e con la stessa mansione, o equivalente occupata prima dell’inizio della gravidanza, permanendovi fino al compimento di un anno d’età del bambino.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando è possibile?

Un rapporto di lavoro che non prevede un termine, si considera estinto quando vi pone fine una delle due parti stipulanti l’accordo. Se a recedere dal contratto è il datore di lavoro, ecco che si configura il licenziamento.

Quando un datore di lavoro prende la decisione di licenziare un proprio dipendente, l’interruzione unilaterale può essere dovuta per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo. Entrambi i casi sono riconducibili a motivi disciplinari, ovvero a un comportamento doloso o negligente contestato al lavoratore dal datore di lavoro.

Diversamente da quanto sopra indicato, la causa del licenziamento può essere rappresentata da una motivazione non imputabile alla condotta del lavoratore. In tal caso, il recesso unilaterale dal contratto da parte del datore di lavoro avviene per giustificato motivo oggettivo, ossia per ragioni strettamente correlate all’attività di produzione dell’azienda.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: in cosa consiste

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di uno o più dipendenti si concretizza in relazione alla vita economica dell’azienda. Il datore di lavoro si rende conto che una determinata mansione o prestazione lavorativa non è più utile ai fini produttivi e decide di sopprimerla per riorganizzare il lavoro, per gestire in modo ottimale un’eventuale crisi aziendale.

Per poter sussistere la ragione sopra indicata di licenziamento, il datore di lavoro deve dimostrare che il lavoratore o i lavoratori licenziati non sono in grado di svolgere altre mansioni simili o inferiori a quelle tagliate dall’azienda. Il licenziamento viene riconosciuto solo in presenza di motivazioni tangibili.

La sussistenza del motivo oggettivo di licenziamento è rimessa alla valutazione e alla discrezionalità del datore di lavoro, in quanto considerata un’espressione del principio di libertà d’impresa. In questo senso, il giudice non può contestare i criteri di gestione dell’azienda, ma può verificare l’effettiva sussistenza del motivo di recesso.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: i casi rappresentativi

I casi di seguito indicati possono rappresentare giustificato motivo oggettivo:

  • la cessazione dell’attività di produzione;
  • la soppressione della posizione lavorativa;
  • l’introduzione di nuovi macchinari che comportano minori interventi da parte dell’uomo;
  • l’affidamento di servizi ad imprese esterne.

Al licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono assimilabili quello per superamento della durata di malattia, infortunio, gravidanza, puerperio e per sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni.

Le motivazioni che giustificano il licenziamento devono sussistere effettivamente al momento in cui il medesimo viene intimato, altrimenti il licenziamento viene considerato nullo. Se il datore di lavoro, nelle settimane successive al licenziamento, procede all’assunzione di nuovi lavoratori destinati a svolgere le mansioni esercitate dai dipendenti licenziati, scatta la presunzione di illegittimità del licenziamento. Quest’ultimo può essere contestato in giudizio da parte dell’ex dipendente, ma si deve precisare che se ad essere assunti sono lavoratori stagionali, la giurisprudenza ritiene tali assunzioni irrilevanti.

Illegittimità del licenziamento

Qualora venga contestato il licenziamento per presunta illegittimità, il datore di lavoro dovrà dimostrare la sussistenza delle ragioni tecniche e organizzative e l’impossibilità di adibire al dipendente licenziato un’attività equipollente o inferiore all’interno dell’azienda.

Il datore di lavoro deve scegliere il dipendente da licenziare, sempre in buona fede e in base a criteri di correttezza. Motivo per cui, è da considerarsi illegittimo il licenziamento per ragioni discriminatorie, ovvero di genere, di razza, di religione etc.

Sul datore di lavoro grava l’obbligo di repêchage che consiste nell’obbligo di ricollocare il lavoratore ad altra mansione equivalente o inferiore al fine di evitare il licenziamento. È esteso a tutte le sedi dell’azienda ed è perciò responsabilità del datore di lavoro fornire la prova dell’impossibilità di ricollocamento del lavoratore non solo presso la sede di lavoro dove svolge la sua prestazione lavorativa, ma anche presso le altre eventuali unità locali.

