La Cgia dice no all’aumento dell’Iva

La Cgia ha le idee ben chiare e si pone contro l’eventuale aumento dell’Iva, che dovrebbe contribuire alla riduzione del cuneo fiscale.
Perché questo? Semplice: a detta di Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, non si tratterebbe di un’operazione a costo zero perché, se da una parte si assisterebbe alla riduzione del costo del lavoro a vantaggio di imprese o lavoratori dipendenti, dall’altra il rincaro dell’Iva ricadrebbe su tutti, indistintamente. E, come spesso accade, andrebbe a pesare sui più deboli, a cominciare da disoccupati, inattivi e pensionati.

Queste le parole di Zabeo: “Vista la situazione dei nostri conti pubblici è molto probabile che il Governo non sarà in grado di recuperare entro la fine di quest’anno tutti i 19,5 miliardi necessari per evitare che, dal 2018, l’aliquota Iva del 10 passi al 13 e quella del 22 al 25 per cento. Ricordo che un aumento di un punto dell’aliquota ridotta costa agli italiani poco più di 2 miliardi e quella ordinaria 4. Pertanto, non è da escludere che dei 19,5 miliardi l’esecutivo sia in grado di sterilizzarne solo una parte, almeno 14-15. E visto che la spesa corrente al netto degli interessi è destinata ad aumentare ancora, la quota rimanente dovrà essere recuperata con nuove entrate, con il ritocco, ad esempio, di un punto di entrambe le aliquote Iva”.

A queste parole si è accodato anche Renato Mason, segretario Cgia, il quale ha aggiunto: “Di fronte a una crescita economica ancora molto timida e incerta, l’eventuale aumento dell’Iva condizionerebbe negativamente i consumi interni e conseguentemente tutta l’economia, penalizzando in particolar modo le famiglie meno abbienti. Oltre alle famiglie più povere a essere penalizzate dall’eventuale aumento dell’Iva sarebbero anche gli artigiani, i commercianti e tutto il popolo delle partite Iva. Queste realtà, infatti, vivono quasi esclusivamente di domanda interna. Con un’Iva più pesante, quasi certamente i consumi subirebbero una contrazione importante, danneggiando queste attività economiche che non hanno ancora superato la fase critica di questa crisi”.

Facendo un esempio concreto. Se l’Iva salisse dal 22 al 23%, una famiglia di 3/4 persone subirebbe un aumento di imposta di circa 100 euro all’anno che avrebbe delle ripercussioni negative sui consumi interni del paese che costituiscono la componente più importante del nostro Pil.

Vera MORETTI

Stipendi degli italiani sempre più leggeri a causa delle tasse

Gli stipendi degli italiani sono sempre più leggeri, a causa delle tasse e dei contributi che vengono mensilmente sottratti in busta paga.
A confermarlo è l’Ufficio Studi Cgia, dopo aver esaminato la composizione delle buste paga di 2 lavoratori dipendenti entrambi occupati nel settore metalmeccanico dell’industria.

Il primo caso riguarda un operaio con uno stipendio mensile netto di poco superiore ai 1.350 euro: al suo titolare costa, invece, un po’ meno del doppio: 2.357 euro. Questo importo è dato dalla somma della retribuzione lorda (1.791 euro) e dal prelievo contributivo a carico dell’imprenditore (566 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è pari a 979 euro che incide sul costo del lavoro per il 41,5 per cento.

Il secondo caso, invece, si riferisce a un impiegato con una busta paga netta di poco superiore a 1.700 euro. In questa ipotesi, il datore di lavoro deve farsi carico di un costo di oltre 3.200 euro; importo, quest’ultimo, quasi doppio rispetto allo stipendio erogato. Questa cifra è composta dalla retribuzione mensile lorda (2.483 euro) a cui si aggiungono i contributi mensili versati dal titolare dell’azienda (729 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è di 1.503 euro che incide sul costo del lavoro per il 46,8 per cento.

