Investimenti e mercati finanziari dopo il referendum

Gli italiani hanno votato NO al referendum sulla riforma costituzionale del 4 dicembre.

Dal punto di vista politico, lo scenario è abbastanza complesso, tuttavia bisogna ricordare che due terzi dei deputati sono neoeletti, a cui scatta il diritto al vitalizio solo a fine 2017, e quindi sarà probabile un rimpasto, sostenuto dalla stessa maggioranza che ha legittimato Renzi a governare, con la sostituzione del leader e del governo, rimandando le nuove elezioni almeno dopo settembre del prossimo anno.

Di certo ci sarà un momento di smarrimento, poiché la nave senza il timoniere fa sempre fatica ad affrontare il mare, e in questo momento l’Italia è senza skipper.

È probabile un aumento dell’incertezza e della volatilità sui mercati finanziari, anche se le recenti elezioni americane hanno spiazzato tutte le previsioni circa la reazione negativa dei mercati. Soprattutto, per quanto riguarda i titoli bancari e i titoli di Stato Italiani, il rischio potrebbe aumentare notevolmente.

Come sempre, una buona pianificazione e una estrema attenzione a diversificare correttamente e a rendere gli investimenti efficienti ed ottimizzati, sono la migliore strategia per affrontare serenamente i mercati finanziari, in qualunque condizione si presentino.

Diversificare significa investire in settori e beni diversi, scarsamente correlati tra loro, con il fine di mantenere comunque costante il potere di acquisto del patrimonio.

I beni reali sono, per loro natura, poco correlati agli accadimenti dei mercati finanziari.

Non è detto che gli investimenti debbano essere per forza totalmente di tipo finanziario, anzi si può spaziare in molti beni reali che siano adatti alle esigenze di pianificazione, dall’oro ai terreni agricoli passando per gli oggetti d’arte. Cum grano salis.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Valute rifugio contro la crisi

I movimenti delle valute sono il risultato di componenti diverse. Ci sono

  • le aspettative del mercato;
  • le manovre dei grandi speculatori;
  • le decisioni delle banche centrali;
  • le politiche economiche;
  • la bilancia import/export;
  • le riserve valutarie detenute dagli Stati.

Un caso interessante di manovre di politica economica è quello della valuta cinese, lo YUAN o Renminbi. È sempre stata collegata al dollaro Usa ma fino al 2005 il tasso di cambio era bloccato a 8,2 Renminbi per 1 dollaro.

Poi la Banca Centrale Cinese ha deciso di lasciar fluttuare il cambio, ma tenendolo sempre vincolato ad oscillazioni massime di 2 punti percentuali rispetto al dollaro. Solo a partire dal 2015 la PBoC ha iniziato a far oscillare maggiormente il tasso, oltre i limiti del 2%. La debolezza dello YUAN potrebbe contribuire a migliorare le esportazioni cinesi, in crollo da un anno e mezzo.

In periodi di sfiducia, instabilità delle borse, incertezze economiche si riattivano i meccanismi di protezione e difesa del patrimonio e quindi c’è la rincorsa ai beni rifugio.

Alcune valute vengono considerate beni rifugio, come il dollaro Usa o il franco svizzero, ma anche valute del nord Europa come la corona norvegese. Quindi, le valute possono essere utilizzate per ridurre il rischio degli investimenti?

In alcuni momenti storici sì, ad esempio quando l’Italia era stata inserita nella lista dei Paesi europei di serie B e rischiava l’estromissione dall’Ue. La conseguenza sarebbe stata il ritorno alla lira, con effetti deprimenti sul cambio. Ricordate lo spread bund/btp intorno a quota 600 tra il 2011 e il 2012? Sono passati solo 4 anni…

Ora la situazione è più complicata di allora, perché sembra ipotizzabile addirittura una disgregazione dell’euro. Allora, forse, può valere la pena prendere in considerazione di investire in titoli di stato di Paesi “forti”, anche in zona euro, ma che in uno scenario di disgregazione vedrebbero convertire le proprie emissioni nelle valute originarie, rivalutate rispetto all’euro morente.