Le ipotesi di libero recesso

Esistono dei casi in cui il datore di lavoro può recedere unilateralmente dal contratto, anche senza motivazione. Stiamo parlando del licenziamento di lavoratori in prova, di apprendisti quando termina il periodo di apprendistato, di lavoratori domestici, di lavoratori che hanno ottenuto i requisiti per accedere alla pensione, di dirigenti (salvi i limiti eventualmente previsti dal contratto collettivo), di atleti professionisti.

La riorganizzazione del lavoro che giustifica il licenziamento può riguardare:

  • la soppressione della posizione lavorativa e delle mansioni cui era adibito il lavoratore;
  • l’esternalizzazione a terzi dell’attività cui era addetto l’ex dipendente;
  • il perseguimento di una migliore efficienza gestionale o produttiva, ovvero l’incremento della redditività;
  • una diversa ripartizione delle mansioni fra il personale, con lo scopo di realizzare una gestione dell’azienda più efficiente e profittevole;

senza che, con riguardo a tali modifiche, siano sindacabili i profili di congruità e opportunità delle scelte datoriali, sussistendo le motivazioni addotte dall’imprenditore a giustificazione del recesso e incidendo proprio sulla posizione lavorativa interessata dal licenziamento, qualificandosi in termini di causa efficiente del medesimo.

La giurisprudenza è orientata a ritenere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche in assenza di una situazione di crisi aziendale o di difficoltà in ambito economico-patrimoniale, dovendosi limitare la verifica del giudice alla effettività della riorganizzazione precedente il licenziamento.

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Per quali motivi si può essere licenziati: i casi nel dettaglio

In un recente articolo abbiamo sottolineato come anche un dipendente assunto a tempo indeterminato, può essere licenziato. Ovviamente, trattandosi di una forma di contratto che più di tutte le altre offre maggiore tutela al lavoratore, la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare è legata a motivi ben precisi e limitati.

Tali motivazioni sono rappresentate da comportamenti o condotte condannabili dal punto di vista disciplinare, per dolo o negligenza. Oppure sono da ricondurre all’azienda, in relazione all’andamento dell’attività, all’entrata in crisi del mercato in cui opera, o ancora per il taglio di una o più mansioni e via discorrendo.

Elencando le due cause principali che portano il datore di lavoro a licenziare uno o più dipendenti, individuiamo: il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo. Nel primo caso esso avviene in tronco, ossia immediatamente; il secondo caso, invece, prevede un preavviso. Ma entriamo nel dettaglio.

Il licenziamento per giusta causa

Il licenziamento per giusta causa avviene per motivi disciplinari, si tratta della forma più grave in cui il rapporto di lavoro cessa dal giorno dopo la comunicazione del datore di lavoro. Il preavviso non è previsto in quanto la condotta lesiva del dipendente non consente la prosecuzione della sua attività lavorativa.

Ma quali sono i comportamenti che determinano il licenziamento per giusta causa?

Contrariamente a quanto si possa credere, gli esempi sono tanti. La violazione della clausola contrattuale riguardante il patto di non concorrenza e la divulgazione di segreti aziendali. La falsa malattia e la reiterata assenza alle relative visite domiciliari di controllo dell’INPS. L’assenteismo ripetuto e senza giustificazione dal lavoro, l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro che ha conseguenze gravi per l’azienda o il cliente.

La falsificazione del proprio badge o del collega, uscita anticipata reiterata dal lavoro, ripetuta violazione delle direttive del datore di lavoro e mancato rispetto delle prerogative gerarchiche aziendali. Rifiuto reiterato di effettuare trasferte, sottrazione alla svolgimento di determinate mansioni e altre manifestazioni di insubordinazione.