Sembra che negli ultimi anni la situazione sia lievemente migliorata grazie all’introduzione del bonus Renzi e il taglio dell’Irap avvenuto nel 2015 sul costo del lavoro ai dipendenti assunti con un contratto a tempo indeterminato, che hanno portato ad una riduzione del carico fiscale di circa 14 miliardi di euro.
Inoltre, sebbene la metà dei 9 miliardi di euro annui che servono per coprire la spesa del bonus Renzi sia finita nelle tasche di dipendenti che vivono in famiglie con redditi medio-alti, è altrettanto vero che secondo un’indagine realizzata dalla Banca d’Italia il 90% delle famiglie percettrici di questa agevolazione hanno dichiarato di averla spesa e di aver destinato il restante 10% al risparmio e al rimborso di debiti.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato: “Oltre a tagliare l’Irpef è necessario intervenire anche sulla riduzione del prelievo in capo al datore di lavoro che in Italia è tra i più elevati d’Europa. Secondo l’Ocse, infatti, tra gli oltre 30 paesi più industrializzati del mondo solo Francia, Repubblica Ceca ed Estonia hanno un carico contributivo per dipendente superiore al nostro. Una situazione che ci impone non tanto di tagliare l’aliquota previdenziale che, in un sistema ormai contributivo, danneggerebbe i lavoratori, ma di proseguire con maggiore determinazione nella riduzione delle tasse sulle imprese”.

Ha aggiunto Renato Mason, segretario Cgia: “Per far ripartire con forza la domanda interna è necessario, tra le altre cose, aumentare il numero degli occupati e lasciare a questi ultimi più soldi in tasca. Vista la scarsa disponibilità di liquidità delle imprese, nel prossimo futuro sarà sempre più difficile erogare importanti aumenti di stipendio attraverso i rinnovi contrattuali. Per tale ragione, quindi, è indispensabile incentivare la diffusione del welfare aziendale come forma di beneficio economico”.

Vera MORETTI

Male l’inflazione e il credito alle imprese nonostante il QE

L’Ufficio Studi della Cgia ha stilato un bilancio del Quantitative Easing avviata dalla Bce ormai quasi due anni fa, con lo scopo di riportare il tasso di inflazione al 2% e quindi dare un po’ di respiro all’economia italiana, un po’ in affanno.
Ma, nonostante negli ultimi due anni la BCE abbia comprato titoli di Stato per 1.344 miliardi di euro, i risultati del QE non sono stati particolarmente positivi specie, considerando che nell’ultimo anno il livello medio dei prezzi nell’Area dell’euro è cresciuto solo dello 0,3%.

Anche in Germania e in Francia, dove le previsioni di crescita economica per il biennio 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle società non finanziarie sono aumentati negli ultimi 12 mesi, l’inflazione è prossima allo zero mentre in Italia l’inflazione nel 2016 è stata negativa (-0,1%), mentre i prestiti alle imprese sono scesi del 2,4%.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi Cgia, ha dichiarato: “L’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Euro ha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria riducendo il costo del nostro debito pubblico, ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non abbia ottenuto i risultati sperati, tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese non ripartono e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe. Insomma, il bazooka di Draghi non ha sortito gli effetti sperati. Una quota rilevante di questi 222 miliardi di euro sono finiti alle nostre banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale”.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha voluto commentare i risultati del QE e la situazione di difficoltà in cui si trovano le banche: “Le regole si stanno assestando sempre più in alto. Prima l’Europa chiedeva alle banche un patrimonio dell’8 per cento degli impieghi; ora bisogna avere il 10-12 per cento circa. In altre parole, la banca per prestare 100 milioni deve avere un patrimonio di oltre 10-12. L’asticella che varia nel tempo per gli istituti di credito è un problema. Infatti, dura da 2 anni la corsa per adeguarsi alle nuove regole europee, applicate con rigidità e nel periodo peggiore, ovvero nel bel mezzo di una crisi. Al di là delle responsabilità, comunque, rimane un fatto; la nostra economia ha bisogno di un sistema creditizio efficiente e attento ai territori, in particolar modo alle piccole e medie imprese che continuano ad essere l’asse portante della nostra economia”.

Vera MORETTI

La situazione precaria della PA italiana

Che la nostra Pubblica Amministrazione non goda di buona salute, già lo sospettavamo, ma, forse, speravamo che la situazione non fosse proprio disperata.
E invece, confrontata con i paesi europei, ne viene fuori un panorama a dir poco desolante: in pratica, solo Grecia, Croazia, Turchia e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico sono messi peggio di noi, ma il nord Europa per noi rappresenta un esempio inarrivabile.