Non sto dicendo che questo è ciò che mi aspetto accada, ma forse una parte di investimenti in quella direzione potrebbe avere un senso. Qual è il rischio di diversificare in eccesso? Che ci si può trovare con tassi di cambio che si muovono in direzioni opposte: qualcuno sale e qualcuno scende, quindi annullano ogni effetto, effetto neutro.

Ma ci si può anche trovare con movimenti opposti rispetto a quelli ipotizzati, ad esempio l’area euro non si disgrega affatto ma anzi si fortifica, e quindi si possono accusare perdite dall’aver investito in valute diverse. È sempre questione di giusti equilibri e di manovre correttive nel tempo, non esiste nessuna ricetta segreta.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Investire in valuta ha senso?

Una delle possibili forme di diversificazione è l’investimento in valuta diversa dall’euro. In pratica, si scommette sulla variazione del tasso di cambio, entro un certo tempo, tra euro e valuta straniera.

Le possibilità di investimento sono diverse: si va dai fondi ed ETF in valuta a cambio aperto, che non hanno cioè protezioni del rischio cambio come invece hanno i fondi cosiddetti a valuta coperta (Hedged), alle obbligazioni e alle azioni espresse in valute diverse dall’euro, a ETF e fondi che investono solo nelle variazioni dei tassi di cambio ma espressi in euro, agli ETF a leva sul rapporto di cambio, ad ETF che investono sul rapporto invertito, cioè guadagnano se il tasso di cambio perde, semplici o a leva, al mercato Forex, dove si può investire direttamente nella valuta che si preferisce, ai future nelle diverse valute, ai certificati in valuta.

Per i fondi, ETF, obbligazioni e azioni espressi in altre valute, il rischio è connesso sia all’andamento del fondo o del titolo, sia all’andamento della valuta.

Per gli investimenti semplici nella sola valuta, il rischio è solo correlato all’andamento del tasso di cambio.

Più complessi sono invece i prodotti a leva o inversi, che cioè investono più di quello che si ha pagato, con effetto appunto LEVA sui risultati: possono essere leva 2, 3, 5 etc. Significa che si investono 1000 euro, ad esempio, ma si guadagna come se si fossero investiti 2000 (leva 2). Il difetto è che si perde nello stesso modo, quindi si può perdere più di quello che si è investito inizialmente.

Parlando di valute, l’andamento delle stesse è piuttosto imprevedibile e quindi il rischio di vedere i movimenti amplificati dall’effetto leva può diventare o un’opportunità di guadagno o una batosta memorabile.

Ad esempio, il franco svizzero guadagnò nel gennaio 2015 il 25% sull’euro in poche ore, subito dopo che la Banca Nazionale Svizzera decise di togliere la parità fissa a 1,20, per poi perdere terreno nel corso di un anno e mezzo per circa 10 punti percentuali. Prima della decisione, le idee su come si sarebbe evoluto il tasso di cambio erano opposte: chi pensava si sarebbe rivalutato e chi invece no.

Anche la storia non aiutava molto. Quando nel 2011 la BCS decise di fissare il limite massimo con l’euro a 1,20, la reazione fu prima di rivalutazione per poi portarsi alla soglia prefissata.

La sterlina inglese, invece, ha perso dal 23 giugno scorso a oggi, era del post Brexit, circa il 10%, e dal luglio 2015, quindi in un anno, circa il 17%. In questo caso era abbastanza prevedibile che se il Regno Unito fosse uscito dall’Ue, la sua valuta avrebbe accusato il colpo. Ma chi poteva prevedere che avrebbero vinto i LEAVE? Neppure i sostenitori dell’uscita sembrano crederci tuttora…

Domani parleremo di movimenti valutari e di valuta rifugio.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Spread: sentiment, mercati e debolezza di un Paese

Lo spread può quindi essere considerato un misuratore inversamente proporzionale della fiducia che i compratori hanno nei confronti dell’emittente; al crescere della fiducia, decresce lo spread e viceversa. Uno stato insolvente o in gravi difficoltà, dovrebbe ricorrere a manovre restrittive, come la riduzione della spesa pubblica o l’aumento della tassazione, con effetti collaterali deprimenti per l’economia e gli investimenti.

La distinzione andrebbe fatta anche tra mercato primario, cioè riservato a istituzionali (banche, fondazioni) o grandi investitori e mercato secondario, esteso a tutti, anche ai piccoli risparmiatori.