Il dipendente viene licenziato in tronco per giusta causa, anche per minacce effettuate nei confronti del suo datore, per mobbing nei confronti dei colleghi o per furto ai danni dell’azienda. E ancora, per diverbio caratterizzato da ricorso alla violenza comportante un pregiudizio fisico, opposizione alla richiesta di svolgere lavoro straordinario, reazione sia fisica che verbale nei confronti del diretto responsabile.

Continuiamo la nostra carrellata con le gravi condanne penali che possono danneggiare l’immagine dell’azienda, effettuazione di accessi alla rete web utilizzando strumenti aziendali per scopi estranei all’azienda, in favore di terzi e con impegno personale; diffamazione sui social nei confronti del datore di lavoro, dell’azienda o dei prodotti della medesima.

Poi ci sono gli abusi per scopi personali con riferimento al cellulare, alla scheda carburante, alla carta di credito aziendale per i rifornimenti di carburante, alla connessione internet tramite il pc assegnato in dotazione.

Occorre precisare che non tutti i casi indicati dai contratti collettivi come ipotesi di licenziamento per giusta causa sono applicabili alla lettera. Infatti, la lista redatta fornisce solo degli esempi, ma spetta al giudice valutare la sussistenza di una grave inadempienza o di una pessima condotta del dipendente, contraria alle norme della comune etica o del comune vivere civile. Il compito del giudice è anche quello di contestualizzare il comportamento del lavoratore ritenuto grave dal datore, cercando di capire se il medesimo ha compromesso il rapporto di fiducia preesistente tra le due parti costituendo giusta causa di licenziamento.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo riguarda motivi disciplinari. In tal caso, la condotta tenuta dal dipendente è meno grave rispetto alla giusta causa, tanto da prevedere la prosecuzione del rapporto di lavoro temporanea, ossia per tutta la durata del preavviso. Quest’ultimo può essere sostituito dal datore con il pagamento di un’indennità al lavoratore che gli consentirebbe di licenziarlo con effetto immediato.

Licenziare il lavoratore per giustificato motivo soggettivo, trova applicazione per scarso rendimento dello stesso, per ripetuto abbandono del posto di lavoro quantunque non abbia procurato gravi danni all’azienda, per la mancata custodia dei beni patrimoniali dell’azienda causa negligenza. Inoltre, per diniego allo svolgimento di mansioni di livello inferiore pur mantenendo la stessa retribuzione, come alternativa al licenziamento, oppure per diniego allo svolgimento di mansioni ritenute pesanti.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Come già accennato poc’anzi, il licenziamento può avvenire per motivi legati all’azienda, inerenti la produzione, l’organizzazione e il suo funzionamento. Tali ragioni trovano fondamento in una scelta dell’imprenditore concernente il lato economico o quello tecnico e produttivo, o ancora per sopravvenuta infermità per cause indipendenti dal lavoro.

Entrando nello specifico, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può avvenire per il taglio dei costi allo scopo di ottenere guadagni maggiori. Per ottimizzare la distribuzione delle mansioni assegnate al lavoratore attribuendo le medesime prevalentemente a un suo superiore. Per esternalizzazione del servizio, per innovazione tecnologica e sostituzione dei dipendenti con software o robot, per stato di insolvenza prefallimentare, per crisi aziendale o del settore e per soppressione del posto o del reparto cui è addetto il dipendente.

La lista continua con la cessione di un ramo aziendale, con la chiusura del ramo di un’azienda o per cessazione dell’attività di produzione.

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Quanto costa licenziare un dipendente a tempo indeterminato nel 2021?

In un precedente articolo, abbiamo visto quali sono i motivi per cui un datore di lavoro può licenziare un dipendente assunto con un contratto a tempo indeterminato. Entrando nello specifico di alcuni casi, si è fatto presente quando sussiste l’obbligatorietà o la facoltà di reintegro del lavoratore, con la relativa scelta da parte del datore di lavoro, in quest’ultimo caso, di evitarlo preferendo il pagamento di un’indennità.