Si tratta di una speciale classifica che tiene conto di una serie di caratteristiche, a cominciare dalla qualità dei servizi ricevuti, ma anche l’imparzialità con la quale vengono assegnati e la corruzione.
Oltre ai dati medi nazionali, questa indagine consente di verificare anche le performance di ben 206 realtà territoriali. Il risultato finale è un indicatore che varia dal +2,781 ottenuto dalla regione finlandese Åland (1° posto in Ue) al -2,658 della turca Bati Anadolu (maglia nera al 206° posto). Il dato medio Ue è pari a zero.

L’Italia non è presente nelle prime trenta posizioni, per trovare la prima regione italiana si deve scendere al 36esimo posto, con Trento. Di seguito troviamo la Provincia autonoma di Bolzano al 39°, la Valle d’Aosta al 72° e il Friuli Venezia Giulia al 98°. Appena al di sotto della media Ue si posiziona al 129° posto il Veneto, al 132° l’Emilia Romagna e di seguito tutte le altre regioni italiane.

Il Sud ha una situazione particolarmente critica: ben sette regioni si collocano, infatti, nelle ultime 30 posizioni: la Sardegna al 178° posto, la Basilicata al 182°, la Sicilia al 185°, la Puglia al 188°, il Molise al 191°, la Calabria al 193° e la Campania al 202° posto. Solo Ege (Turchia), Yugozapaden (Bulgaria), Istanbul (Turchia) e Bati Anadolu (Turchia), presentano uno score peggiore della Pa campana. Tra le realtà meno virtuose anche una regione del Centro, il Lazio, che si piazza al 184° posto della graduatoria generale.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, ha commentato così questi risultati: “Con una Pa di questo livello gli effetti negativi si fanno sentire anche nel settore privato. Quando ci rapportiamo con il pubblico i ritardi, le informazioni inesatte, le procedure inutilmente complicate o addirittura vessatorie sono all’ordine del giorno. Tutto ciò si traduce in perdite di tempo e di denaro, magari per pagare consulenti in grado di aiutarci ad evadere tutta una serie di pratiche burocratiche spesso ridondanti. Ne risentono sia i comuni cittadini sia le imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, con danni che si ripercuotono sul sistema-Paese”.

Ha aggiunto Renato Mason, Segretario della CGIA: “La sanità al Nord, le forze dell’ordine, molti centri di ricerca e istituti universitari italiani presentano delle performance che non temono confronti in tutta l’Ue. Tuttavia è necessario rendere più efficienti i servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, affinché siano sempre più centrali per il sostegno della crescita, perché migliorare i servizi vuol dire elevare il prodotto delle prestazioni pubbliche e quindi il contributo dell’attività amministrativa allo sviluppo del Paese”.

Vera MORETTI

Gli sprechi della Pubblica Amministrazione italiana secondo la CGIA

L’Ufficio Studi della CGIA ha voluto stimare e quantificare le uscite che l’Amministrazione Pubblica italiana potrebbe, invece, risparmiare se venisse utilizzata una maggior oculatezza.
Si tratta di una cifra enorme, perché la stima riguarda 16 miliardi di euro all’anno che potrebbero essere tranquillamente non spesi, che si raddoppierebbe probabilmente, se si potessero quantificare le spese riducibili ai falsi invalidi, a chi percepisce deduzioni/detrazioni fiscali non dovute o alla cattiva gestione del patrimonio immobiliare.

Ma non basta: se la nostra Amministrazione pubblica avesse in tutta Italia la stessa qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità e nella giustizia, solo per fare alcuni esempi, il nostro Pil aumenterebbe di 2 punti, ovvero di oltre 30 miliardi di euro, all’anno.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA, ha dichiarato: “Dopo aver approvato in fretta e furia una legge di Bilancio molto generosa sul fronte delle uscite, ora, dopo la richiesta da parte dell’Ue di correggere i nostri conti pubblici per 3,4 miliardi, il Governo decide di recuperarli agendo soprattutto sul fronte delle entrate. Non sarebbe il caso, invece, di intervenire in misura più aggressiva nei confronti della spesa pubblica improduttiva che risulta avere ancora dimensioni molto preoccupanti ?

Renato Mason, segretario della CGIA, ha poi aggiunto: “Ricordo che l’80 per cento circa delle merci italiane viaggia su gomma. E’ vero che grazie al rimborso delle accise gli autotrasportatori, solo quelli con mezzi sopra i 35 quintali, possono recuperare una parte degli aumenti fiscali che subiscono alla pompa. Tuttavia, nel caso scattassero gli incrementi di accisa, potrebbero verificarsi dei rincari dei prodotti che troviamo sugli scaffali dei negozi e dei supermercati del tutto ingiustificati, penalizzando soprattutto le famiglie a basso reddito”.