Il mercato secondario risente direttamente del “sentiment” (altra parola inglese per definire lo stato d’animo nei confronti di un evento) mentre quello primario ne è influenzato in misura molto minore. Solo se il sentiment negativo continua per molto tempo, anche il mercato primario ne prenderà atto.

Come mai allora gli Stati Uniti (treasury bond) hanno uno spread così elevato (160 circa) rispetto alla Germania? Sono un Paese meno solido e a maggior rischio fallimento? Bisogna ricordare che la Bce ci mette del suo, perché si è impegnata per riacquistare parte dei titoli Ue emessi, per sostenere i Paesi dell’Unione (il cosiddetto Quantitative Easing). Anche le manovre straordinarie di politica monetaria influenzano le valutazioni. Stessa cosa si può dire per la Fed, la Banca centrale americana.

Poi c’è la questione delle diverse valute, cioè le considerazioni in merito all’andamento del tasso di cambio euro-dollaro. Quando lo spread sale, il dollaro americano tende ad apprezzarsi verso l’euro. Quindi lo spread tra le emissioni dei due Paesi è influenzato da molte più variabili e non necessariamente uno spread elevato significa debolezza, anzi potrebbe voler dire il contrario.

Come ho già detto, in finanza nessuno regala nulla, quindi bisogna capire bene quali sono le motivazioni che fanno salire o scendere il valore di un titolo di stato e prendere le opportune decisioni di acquisto o vendita. Ricordo che queste devono essere prima di tutto funzionali ai progetti di vita e alle aspirazioni di ognuno, a quanto e quando si vuole ottenere qualcosa con il denaro. Non ha nessun senso rincorrere il maggior rendimento possibile, anche perché oltretutto sarebbe una strategia perdente in partenza.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Spread, parola difficile per un concetto facile

Che cos’è lo spread? Innanzitutto partiamo dalla traduzione dall’inglese, che significa “differenza”: perché è necessario usare termini inglesi quando esiste una perfetta traduzione italiana? Forse per confondere?

Torniamo al nostro “spread”, quindi alla differenza: in finanza può essere usato per diversi concetti, ma normalmente i giornali si riferiscono alla differenza di rendimento tra due obbligazioni o titoli di stato. Quando titolano “lo Spread” senza dare ulteriori definizioni, si riferiscono alla differenza tra rendimenti dei titoli di stato tedeschi (Bundesanleihen, comunemente noti come Bund) e quelli italiani (Buoni del tesoro pluriennali o BTP) con scadenza a 10 anni, emessi in euro.

Il rendimento effettivo è il risultato di componenti diverse tra domanda e offerta: da un lato c’è l’emittente, che ha necessità di ottenere denaro, ma più obbligazioni emette e più deve cercare di renderle attrattive per i compratori, aumentando quindi il rendimento. Dall’altro lato c’è il compratore, che sta cercando un buon affare, tra rendimento, scadenza e solidità dell’emittente.

In tutto questo si innesca la fiducia (o la sfiducia) dei compratori nei confronti dell’emittente o di altre variabili, come la situazione politica, l’inflazione o la crescita economica. A domanda crescente, sale il prezzo e scende il rendimento. Se il titolo è di nuova emissione è più semplice trovare una valore di rendimento congruo, ma se il titolo è già stato emesso, non può che variare di prezzo per riequilibrare un tasso di rendimento troppo alto o troppo basso rispetto ai suoi simili già sul mercato.

Infatti il mercato non regala nulla: se trovate un’obbligazione con rendimento molto elevato e prezzo basso, sarà legata ad un rating molto basso o ad altri rischi, come il rischio politico o l’instabilità valutaria, oppure la politica economica o la spesa pubblica.

Tornando allo spread Bund/BTP, perché esiste un differenziale tra questi due titoli di Stato emessi da due Paesi dell’Unione Europea?

L’ingranaggio dell’Ue non sembra essere lubrificato bene, perché ogni stato membro sembra fare storia a sé. La Germania è considerata Paese solido, con un rischio di insolvenza molto basso. L’Italia invece no, inaffidabile e con un rischio elevato di non riuscire a rimborsare i prestatori di denaro, cioè chi ha acquistato i BTP.