Restando in tema, stavolta ci occupiamo di quanto costa a un datore di lavoro licenziare un lavoratore che ha diritto all’indennità di disoccupazione Naspi.

Il ticket licenziamento 2021

Quando il datore licenzia un suo dipendente titolare di un contratto a tempo indeterminato, entra in gioco il ticket licenziamento che consiste in un contributo da versare all’INPS. Nel 2021, l’importo relativo è fissato nella misura di 503,30 euro, ossia il 41% del massimale disoccupazione, che varia a seconda di quanto tempo il lavoratore licenziato è rimasto in azienda da 1/12 fino ad un massimo di tre anni.

Per il 2021 l’ammontare del ticket di licenziamento non può superare i 1509,90 euro (503,30 € x 3 anni), qualora l’anzianità di servizio conseguita sia di almeno 36 mesi. Identico importo del contributo, quindi in misura piena, è dovuto anche al lavoratore assunto a tempo indeterminato ma con un contratto part-time.

E’ da tenere presente che l’ammontare del massimale di disoccupazione mensile viene stabilito ogni 12 mesi dall’INPS per ciascun anno di anzianità aziendale raggiunta dal lavoratore licenziato negli ultimi tre anni.

L’obbligo di versamento del suddetto contributo Naspi ricorre anche in caso di licenziamenti di tipo collettivo. Addirittura, l’importo è triplicato nel caso la dichiarazione di esubero del personale non sia stata oggetto di un accordo con i sindacati. Il ticket è dovuto dal datore di lavoro anche se il licenziamento a seguito di accordo collettivo aziendale escluso dal blocco dei licenziamenti stabilito nell’era Covid.

La funzione del contributo Naspi

L’introduzione del ticket licenziamento è stato introdotto al fine di scoraggiare il datore di lavoro a prendere tale decisione, ma soprattutto per finanziare l’indennità di disoccupazione. Il contributo Naspi va pagato tramite il modello F24 insieme agli altri contributi di previdenza e di assistenza entro il 16 del mese successivo, questo a prescindere dalla richiesta di Naspi effettuata dal dipendente licenziato.

Quando va pagato il ticket licenziamento

Il contributo Naspi, come già accennato si concretizza con la cessazione del rapporto di lavoro che dà diritto al lavoratore di accedere all’indennità di disoccupazione. Premesso che, il ticket riguarda i licenziamenti dovuti a giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ci sono altri casi che prevedono il versamento del contributo Naspi da parte del datore di lavoro.

Stiamo parlando di dimissioni per giusta causa o intervenute nel periodo di maternità sotto tutela. Rientra nei casi diversi dal licenziamento, anche la risoluzione consensuale del contratto avvenuta dopo la conciliazione obbligatoria presso la Direzione Territoriale del Lavoro, quando il datore vuole licenziare il dipendente per giustificato motivo oggettivo. Oppure per risoluzione consensuale intervenuta a seguito del rifiuto del lavoratore di trasferirsi in un’altra unità di produzione aziendale distante più di 50 chilometri dalla sua residenza o comunque raggiungibile in più di 1 ora e 20 minuti tramite mezzi pubblici.

O ancora, il contributo Naspi è dovuto anche nel caso di mancata trasformazione del contratto di apprendistato in quello a tempo indeterminato. Inoltre, il datore è tenuto al versamento del ticket anche in caso di abbandono del posto di lavoro da parte del dipendente e anche quando il licenziamento è conseguenza della chiusura dell’attività.

Il contributo Naspi nei licenziamenti collettivi

Il contributo è dovuto anche nei licenziamenti collettivi, ricorrenti ogni volta che un’azienda con più di 15 dipendenti decide di licenziarne almeno cinque nel giro di 120 giorni. Il motivo è dato dalla riduzione del personale, ristrutturazione dell’organizzazione aziendale o chiusura dell’attività.