Vera MORETTI

 

Le tasse mascherate dello Stato

Che lo Stato sia spesso ladro, è convinzione che Infoiva ha da tempo. E, a dimostrazione del fatto che la nostra convinzione è anche una solida realtà, arriva un’analisi effettuata dall’Ufficio studi della Cgia dalla quale emerge che nel 96% dei casi le tasse pagate dalle famiglie dei lavoratori dipendenti sono prelevate alla fonte – dalla busta paga o incluse nei beni o nei servizi acquistati -, mentre solo il restante 4% è versato al fisco attraverso un’operazione di pagamento allo sportello, sia esso bancario o postale.

Nel dettaglio, la Cgia ha calcolato che nel 2016 la famiglia tipo presa a modello dell’analisi (marito e moglie lavoratori dipendenti con un figlio a carico) pagherà circa 17mila euro di tasse, un carico fiscale a dir poco vergognoso.

Nello specifico, il marito preso come modello è un operaio specializzato con reddito da lavoro dipendente pari a 22.627 euro (circa 1.513 euro/mese per 13 mensilità), mentre la moglie è impiegata in una piccola azienda artigiana, con reddito da lavoro dipendente pari a 17.913 euro (circa 1.235 euro/mese).

La famiglia in questione alle prese con le tasse abita in un appartamento di 94 mq calpestabili, la cui rendita catastale è di 522 euro, e possiede due auto, di cilindrata pari a 1.800cc e 1.200cc con le quali vengono percorsi rispettivamente 15.000 km e 5.000 km all’anno. Ecco il dettaglio delle tasse pagate, suddiviso in 3 voci.

prelievo “alla fonte”. Pesa il 65% carico fiscale annuo, 11.098 euro. Comprende i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef;

tasse “nascoste”. Pesano il 31% del carico fiscale annuo, 5.230 euro. Iva, accise collegate alla benzina e alle bollette di luce e gas, tasse e imposte comprese nell’assicurazione auto, nei bolli dei conti correnti e dei dossier titoli, canone Rai;

tasse “consapevoli”. Pesano il 4% del carico fiscale annuo, 696 euro. Bollo auto e Tari.

Con questa analisi, la Cgia ha voluto sottolineare come lo Stato ladro sia bravo a farci pagare le tasse senza farci apparentemente soffrire, come se fosse un vampiro buono. Ricorda Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia: “Nel momento in cui ci rechiamo in banca o alle poste per pagare il bollo dell’auto, la Tari o l’Imu, psicologicamente percepiamo maggiormente il peso economico di questi versamenti rispetto a quando subiamo il prelievo dell’Irpef o dei contributi previdenziali direttamente dalla busta paga. Nel momento in cui mettiamo mano al portafoglio prendiamo atto dell’entità del pagamento e di riflesso scatta una forma di avversione nei confronti del fisco. All’opposto, quando i tributi vengono riscossi alla fonte, l’operazione è astrattamente meno indolore, perché avviene in maniera automatica”.

La Cgia: pressione fiscale reale al 50,2%

La pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie è uno dei fattori che, in Italia, ostacolano maggiormente una vera ripresa. Ciò che più dà fastidio è che la pressione fiscale reale è molto diversa da quella “ufficiale”, che emerge molto spesso dalle stime governative. Questo perché la pressione fiscale reale è influenzata dall’economia sommersa.

Quest’ultima tra il 2011 e il 2013 è cresciuta di 4,85 miliardi di euro, a quota 207,3 miliardi di euro, il 12,9% del Pil, mentre quella al netto dell’economia non osservata è calata di 36,8 miliardi, sotto quota 1.400 miliardi.

Partendo da questi dati, l’Ufficio studi della Cgia ha stimato, in via molto prudenziale, che l’incidenza percentuale dell’economia non osservata sul Pil è rimasta la stessa anche dal 2013 al 2015, ed è arrivato a calcolare in quasi 211 miliardi di euro il peso dell’economia sommersa sul Pil nazionale lo scorso anno 2015, con rilevanti ricadute dal punto di vista fiscale.