Entrano in gioco anche le attese su inflazione, debito pubblico, PIL. La misura di questa differenza è lo spread, che viaggia ora intorno a 135/145; dipende ovviamente dal momento in cui lo guardate perché varia in continuo. È espresso in punti base, quindi se volete un dato in percentuale basta dividere 1,35%-1,45% di differenza tra il rendimento di un titolo di stato tedesco e uno italiano.

Domani parleremo di mercati primari e secondari e di molto altro.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Brexit e mercati azionari: il ruolo dell’oro

Considerando che il settore azionario europeo è in crollo e lo stesso vale per quello americano, e che vi è una scarsa probabilità di un rialzo dei tassi americani, a difesa del patrimonio rimangono poche cose, tra cui i metalli preziosi (oro e argento prima di tutto).

Questo il commento di David Finch, Ideas Team di Exane BNP Paribas, sul settore aurifero all’indomani del referendum sulla Brexit: “Immagino che la domanda oggi sia: ‘È troppo tardi per acquistare oro e società del settore aurifero?’. La mia risposta è no (alquanto prevedibile!). Questa mattina, il prezzo dell’oro è salito del 4.5% circa mentre le quotazioni delle società operanti nel settore dell’estrazione aurifera quotate nel Regno Unito e in Australia sono in rialzo dell’8% circa in dollari americani”.

Ricordate – ha proseguito Finch all’indomani della Brexitche l’EPS leverage sul prezzo dell’oro è intorno a 5:1. Come certamente ricorderete, con il prezzo dell’oro intorno a 1250, pensavo che le previsioni sugli EPS per il 2016 erano sottostimate del 25%. A 1320, invece, sono sottostimate del 35%. Entro metà luglio, avremo gli earnings attuali del secondo trimestre per il settore. Mi aspetto che i dati batteranno fortemente il consensus. Inoltre, con il recente rialzo dell’oro, ci sono molte probabilità che anche nel terzo trimestre si registreranno ottimi risultati in termini di earnings. Vorrei sottolineare come, man mano che l’anno procede, il tasso di crescita annuale del prezzo dell’oro sale a ritmi vertiginosi”.

Tornando indietro nel 2014 con l’oro che quotava a 1250 – ha concluso Finch -, il mercato prevedeva che l’EPS per il 2016 dovesse essere 8.75. Oggi, dopo il secondo trimestre, nonostante da un lato il prezzo dell’oro si sia attestato in media su 1250 e dall’altro i costi di produzione siano crollati del 20%, il mercato ha aggiustato le proprie previsioni, stimando ora un valore pari a 5. Tutto ciò è semplicemente incorretto. Anche se l’oro quotasse 1250 nei prossimi due anni (5% al di sotto del livello odierno), il settore sarebbe ancora sottovalutato e dovremmo assistere ad un upgrade degli EPS”.

Quindi, qual è l’outlook per l’oro? Secondo me, l’esito del referendum nel Regno Unito sulla Brexit non riguarda davvero Regno Unito vs Europa o Regno Unito vs stranieri, ma piuttosto si riferisce al malcontento generale nei confronti dell’élite che si è arricchita dalla crisi finanziaria, mentre la maggior parte delle persone si è invece impoverita. Questo fenomeno non riguarda solo il Regno Unito. Ad esempio, si prenda il caso degli Stati Uniti con Trump oppure quello della Cina o dell’Europa.

Prossimamente, bisognerà prestare attenzione a:

  • Referendum costituzionale in Italia il prossimo ottobre. Le recenti vittorie alle elezioni comunali a Roma (Virginia Raggi, esponente dei 5 Stelle, ha vinto con il 67% dei voti) e a Torino suggeriscono che Renzi potrebbe perdere questa battaglia
  • Trump negli Stati Uniti a novembre 2016 e Le Pen in Francia a maggio 2017

A mio parere, siamo in un periodo dove i risk premium in Europa rimangono elevati con forte volatilità nel mercato FX e con diverse situazioni di agitazione sociale. Condizioni perfette per un apprezzamento dell’oro.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Bail in, ovvero gli investitori chiamati a salvare le banche – Parte II

Dopo aver fatto il punto ieri sulle caratteristiche del bail in, vediamo come funziona il fondo di Garanzia dei Depositi, attraverso delle semplici domande e risposte e con un video esaustivo.