L’importo del ticket è lo stesso previsto per i licenziamenti individuali, fatto salvo il caso in cui la dichiarazione di esubero del personale avviene in mancanza di un accordo sindacale, nel quale l’importo è triplicato.

Quando i licenziamenti collettivi sono applicati nell’ambito della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, il contributo da versare viene raddoppiato, passando dal 41% all’82% del massimale disoccupazione.

Ticket di licenziamento imprese edili

Qualora il licenziamento dovesse riguardare il settore edilizio, la situazione cambia in alcuni casi con riferimento al contributo Naspi. Infatti, il datore è esonerato dal pagamento del ticket di licenziamento se l’interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato avviene per il completamento delle attività e chiusura del cantiere. A tal proposito, l’INPS ha fornito dei chiarimenti in merito alla deroga prevista per il versamento del contributo Naspi. Per saperne di più, fare riferimento al messaggio 3933 del 24 ottobre 2018.

Se vuoi approfondire l’argomento indennità di disoccupazione, puoi leggere anche: Naspi 2021: cos’è, requisiti, durata, calcolo, quando decade e domanda

Chi ha un contratto a tempo indeterminato può essere licenziato?

Essere assunto con un contratto a tempo indeterminato, soprattutto in tempi di crisi economica, è sinonimo di maggior tutela e stabilità per il lavoratore. Tale rapporto di lavoro prevede principalmente un obbligo per ciascuna dei due soggetti sottoscrittori. Da una parte, il dipendente si impegna a svolgere la propria prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro e attenendosi rigorosamente alle sue direttive. Dall’altra, il datore di lavoro si impegna a corrispondere con una retribuzione il lavoratore.

Per approfondire l’argomento, leggi anche: Contratto di lavoro, cosa fare prima di firmarlo?

E’ possibile licenziare un dipendente assunto a tempo indeterminato?

Abbiamo accennato poc’anzi, come il contratto a tempo indeterminato sia quello che offre più garanzie al lavoratore rispetto a tutte le altre tipologie. Ma questo vuol dire che il datore di lavoro non può licenziare un suo dipendente? La risposta è “no”.

Nonostante le ampie tutele di cui gode il dipendente, sono previsti alcuni casi in cui il datore di lavoro ha facoltà di licenziarlo. D’altronde, se non fosse stato possibile, di assunzioni a tempo indeterminato ne avremmo viste ben poche. Ovviamente, la legge prevede che i motivi per cui un datore di lavoro o un imprenditore possa procedere al licenziamento di un proprio lavoratore, siano non certamente banali, tutt’altro. Ma scopriamo quali sono.

Licenziamento per giusta causa

Il datore di lavoro può licenziare il suo dipendente assunto con un contratto a tempo indeterminato per motivi disciplinari. In questo caso, si configura il licenziamento per giusta causa. Più precisamente, ciò accade quando il lavoratore ha avuto una condotta molto grave, tale da non per permettere la prosecuzione dell’attività lavorativa, nemmeno in via temporanea. Ad esempio, un dipendente che ha tenuto un comportamento lesivo nei confronti del suo datore di lavoro o di altri lavoratori. Oppure, se il dipendente si è reso protagonista di un furto in azienda. In questi casi, il datore di lavoro non è tenuto a dare alcun preavviso, per cui il licenziamento ha effetto immediato.

Licenziato per giustificato motivo soggettivo

Il lavoratore assunto a tempo indeterminato può essere licenziato anche per giustificato motivo soggettivo. Ossia, quando il dipendente ha tenuto un comportamento abbastanza grave, anche se meno del precedente. Come per il licenziamento avvenuto per giusta causa, anche in questo caso si configura l’impossibilità di continuare il rapporto di lavoro. Ad esempio, quando il lavoratore abusa dei permessi o quando ha superato il limite previsto per i permessi causa malattia. Nel caso in cui il dipendente non si sia fatto trovare in casa per più volte al momento delle visite fiscali INPS, il licenziamento può essere ritenuto un provvedimento consono. In questo caso, il datore di lavoro deve concedere un preavviso e, fino al licenziamento, il lavoratore può proseguire il suo lavoro con diritto alla retribuzione.

Condotta grave o lesiva a parte, il dipendente a tempo indeterminato può essere licenziato nel caso di ristrutturazione o di crisi dell’azienda. Nel primo caso, l’imprenditore è alle prese con un processo di cambiamento dell’organizzazione aziendale. Nel secondo caso, il datore di lavoro è costretto a fermare l’attività lavorativa dell’impresa, o anche di un ramo specifico, o procedere, sempre causa crisi economica, alla riduzione del personale dipendente.

Quando si verifica una ristrutturazione aziendale, anche se non dovuta a una crisi economica, il datore di lavoro deve avvisare i dipendenti del cambiamento o del taglio di una o più mansioni. In tal caso, prima di licenziare è necessario verificare se il lavoratore che subisce questo provvedimento, può essere adattato alle mansioni mantenute dal datore di lavoro. Anche perché, quest’ultimo non può assumere un altro dipendente avente la stessa mansione del lavoratore licenziato.

Ricorso contro il licenziamento

Il dipendente licenziato può opporsi al licenziamento ricorrendo in tribunale contro la decisione del datore di lavoro. Qualora il giudice ritenesse il licenziamento illegittimo, la legge non prevede più il reintegro automatico del lavoratore dopo la modifica avvenuta dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda. Pertanto, il reintegro resta nella facoltà del datore di lavoro.

In realtà, il datore di lavoro deve decidere se reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato o pagare un’indennità stabilita dal giudice compresa tra 12 e 24 mensilità. L’anzianità del dipendente incide sul numero di mensilità che il datore di lavoro dovrà corrispondergli. Tuttavia, è fondamentale precisare che per i lavoratori assunti con un contratto a tempo indeterminato in data antecedente il 7 marzo 2015, reintegrare i dipendenti licenziati per giusta causa o giustificato motivo è d’obbligo.

L’obbligo di reintegrare il dipendente si concretizza solo nel caso il licenziamento non abbia alcun motivo valido. Ad esempio, quando il comportamento lesivo o il furto imputato al lavoratore accusato non trova alcun riscontro, spetta a quest’ultimo dimostrare l’insussistenza dell’accusa. Il licenziamento è considerato non valido e prevede, quindi, il reintegro obbligatorio, anche quando il dipendente dimostra la natura discriminatoria del licenziamento, che sia essa razziale, religiosa, etnica. Oppure, quando viene licenziata una donna in stato di gravidanza.

Nei suddetti casi, ossia quando il licenziamento è considerato nullo, oltre al reintegro del dipendente è previsto anche il risarcimento del danno correlato alla retribuzione persa.

Licenziamento senza preavviso: quali obblighi?

Molti si chiedono, in un mondo del lavoro sempre più controverso e complesso, come e quando si può rischiare il licenziamento senza preavviso. Oggi, con questa rapida ed esaustiva guida, andremo a scoprire insieme quali obblighi ci sono per emettere un licenziamento senza preavviso.

Licenziamento senza preavviso: quali cause possibili

Innanzitutto, partiamo col dire che con licenziamento senza preavviso si intende l’interruzione unilaterale del rapporto di lavoro senza tenere conto del periodo di preavviso imposto dalla legge. La legge impone al datore di lavoro, infatti, di comunicare la propria decisione al dipendente con un certo anticipo, così da permettergli nel frattempo di cercare un’altra occupazione.

La durata di tale tempo di preavviso, ovvero quel tempo che intercorre tra la comunicazione e l’ultimo giorno effettivo di lavoro del dipendente, è stabilita dal contratto collettivo applicato. Solitamente espressa in giorni di calendario e variabile a seconda dell’anzianità aziendale e del livello di inquadramento del dipendente.

Il lavoratore può essere licenziato senza preavviso?

Molti si chiedono, tuttavia, se può esserci un licenziamento senza preavviso. Una sorta di inadempienza a quella legge che impone il preavviso verso il licenziato. La risposta a questo rischio è sì. Il datore può licenziare senza preavviso il suo dipendente, ma in determinati casi soltanto.

In pratica, il mancato preavviso può esserci sia al termine del periodo di prova del lavoratore, sia nel caso di comportamenti gravi dello stesso, tali da integrare una giusta causa di licenziamento. In tutti gli altri casi, compresa l’ipotesi del fallimento dell’azienda, invece è sì possibile il licenziamento senza preavviso, ma al dipendente dovrà essere corrisposta, l’indennità sostitutiva del preavviso al ricevimento dell’ultima busta paga.

Vediamo, nei casi specifici, come può avvenire un licenziamento senza preavviso.

Licenziamento nel periodo di prova

Qualora il datore volesse licenziare il dipendente alla fine (o durante) il periodo di prova può farlo senza preavviso, poiché non è stato ancora fatto alcun accordo tra le parti per il lavoro effettivo.

Al lavoratore in prova, il recesso potrà essere comunicato anche in forma orale. Anche durante il periodo di prova può verificarsi il caso di licenziamento illegittimo, come per esempio nel caso in cui il periodo di prova è stato breve così da impedire una idonea valutazione della capacità lavorativa del lavoratore. Ma, anche nel caso di licenziamento per motivi discriminatori o per l’invalidità del lavoratore.

Licenziamento per giusta causa

Il licenziamento per giusta causa è, come detto sopra, l’altra ipotesi in cui il datore può tranquillamente interrompere il rapporto di lavoro senza osservare il periodo di preavviso. Nel recesso di lavoro per giusta causa, il dipendente si rende colpevole di una condotta grave, al punto da ledere il vincolo di fiducia che lo lega al datore di lavoro, idoneo a non consentire la prosecuzione provvisoria del rapporto durante il periodo di preavviso.

La comunicazione, in tal senso, dovrà avvenire nei seguenti modi, da parte del datore di lavoro:

  1. consegnare al dipendente una lettera di contestazione disciplinare nella quale viene indicato il fatto che l’azienda considera una gravissima infrazione disciplinare;
  2. dare al dipendente un tempo minimo di 5 giorni o il tempo previsto dal CCNL per esporre le proprie giustificazioni scritte o per chiedere un consulto a sua discolpa;
  3. una volta ricevute e valutate le giustificazioni, il datore di lavoro dovrà consegnare al dipendente la apposita lettera di licenziamento contenente l’indicazione delle ragioni poste alla base del recesso contrattuale.

Come può difendersi, però, un lavoratore da un licenziamento per giusta causa che potrebbe non essere ritenuto giusto?

Il dipendente silurato dall’attività, può impugnare il licenziamento, entro un tempo di 60 giorni da quando ha ricevuto la lettera di licenziamento.

Entro un tempo di 180 giorni dalla data dell’impugnazione, il dipendente dovrà depositare presso il Giudice del lavoro un ricorso ed avviare una causa verso il datore.

In tal caso, il giudice stabilirà se il licenziamento sarà stato giusto o meno. E qualora il Giudice ritenesse illegittimo il licenziamento, quindi accogliendo il ricorso del lavoratore, ad esempio perché il fatto non è tanto grave, da condurre un licenziamento per giusta causa, oppure non vi sono prove del datore che confermino che il gesto grave sia stato compiuto, può condannare il datore di lavoro a versare al dipendente l’indennità sostitutiva del preavviso.

Dunque, ora che abbiamo visto quali sono le modalità e le occasioni di licenziamento senza preavviso, potete tornare al lavoro serenamente, sapendo che a meno che non siate in prova o non abbiate commesso qualche grave atto sul lavoro, avrete il giusto tempo per trovarvi un altro impiego, qualora al datore venisse in mente di licenziarvi. Sempre ammesso che, in tempi di crisi attuale, non sia costretto a farlo per fallimento aziendale, s’intende.