Come ha commentato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 al lordo dell’operazione bonus Renzi, la pressione fiscale ufficiale in Italia è stata pari al 43,7%. Tuttavia, il peso complessivo che il contribuente onesto sopporta è di fatto superiore ed è arrivato a toccare la quota record del 50,2%”.

Secondo gli artigiani mestrini, la progressione della pressione fiscale ufficiale e ufficiosa negli ultimi 4 anni è stata costante: nel 2011 erano pari al 41,6% e al 47,4%, nel 2012 al 43,6% e al 49,9%, nel 2013 al 43,5% e al 49,9%, nel 2014 al 43,6% e al 50,0%, nel 2015 al 43,7% e al 50,2% (per il 2014 e il 2015 si tratta di stime).

Per avere un quadro di riferimento chiaro, la Cgia ricorda che “la pressione fiscale è data dal rapporto tra l’ammontare complessivo del prelievo (imposte, tasse, tributi e contributi previdenziali) e il Prodotto interno lordo (Pil) che si riferisce non solo alla ricchezza prodotta in un anno dalle attività regolari, ma anche da quella “generata” dalle attività sommerse (cioè non in regola con il fisco) e da quelle illegali che consistono in uno scambio volontario tra soggetti economici (contrabbando, prostituzione, traffico di sostanze stupefacenti)”.

Lapidario il commento del segretario della Cgia, Renato Mason: “E’ evidente che con un peso fiscale simile sarà difficile trovare lo slancio per ridare fiato all’economia del Paese in una fase dove la crescita rimane ancora molto debole e incerta”.

Finanziamenti alle imprese? Ai soliti noti…

Come si suol dire… a chi troppo e a chi niente. In un’Italia nella quale i finanziamenti alle imprese hanno subito un pesante ridimensionamento a causa della crisi economica, ora scopriamo che quasi l’80% di questi finanziamenti alle imprese erogati dalle banche finisce nelle casse delle grandi aziende.

La denuncia viene ancora una volta dalla Cgia, il cui Ufficio Studi ha rilevato che al primo 10% dei migliori affidati va l’80% circa del totale dei finanziamenti alle imprese erogati dalle banche, nonostante le grandi aziende siano, per gli istituti di credito, dei pessimi pagatori: è a carico loro, infatti, il 78% del totale delle sofferenze bancarie.

Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “salvo qualche rara eccezione questo 10% di maggiori affidati non è certo composto da piccoli imprenditori, famiglie o lavoratori autonomi, ma quasi esclusivamente da grandi società o gruppi industriali. Pertanto, possiamo affermare che le banche italiane sono molto influenzate dalle richieste delle grandi imprese. Non vorremmo che questa anomalia fosse ascrivibile al fatto che nella stragrande maggioranza dei casi nei Consigli di amministrazione dei principali istituti di credito italiani sono presenti quasi esclusivamente i nostri capitani d’industria o manager a loro molto vicini”.

Una denuncia detta a mezza voce, ma molto forte, visto che queste grandi aziende possono contare su un rapporto privilegiato con gli istituti di credito che consente di far arrivare finanziamenti alle imprese anche a fronte di conclamati casi di insolvenza.

Proprio su questo punto torna ancora Zabeo: “Qualcuno potrebbe obbiettare che se questi prestiti vanno nella stragrande maggioranza dei casi ad un numero ristretto di clienti, ciò è riconducibile al fatto che questi ultimi sono solvibili. Invece, le cose non stanno così. La quota di insolvenza in capo ai maggiori affidati, infatti, è attorno al 78%. In buona sostanza nei rapporti tra banche e imprese tutto è paradossalmente capovolto. Chi riceve la stragrande maggioranza dei prestiti ha livelli di affidabilità bassissimi, per contro, chi dimostra di essere un buon pagatore riceve i soldi con il contagocce”.

Pubblica amministrazione, palla al piede per l’economia

Passano i governi, passano gli anni, ma le piaghe dei debiti PA nei confronti delle imprese dell’inefficienza di certa parte della Pubblica amministrazione sembrano non guarire mai. Del resto, come ha ricordato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo, le inefficienze, le arretratezze e i ritardi della Pubblica amministrazione hanno “un impatto molto negativo sull’economia del nostro Paese frenandone la ripresa”.

Un’affermazione che, come sempre quando a parlare è la Cgia, non si basa su impressioni o sul sentito dire, ma su numeri e dati scientifici, i quali, ancorché provenienti da fonti statistiche diverse confermano solo la palla al piede della Pubblica amministrazione.