Che cosa garantisce il fondo?

In pratica i depositi che la banca si è obbligata a restituire e gli assegni circolari. Quindi sono esclusi depositi e fondi rimborsabili al portatore, titoli, pagherò cambiari, accettazioni.

Fino a quale cifra il fondo rimborsa?

100mila euro per depositante.

Chi garantisce i depositi?

Non lo Stato, ma le stesse banche consorziate, che intervengono “a chiamata”, cioè in caso di necessità, e per quote di contribuzione proporzionate a quanto “assicurano” presso il fondo, cioè all’ammontare dei depositi tutelati, non agli attivi in generale. Può accadere che una piccola banca abbia molti conti deposito e che una grande banca ne abbia pochi. Il fondo quindi non ha una dotazione finanziaria propria, se non per le spese di funzionamento, ma interviene solo quando necessario, chiedendo alle consorziate di mettere a disposizione gli importi necessari a coprire il buco creato dalla consorziata in difficoltà.

Quante volte è intervenuto il fondo?

Raramente, solo nove in venticinque anni, sempre per banche a carattere locale e solo una volta la soluzione è stata il rimborso dei depositanti: negli altri casi si è proceduto alla cessione delle attività e delle passività, in pratica un altro istituto ne ha rilevato le quote.

Se una banca con depositi molto elevati dovesse essere posta in liquidazione coatta, le altre banche riuscirebbero ad avere le risorse sufficienti per rimborsare i depositanti? E se le banche in crisi dovessero essere più di una contemporaneamente o a cascata? Il fondo garantirebbe i depositi per tutti?

Di fatto, la tutela presenta parecchi punti deboli, che in caso di grave crisi del sistema bancario potrebbe non reggere l’impatto e non riuscire a far fronte agli impegni presi.

Una riflessione ulteriore riguarda le PMI, poiché anche i conti intestati a queste potranno essere chiamati a contribuire al salvataggio: molte aziende hanno liquidità temporanee e fluttuanti, per esigenze finanziarie legate a pagamenti ed esborsi, quindi potrebbero rischiare di trovarsi coinvolte nel dissesto della banca. Inoltre, a peggiorare la situazione, fino al 31 dicembre 2018, i depositi superiori a 100mila euro delle imprese contribuiscono alla risoluzione in ugual misura rispetto agli altri crediti non garantiti, quindi con un grado di rischio superiore ai normali depositi.

Oltre ai depositi fino a 100mila euro sono esclusi dal bail-in:

– passività garantite (covered bonds e altri strumenti garantiti);

– passività derivanti dalla detenzione di beni della clientela (come il contenuto delle cassette di sicurezza) o in virtù di una relazione fiduciaria (come i titoli detenuti in un conto apposito);

Ma il bail in si può applicare anche a strumenti sottoscritti prima dell’1 gennaio 2016, quindi attenzione anche a quello che si è sottoscritto in passato: meglio controllare a quale rischio si può essere effettivamente coinvolti.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale indipendente, Studio Degiorgis

Bail in, ovvero gli investitori chiamati a salvare le banche – Parte I

Non si tratta di un prelievo forzoso, ma di una corresponsabilità degli investitori nella gestione della banca, senza troppe distinzioni tra capitale di rischio e capitale di debito.

Dal 1 gennaio 2016 è stata recepita anche in Italia la direttiva europea BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) che regolamenta le crisi bancarie e disciplina anche il salvataggio dall’interno (bail in) delle banche in fallimento.

In pratica che cosa succede? Se una banca ha gestito male le proprie risorse finanziarie e non riesce più a far fronte ai propri debiti, non sarà più lo Stato ad intervenire (bail out), ma la banca stessa dovrà provvedere a risanare la situazione con risorse interne, anche con i soldi dei clienti.

E’ una norma di equità rispetto alle imprese, per incentivare le banche ad evitare gestione spericolate. Aumenta però il rischio per gli investitori. Attenzione quindi sia a sottoscrivere prodotti emessi dalla banca sia a lasciare il denaro sul conto corrente o in conti deposito.