La Cgia ha fatto un elenco, numeri alla mano, dei costi della Pubblica amministrazione inefficiente per le imprese italiane:

  • 31 miliardi all’anno: il costo della burocrazia per le Piccole e medie imprese;
  • 70 miliardi: i debiti della PA nei confronti dei fornitori privati;
  • 24 miliardi: la spesa pubblica in eccesso che tiene alta la pressione fiscale rispetto alla media Ue;
  • 42 miliardi all’anno: il deficit logistico-infrastrutturale che penalizza il sistema economico italiano;
  • 16 miliardi all’anno: il costo della lentezza della giustizia civile italiana;
  • 23,6 miliardi all’anno: il costo degli sprechi e della corruzione nella sanità.

Alla luce di queste cifre mostruose, Zabeo chiude con un’analisi di scenario che prova a guardare positivo: “È possibile affermare con buona approssimazione che gli effetti economici derivanti dall’inefficienza della nostra Pubblica amministrazione siano superiori al mancato gettito riconducibile all’evasione fiscale che, a seconda delle fonti, sottrae alle casse dello Stato tra i 90 e i 120 miliardi di euro ogni anno. E’ altresì verosimile ritenere che se recuperassimo una buona parte dei soldi evasi al fisco, la nostra macchina pubblica funzionerebbe meglio e costerebbe meno. Analogamente, è altrettanto plausibile ipotizzare che se si riuscisse a tagliare sensibilmente la spesa pubblica, permettendo così la riduzione di pari importo anche del peso fiscale, molto probabilmente l’evasione sarebbe più contenuta, visto che molti esperti sostengono che la fedeltà fiscale di un Paese è direttamente proporzionale al livello di pressione fiscale a cui sono sottoposti i propri contribuenti”.

La magia del prezzo della benzina

Uno dei misteri più impenetrabili per gli italiani è il rapporto tra il prezzo del petrolio al barile e il prezzo della benzina alla pompa. Quando il primo sale, il secondo s’impenna, quando il primo scende il secondo, nella migliore delle ipotesi, rimane stabile. Mistero impenetrabile fino a un certo punto, perché in Italia, il prezzo della benzina è determinato per la più parte da imposte e accise.

Ce ne stiamo accorgendo di nuovo in questi giorni, quando, nonostante il prezzo del petrolio sia più basso del valore registrato nel dicembre del 2008 (circa 41 dollari al barile), alla pompa il prezzo della benzina è di circa il 30% in più rispetto a quello di 7 anni fa: 1,451 euro al litro in media contro 1,115.

Un conteggio meritorio, effettuato ancora una volta dall’Ufficio studi della Cgia. Commenta il coordinatore Paolo Zabeo: “Ancora una volta a spingere all’insù il prezzo della benzina è stata, in particolar modo, la componente fiscale. Se verso la fine del 2008 il peso dell’Iva e delle accise su un litro di benzina sfiorava i 75 centesimi, attualmente è pari a 0,99 euro al litro. In termini percentuali l’aumento della tassazione è stato del 32%”.

Un aumento che ha interessato tanto l’Iva e le accise, quanto il prezzo industriale, passato da 0,365 euro al litro di fine 2008 agli 0,461 euro attuali (+26,4%). E come al solito, anche sul prezzo della benzina noi italiani siamo cornuti e mazziati.

Conclude infatti Zabeo la riflessione sul prezzo della benzina: “Tra i Paesi che utilizzano la moneta unica, solo i Paesi Bassi, con il 70,3%, hanno un’incidenza percentuale della tassazione sul prezzo alla pompa superiore alla nostra che ha raggiunto il 68,2%. Rispetto ai Paesi che confinano con noi, invece, paghiamo la benzina il 14,4 per cento più dei francesi, il 18,9 per cento più degli sloveni e addirittura il 30,7 per cento più degli austriaci”.

E il segretario della Cgia Renato Mason lancia un appello che resterà ancora una volta inascoltato per il taglio della componente fiscale del prezzo della benzina: “Un taglio della componente fiscale oltre agli automobilisti avvantaggerebbe anche i piccoli trasportatori, gli autonoleggiatori, i taxisti, i padroncini e gli agenti di commercio che per l’ esercizio della propria attività il carburante costituisce una delle principali voci di costo”.