La procedura di risoluzione, vera novità della direttiva, sarà l’alternativa alla liquidazione coatta amministrativa, che corrisponde invece al fallimento per le imprese.

La Banca d’Italia è l’unico soggetto che potrà intervenire preventivamente al fine di evitare il dissesto, ad esempio con piani di risanamento, sostituendo gli organi amministrativi e di controllo, avviando l’amministrazione straordinaria, ma potrà farlo anche successivamente:

– vendendo una parte dell’attivo;

– trasferendo temporaneamente le attività e passività a una banca veicolo in vista di una successiva cessione sul mercato o ad una bad bank per gestirne la liquidazione;

– applicando il bail in.

Il bail in coinvolge anche i clienti della banca, a diverso titolo.

– Azioni e altri strumenti finanziari assimilati al capitale, come le azioni di risparmio e le obbligazioni convertibili

– Titoli subordinati senza garanzia; crediti non garantiti, come le obbligazioni bancarie non garantite

– Depositi superiori a 100mila euro di persone fisiche e Pmi, solo per la parte eccedente i 100mila.

Con il bail-in il capitale della banca in crisi viene ricostituito mediante l’assorbimento delle perdite da parte di azioni e altri strumenti finanziari posseduti dagli investitori della banca: questi ultimi titoli finanziari potrebbero subire una riduzione, anche totale, oppure una conversione in azioni come nel caso delle obbligazioni subordinate. Se tale riduzione non bastasse, analogo trattamento potrebbe essere riservato alle obbligazioni non garantite. In ogni caso, l’eventuale perdita per i creditori della banca non potrà essere mai superiore al valore depositato.

La gerarchia è obbligata, nel senso che prima verranno intaccati gli strumenti più rischiosi, quindi le azioni, poi i titoli subordinati e così via, lasciando come ultima possibilità i depositi. I depositi si intendono per persona, quindi se la stessa persona ha più conti o ha conti cointestati, il valore da cui si calcolerà l’eccedenza sarà il totale intestato alla persona. In pratica, se c’è un solo conto e cointestato, fino a 200mila euro il conto non sarà soggetto al bail in.

Se invece ci saranno più conti intestati alla stessa persona e se la somma dei medesimi sarà superiore a 100mila euro, saranno colpiti dal bail in.

Invece conti correnti, conti deposito (anche vincolati), libretti di risparmio, assegni circolari e certificati di deposito nominativi sono tutelati dal fondo di Garanzia dei Depositi, a cui aderiscono tutte le banche operanti in Italia e che interviene nel caso una delle consorziate venga posta in liquidazione coatta amministrativa.

Vedremo domani, alcune caratteristiche del fondo di Garanzia dei Depositi e faremo una riflessione su bail in e PMI.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale indipendente, Studio Degiorgis

Orizzonti temporali e profilo di rischio

Ecco come si smonta l’impostazione tradizionale delle asset allocation generate da banche e reti di promotori.

Una casa si costruisce dalle fondamenta, un piano finanziario anche.
Investire significa avere degli obiettivi, magari non troppo chiari a sé stessi, ma una motivazione per risparmiare ed investire c’è, altrimenti tanto varrebbe spendere tutto e godersi la vita.
Ad ogni obiettivo di vita, corrisponde una somma di denaro che serve alla sua realizzazione, e di solito una persona vuole raggiungere più obiettivi, distanziati nel tempo.

COSA SONO GLI ORIZZONTI TEMPORALI

Ecco che non ha senso definire un solo profilo di rischio ed un solo orizzonte temporale, poiché ogni obiettivo avrà una determinazione diversa per quanto riguarda: somma necessaria e tempo in cui sarà disponibile, quindi di conseguenza anche rischio sopportabile.
Faccio un esempio; sempre il nostro Nestore sta pensando alla sua pensione e tra dieci anni vorrebbe godersi i frutti del suo lavoro. Quindi ha un orizzonte temporale (10 anni) e deve stabilire quale somma gli serve per poter vivere decorosamente quando smetterà di lavorare. Fatte le dovute stime e analisi della situazione previdenziale, emerge che la pensione pubblica non sarà sufficiente a garantirgli il tenore di vita voluto e che sarà necessario integrare il reddito con altre entrate, per altri 12000 Euro annui (al valore attuale, tra dieci anni saranno di più). Quindi, calcolata l’inflazione attesa, sarà necessario avere o una rendita o un capitale che consenta di raggiungere questo primo obiettivo. Gli strumenti, le strade per raggiungere quanto sperato possono essere diverse: previdenza integrativa, capitale o immobile a reddito, investimenti speculativi o un mix di tutto questo.
E’ importante calcolare bene quanto sarà necessario, per evitare di eccedere ed avere risorse sovrabbondanti, che potevano essere usate per altri obiettivi.
Vi ricordate però gli altri obiettivi di Nestore? Università dei figli, avviare loro un’attività, comprare casa. Ogni obiettivo ha scadenza temporali e capitale a disposizione diversi, ma sopratutto ha diversa priorità. Verificato che tutti gli obiettivi siano raggiungibili, cioè che il patrimonio sia sufficiente, è necessario fare una graduatoria degli obiettivi. In particolare, quale di questi può mettere in difficoltà davvero Nestore?
Non c’è una risposta valida per tutti, ogni persona avrà una scala di priorità diverse, ma se un mancato raggiungimento comporta una vera difficoltà, allora questo sarà prioritario.
Nell’ esempio citato, non poter mantenere un tenore di vita decoroso quando Nestore andrà in pensione è prioritario, quindi sarà l’obiettivo numero 1.
La prossima volta confronteremo investimenti e prelievi di denaro nel tempo dai medesimi, per capire come influenzano il patrimonio complessivo.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Orizzonti temporali

 

Sfatiamo uno dei tanti miti della finanza; l’orizzonte temporale non è quello che sembra!

Intendo dire che è necessario prima stabilire quali sono le cose e le persone veramente importanti per voi, per poter capire qual è l’orizzonte temporale, cioè quanto tempo siete disposti ad aspettare che il vostro investimento generi i suoi frutti.
Al di là di quanto dichiarate durante la raccolta delle informazioni necessarie a stabilire il vostro profilo di rischio, il limite al quale il vostro investimento deve tendere è in funzione sia delle necessità vostre sia di quelle dei vostri cari.
Si torna cioè a parlare di planning.
Ad esempio, se una persona ha dei figli e vuole provvedere a loro in qualche modo con il proprio patrimonio, l’orizzonte temporale si sposta in avanti di moltissimi anni.

Vediamo un caso pratico: Nestore ha due figli, di 14 e 16 anni.
Per loro vuole provvedere al mantenimento agli studi universitari per almeno 4 anni( tra 4 anni per il figlio più giovane, tra 2 per quello più vecchio).
Poi vuole aiutarli ad avviare un’attività (tra 7 e 10 anni), a comprare casa (tra 12 e 15 anni).
Quale sarà l’orizzonte temporale complessivo di Nestore? almeno 15 anni!
Ma con tappe intermedie; tra due anni, tra 4, tra 7 e così via.

Per ogni tappa fissata sul percorso, è necessario anche stabilire quanto sarà necessario per soddisfare l’obiettivo previsto. Quanto e quando viene prelevato dal patrimonio complessivo è fondamentale per determinare la corretta composizione dell’investimento. E per capire quanto rischio effettivo si può assumere.
Se avete mai fatto un investimento finanziario, certamente vi avranno chiesto quale orizzonte temporale avete, perché anche sulla base di quello è possibile determinare il profilo di rischio e di conseguenza impostare la corretta asset allocation, cioè quali prodotti inserire nel vostro investimento finanziario.
Siccome si è sempre proceduto in tal modo fatto, pensate che sia corretto…e invece non è così!

Capite quindi che chiedere ad una persone qual è il suo orizzonte temporale e quanto vuole rischiare, non ha nessun senso. Ogni investitore ha orizzonti temporali e profili di rischio diversi, che vengono determinati in base alle sue priorità, obiettivi e finalità.
Se si determinano a priori rischio e tempo, ci si dovrà poi accontentare di quanto prodotto dall’investimento sulla base di questi fattori e si potranno soddisfare solo parzialmente le proprie esigenze, magari neppure tutte.
Approfondiremo il discorso prossimamente, attraverso alcune tabelle comparative che aiutino a comprendere meglio.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis