Il periodo di comporto in tempi di pandemia, la guida e le sentenze

Il periodo di comporto è un fattore assolutamente determinante per la conservazione del posto di lavoro. Le statistiche di quest’ultimo anno di lavoro (ma si può estendere il tutto all’ultimo biennio), hanno evidenziato un netto incremento delle malattie dei lavoratori. A tal punto che correre il rischio di perdere il posto di lavoro per il superamento del periodo di comporto non è certo una rarità oggi giorno. Ma proprio per il particolare momento storico che viviamo o che abbiamo vissuto da due anni a questa parte, occorre fare un distinguo tra giornate di assenza per malattia.

Cos’è il periodo di comporto nei contatti di lavoro

Un lavoratore dipendente ha pieno diritto ad assentarsi per malattia. Un diritto sancito costituzionalmente. Ma non può certo fare ciò che vuole e soprattutto, il periodo di assenza per malattia non può certo protrarsi nel tempo e per troppo tempo. Proprio questi limiti sono rinchiusi tutti nella definizione di periodo di comporto.

Per periodo di comporto infatti si fa riferimento al totale delle assenze per malattia ammissibili in un determinato arco temporale. In pratica, è il numero massimo di giornate di assenza dal lavoro effettuate da un lavoratore dipendente. Sono i CCNL, cioè i contratti collettivi di lavoro, che stabiliscono questo lasso di tempo.

Perdere il posto di lavoro per superamento del periodo di comporto

Ed è un periodo focale per non rischiare di perdere il proprio lavoro. Infatti il periodo di comporto è quel numero di assenze che una volta superato mette il lavoratore nella condizione di poter essere licenziato. In questo caso il licenziamento sopraggiunge per “superamento del periodo di comporto “.  Ed è assolutamente una giusta causa di licenziamento.

L’aspettativa non retribuita amplia le possibilità

Una volta terminato il periodo di comporto, il lavoratore, per la stragrande maggioranza dei contratti collettivi di lavoro, può chiedere al datore di lavoro un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita. Come dicevamo, questo nella stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro. Infatti salvo casi previsti dal CCNL, la soluzione a chi si assenta ancora per malattia è proprio l’aspettativa non retribuita. Un periodo in cui il lavoratore resta assente, e resta giustificato. Anche se non percepisce stipendio. Si tratta di una soluzione per non perdere il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Serve però l’accordo del datore di lavoro, che per necessità aziendali deve provvedere alla sostituzione del lavoratore in aspettativa, con una nuova assunzione. Va ricordato che al contrario dei periodi di malattia, quelli di aspettativa non contano dal punto di vista degli scatti di anzianità.

Il Covid ha aumentato le malattie, ma per il comporto i Giudici la pensano diversamente

Come dicevamo, le malattie durante gli ultimi due anni sono aumentate a dismisura. Sicuramente ha inciso il Covid. La pandemia, tra casi di positività e casi di contatto stretto con positivi sui posti di lavoro, ha sicuramente prodotto un aumento esponenziale di queste assenze. E per questo motivo che il dubbio riguardo al periodo di comporto per le assenze per malattia da Covid, riguarda una moltitudine di lavoratori. Un dubbio che ha provveduto a fugare un Tribunale.

La sentenza che crea il precedente

Come si legge sul sito “bollettinoadapt.it”, lo scorso 5 gennaio, il Tribunale di Asti ha dato ragione ad un lavoratore (una lavoratrice per l’esattezza),  che ha prodotto ricorso conto il licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato dal suo datore di lavoro. Si trattava di una lavoratrice di una azienda operante nel settore Terziario che aveva subito il provvedimento per aver superato il periodo di comporto. In genere sono 6 mesi in un anno solare le assenze per malattia del periodo di comporto. Nel caso specifico della lavoratrice licenziata, il periodo di comporto era stato superato per via di assenze dovute al fatto che era stata a contatto con una collega risultata positiva al Covid-19. Tra quarantena preventiva e successiva positività, le giornate di malattia avevano superato, in collegamento con altre per diverse patologie, il relativo periodo di comporto.

Le motivazioni che di fatto escludono il Covid dal periodo di comporto

La motivazione per cui gli ermellini hanno dato ragione alla ricorrente è lapalissiana nel mettere in luce il fatto che le assenze per Covid non dovrebbero far parte del computo delle assenze del periodo di comporto. In totale la lavoratrice era stata assente per 183 giorni nell’anno solare cioè oltre il periodo di conservazione del posto di lavoro e il periodo di comporto.

Le normative straordinarie del governo a sostegno della tesi dei Giudici

Secondo i Giudici e come si legge sul sito prima citato,  “dal numero totale dei giorni di malattia dovevano essere decurtati i 10 giorni di quarantena per contatto con una collega positiva al Covid”. In questo caso infatti gli ermellini hanno stabilito che, essendo il contato, nato per questioni di lavoro, più che di malattia le assenze dovevano essere giustificate da infortunio. Sempre secondo il Tribunale, anche il fatto che le assenze della lavoratrice erano giustificate da norme eccezionali varate dal governo per contenere i contagi da Covid, non potevano essere utilizzate per provvedimenti quali sono i licenziamenti per superamento del periodo di comporto.

 

Malattia: tutti i limiti al licenziamento, anche oltre il periodo di comporto

La malattia del lavoratore è un argomento davvero molto particolare. Le assenze per malattia sono tutelate per legge. Un lavoratore che si ammala ha le coperture da parte dell’Inps. Ma ha anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Ma non è un diritto privo di scadenza. Non è possibile restare in malattia in eterno. C’è il cosiddetto periodo di comporto, alla scadenza del quale si rischia seriamente di incorrere nel licenziamento. Ma anche questo aspetto non è esente da limitazioni. Infatti il datore di lavoro a volte non può licenziare il lavoratore nonostante sia stato superato il periodo di comporto.

Malattia e periodo di comporto, alcuni chiarimenti

Il periodo di comporto è il periodo massimo che un lavoratore può sfruttare di malattia. Per questo si parla di malattia oltre il periodo di comporto quando il lavoratore rischia il licenziamento. Quando la malattia supera il periodo di comporto, il diritto alla conservazione del posto di lavoro può venire meno. Non sempre però, dal momento che non è raro che il licenziamento per superamento del periodo di comporto risulti illegittimo.

La regola generale però va nella direzione di considerare il superamento del periodo di comporto come determinante in quanto a rischio licenziamento. Quindi, quando le assenze del dipendente in malattia superano il limite massimo fissato, lavoro a rischio. ma chi fissa questo limite? Lo fa il Contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria (CCNL). In base ai dettami dei singoli contratti collettivi, ogni datore di lavoro può licenziare il lavoratore senza dare la giustificazione al licenziamento.

Quando il licenziamento può essere considerato illegittimo

Abbiamo capito che il periodo di comporto altro non è che il numero massimo di assenze per malattia che una lavoratore può effettuare in un determinato periodo di tempo. Il datore di lavoro però, anche se autorizzato dal CCNL, non ha pieni poteri. Ci sono delle sentenze, richiamate dal sito “laleggepertutti.it”, che limitano l’autorità e la libertà di agire del datore di lavoro. Un tipico esempio è quello della malattia derivante da un infortunio sul lavoro che a sua volta deriva da colpa acclarata da parte del datore di lavoro. In questo caso il lavoratore dipendente non può essere licenziato. Il datore di lavoro che non ha messo in sicurezza il dipendente, nell’espletamento delle sue mansioni lavorative, non può licenziare il dipendente. Quindi, determinante la colpa del datore di lavoro.

Se la malattia deriva da un comportamento colposo del datore di lavoro in materia di sicurezza sul lavoro e infortuni professionali, il periodo di comporto non va considerato. Se invece la malattia, anche se deriva da infortunio, non dipende da un comportamento erroneo del datore di lavoro, il periodo di comporto è assolutamente da considerare.

In altri termini se un lavoratore dipendente si fa male sul lavoro se il datore ha colpa, può superare il periodo di comporto senza rischiare il licenziamento. Nel caso opposto invece il posto di lavoro è a rischio.

Come si interrompe il rapporto di lavoro a seguito di superamento del periodo di comporto

Naturalmente non basta il superamento del limite massimo di assenze per malattia per poter essere licenziati. Il rapporto di lavoro non viene interrotto in automatico ma serve una azione del datore di lavoro. Il provvedimento deve essere ufficiale, così come il licenziamento deve seguire la forma classica. Addirittura il datore di lavoro può anche riammettere al lavoro il dipendente, per verificare se dopo la lunga assenza non abbia perduto le capacità minime di svolgere le normali mansioni precedenti. La prova della permanenza delle condizioni utili a lavorare non può durare tanto. Anche perché non si deve indurre il lavoratore a considerare come superato il rischio di licenziamento.

Tornando alla lettera e al provvedimento di licenziamento, il datore di lavoro non è tenuto a indicare nel provvedimento il superamento del comporto con dettaglio dei giorni di assenza. Ma solo se l’assenza è continuativa. Nel caso di assenze frazionate invece, occorre indicare tutti i giorni di assenza a dimostrazione del superamento del limite massimo di assenze.

Licenziamento per superamento periodo di comporto: si assimila al licenziamento disciplinare?

Si può essere licenziati quando si supera il periodo di comporto? E quando il licenziamento per superamento può essere assimilato al licenziamento disciplinare? A queste e ad altre domande, relative al periodo di comporto, daremo risposta nella nostra guida.

Periodo di comporto, il superamento

Con periodo di comporto si intende il periodo di malattia massimo a cui un lavoratore dipendente deve far fronte, in caso di assenza dal lavoro.

Quando è che si rileva, dunque il superamento del periodo di comporto, giustificando il licenziamento?

Partiamo col dire che il superamento del periodo di comporto da parte del lavoratore non va a giustificare il recesso del datore di lavoro laddove l’infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, andando così a violare l’obbligo di sicurezza o di specifiche norme, incombendo, sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale fra la malattia e il carattere morboso delle mansioni eseguite.

Leggi anche: Superamento periodo di comporto, la malattia può essere sostituita con le ferie?

Licenziamento e tempestività

Riguardo al licenziamento per superamento del periodo di comporto la decisione spetta esclusivamente al datore di lavoro, se recidere o meno non appena terminato il periodo, oppure di attendere il rientro del lavoratore. Ne consegue che soltanto a partire dal momento del rientro in servizio l’eventuale inerzia del datore nel recedere potrebbe indicare la rinuncia al potere di licenziamento e, dunque, potrebbe ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.

Quando il licenziamento è nullo

Quando si può rivelare la nullità per assenze o infortunio, del licenziamento per superamento del comporto?

In breve, possiamo ben dire che il licenziamento intimato con causale il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, si rivela nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c.

Licenziamento periodo di comporto: si assimila al licenziamento disciplinare?

La risposta a questa domanda, che è fulcro nucleico della nostra guida, è No. Il licenziamento per il superamento del periodo di comporto non si può assimilare al licenziamento disciplinare.

Scopriamo, in breve, nel seguente paragrafo il perché.

In merito al licenziamento per superamento del comporto, non assimilabile a quello disciplinare, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive.

Tuttavia, pure sulla base del novellato art. 2 della l. n. 604 del 1966, il quale impone la comunicazione contestuale dei motivi, la motivazione esposta deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.

Quando si rivela efficace il licenziamento?

In ultimo, ma non ultimo, andiamo a valutare l’efficienza del licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Si rimette al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite la questione della natura del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato prima del decorso completo dello stesso periodo e quando il lavoratore è ancora assente per malattia, per stabilire se il licenziamento sia inefficace in via temporanea e, pertanto, possa acquisire efficacia con il successivo superamento del periodo di comporto o se, al contrario, il recesso sia da considerare nullo, perché intimato in contrasto con l’art. 2110 c.c.

Questo è, dunque, quanto vi fosse di più utile e necessario, da sapere in merito al licenziamento per superamento del periodo di comporto e le sue variabili, quantunque fosse esso anche assimilabile al licenziamento disciplinare.

Superamento periodo di comporto, quando si può impugnare il licenziamento?

Quando si può impugnare il licenziamento, a causa del periodo di comporto? A questa e ad altre curiosità, relative al periodo di comporto del lavoratore, risponderemo in questa rapida ed esaustiva guida.

Periodo di comporto, quando si supera il limite

Innanzitutto, chiariamo cosa si intende per periodo di comporto.

Sostanzialmente, non si intende altro che quel limite di periodo che il lavoratore può usufruire per la propria malattia dal lavoro.

Potremmo ben dire che la base annuale cui va rapportato il periodo di comporto si identifica nell’anno solare, ovvero dei 365 giorni decorrenti dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia, se continuativa, ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento.

Leggi anche: Superamento periodo di comporto, la malattia può essere sostituita con le ferie?

Quando si può impugnare il licenziamento

Quindi, andiamo, nello specifico a vedere quando è possibile impugnare il licenziamento, a causa del superamento del periodo di comporto.

Per poter procedere alla impugnazione del licenziamento a causa del superamento del periodo di comporto, va a gravare sul datore di lavoro l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del potere di recesso. Spetta, dunque, al lavoratore la loro contestazione; pertanto, in difetto di specifica contestazione ed in assenza di una chiara e precisa presa di posizione del lavoratore sull’esistenza delle assenze per malattia incluse nel computo del comporto, le stesse risulteranno non controverse e, come tali, non hanno necessità di prova.

Possiamo, quindi aggiungere che per conseguire il licenziamento per superamento del periodo di comporto, sia nel caso di una sola affezione continuata, sia in quello del succedersi di diversi episodi morbosi, la risoluzione del rapporto va a costituire la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, nel quale il dato dell’assenza dal lavoro per infermità corre ad avere una valenza puramente oggettiva.

Pertanto, non va rilevata la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie. Ed in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto.

Tutto ciò in quanto la comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione.

Riconoscimento indennità sostitutiva

Cosa vuol dire indennità sostitutiva? E quando essa viene a mancare?

Se la parte che intende interrompere il rapporto di lavoro non rispetta il periodo di preavviso, è tenuta a corrispondere alla controparte un’indennità sostitutiva dello stesso, pari alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato durante il preavviso. Ecco cosa si intende per indennità sostitutiva. Ma quando questa viene a mancare, per superamento del periodo di comporto?

La risposta a tale quesito è presto data:

nel novero di obbligatorietà del preavviso, il difetto del carattere “improvviso” del recesso datoriale ed, in generale, delle finalità sottese alla disposizione di cui all’art. 2118 c.c. andranno a determinare il mancato riconoscimento del diritto alla corresponsione della relativa indennità sostitutiva.

Questo è, dunque, quanto vi fosse di più necessario, esaustivo ed imbrigliato da sapere in merito al periodo di comporto e al suo procedere per impugnare il licenziamento da parte del datore di lavoro.

 

Periodo di comporto: come considerare la malattia imputabile al datore di lavoro?

In questa rapida ma esaustiva guida andremo a verificare alcune particolarità legate al periodo di comporto. Nello specifico, andremo a scandagliare come e quando il periodo della malattia, per un dipendente, è imputabile al datore di lavoro.

Periodo di comporto, di cosa si tratta

Innanzitutto, partiamo col dire cosa si intende quando si parla di periodo di comporto.

Sostanzialmente, il periodo di comporto corrisponde al numero massimo di assenze per malattia che possono essere effettuate dal lavoratore. Se questo periodo viene superato, il datore di lavoro può procedere al licenziamento, a meno che il contratto collettivo non preveda l’aspettativa non retribuita.

Appurato e stabilito ciò, andiamo a vedere quando è possibile che il periodo di malattia sia imputabile al datore di lavoro e quindi quali conseguenze vanno a consistervi.

Periodo di comporto, malattia imputabile al datore di lavoro

Quando, dunque, il periodo di malattia che un lavoratore intraprende può essere imputato al datore di lavoro?

Poniamo ad esempio che un lavoratore debba mettersi in malattia a causa di un infortunio sul lavoro, oppure per nocività dell’ambiente lavorativo stesso.

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087, c.c.) o di specifiche norme.

Tra l’altro, va detto che incombe sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

Regole sulle assenze del lavoratore: quali sono?

Le regole dettate dall’art. 2110 c.c. per le ipotesi di assenze da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cd. comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso, nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento).

Da ciò. si deduce e ne consegue che lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale che sia determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Leggi anche: Calcolo periodo di comporto: come funziona per festivi, giorni non lavorativi e non lavorati?

Interessi aziendali e assenze del lavoratore

A differenza del licenziamento disciplinare, che rileva l’immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel caso del licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quella del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberandi”, nel quale si va a valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una diagnosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali.

Se ne evince che, in questo caso, il giudizio sulla immediatezza del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, bensì va a costituire valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa.

Questo, quindi è quanto vi fosse di più utile e necessario, in merito alla questione del periodo di comporto e la sua assoggettabilità al proprio datore di lavoro.

Superamento periodo di comporto: cosa accade?

Oggi andremo a vedere, nella nostra rapida, essenziale ed esaustiva guida, cosa accade quando si supera il periodo di comporto sul posto di lavoro. Ma anche e soprattutto cosa si intende, quando si parla di periodo di comporto. Scopriamolo assieme, nei prossimi paragrafi.

Periodo di comporto: cosa accade se si supera

E’ passato un bel po’ di tempo di assenza dal lavoro per malattia e non prevedete di rientrare in tempi brevi? Avete timore di perdere il posto di lavoro e vi domandate se e quando potreste correre il serio rischio di essere licenziati? Quali conseguenze ha la scadenza del periodo di comporto?

Innanzitutto, chiariamo esattamente quando si parla di periodo di comporto a cosa si fa riferimento?

Il periodo di comporto corrisponde al numero massimo di assenze per malattia che possono essere effettuate dal lavoratore. Se questo periodo viene superato, il datore di lavoro può procedere al licenziamento, a meno che il contratto collettivo non abbia in previsione l’aspettativa non retribuita.

Ora, vediamo cosa accade nello specifico del superamento del periodo, attraverso il prossimo paragrafo.

Periodo di comporto, superato: è licenziamento?

Come detto, il rischio di incorrere nel licenziamento, una volta superato il periodo di comporto è piuttosto evidente.

Il licenziamento, però, non è un fattore esclusivamente automatico. Anzi, lo si può evitare grazie ad alcuni accorgimenti, che convertono l’assenza per malattia in altri motivi legittimi.

Come fare, dunque ad evitare che il superamento del limite del periodo di comporto vada a sfociare in un licenziamento?

La domanda più annosa legata alla questione è, quindi, come fare in tal caso ad evitare il licenziamento?

Per poter evitare, quindi, che il periodo di comporto si compia interamente, qualora il contratto lo consente, il lavoratore può far interrompere il suo decorso chiedendo le ferie già maturate o mettendosi in aspettativa non retribuita. Questa istanza deve essere scritta e deve essere presentata prima della scadenza del periodo di comporto. Il datore di lavoro non è obbligato ad aderire a tali richieste, anche se deve valutarle attentamente per bilanciare le esigenze aziendali con l’interesse del lavoratore.

E’ dunque il ricorso all’aspettativa che può scongiurare il licenziamento dal posto di lavoro, quando si supera il periodo di comporto. Come detto sopra, inoltre, il dipendente può richiedere la fruizione delle ferie: usufruendo delle ferie residue, difatti, il termine del periodo tutelato viene in automatico spostato in avanti.

Va aggiunto, tra l’altro che molti contratti collettivi prevedono, a via di tutela dei lavoratori in tali situazioni, la conservazione del posto di lavoro se il dipendente si pone in aspettativa prima del decorso del termine di comporto. In tali casi, il datore di lavoro non ha la discrezionalità e non può negare l’accoglimento della richiesta.

Dunque, in definitiva, questo è quanto vi fosse di più utile, essenziale e necessario da sapere in merito alla questione di superamento del periodo di comporto sul proprio posto di lavoro. Ora, non vi resta che tornare al lavoro e tenere il più integro possibile, anche per la vostra salute, il fatidico periodo di comporto.

Superamento periodo di comporto, la malattia può essere sostituita con le ferie?

Quando la malattia può essere sostituita con le ferie? In questa rapida guida andremo a dare risposta a questa domanda e scoprire quali sono i limiti del superamento del periodo di comporto per un lavoratore.

Periodo di comporto, cosa vuol dire

Innanzitutto partiamo con il chiarire l’uso del termine tecnico con la definizione “periodo di comporto”.

Il periodo di comporto  non è altro che il periodo massimo di assenze per malattia che un lavoratore dipendente può fare senza correre rischi. La durata massima di assenza per malattia consentita, questo è il periodo cosiddetto di comporto, superato il quale, il lavoratore subordinato può rischiare il licenziamento.

Andiamo, nei paragrafi successivi a saperne di più sulla questione inerente alla sostituzione di tale periodo con le più canoniche ferie.

Ferie e periodo di comporto: si possono sostituire?

Diciamo subito che il periodo di malattia può essere sostituito. Infatti, per evitare rischi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, il lavoratore può chiedere la sostituzione della malattia con le ferie. Tale facoltà è tranquillamente riconosciutagli ormai unanimemente dalla giurisprudenza.

In questa modalità cambierà il conteggio di lontananza dal lavoro del lavoratore.

Va precisato, comunque che spetta al lavoratore presentare la richiesta di ferie, non potendo rimettersi all’iniziativa dell’azienda. Pertanto, se questi si limita a inviare i certificati di malattia senza soluzione di continuità e anche senza chiedere il cambiamento del titolo dell’assenza, dimostrando di voler proseguire lo stato di malattia, allora il licenziamento per superamento del periodo di comporto è decisamente più che legittimo.

Cosa avviene se la malattia è data da un infortunio sul lavoro?

Altra questione scatta nel caso in cui il dipendente finisse ammalato, quindi lontano dal lavoro per infortunio sul posto di lavoro.

Infatti, nel caso in cui la malattia sia stata determinata da un infortunio sul lavoro causato dalla mancata predisposizione, da parte del datore, delle misure di sicurezza, non opera più il comporto e l’assenza non è soggetta a limiti di tempo.

Quindi durante tutto il periodo della malattia, della convalescenza (che non è più periodo di comporto) qualunque sia la sua durata, il lavoratore conserva il diritto al posto di lavoro e non può essere assolutamente licenziato. Anzi, riceverà anche indennizzi assicurativi spettanti.

Si può licenziare un dipendente in malattia?

Una questione molto annosa è legata alla possibilità di licenziare un lavoratore che è in periodo di malattia.

La risposta basica è che non è possibile licenziare un dipendente in malattia a causa della sua assenza. E’ invece possibile farlo però per comportamenti che nulla hanno a che vedere con la patologia certificata dal medico. Per motivi gravi preposti, insomma nel periodo antecedente alla malattia o qualora si stia mettendo in atto una falsa malattia. O, ad esempio perché si comporta in modo da ostacolare la rapida convalescenza (si pensi al dipendente che, nonostante l’influenza, esce di casa o fa sport). 

Di norma, il licenziamento del lavoratore malato non può essere intimato quando l’assenza non supera i limiti di durata fissati nel contratto collettivo. È in questo caso che si definisce periodo di comporto durante il quale il lavoratore ha sacrosanto diritto alla conservazione del posto di lavoro. 

Alla scadenza del periodo di comporto, il datore di lavoro è libero di licenziare il dipendente senza dover fornire una giustificazione o di riammetterlo in azienda al fine di verificare se residua ancora un’utilità nelle sue mansioni. Ovviamente, qualora sussistano motivi seri per cui procedere.

Questo è quanto vi fosse, dunque, di più utile e necessario da sapere e approfondire in merito alla situazione di un lavoratore che si ritrova in malattia e, quindi, a sfruttare il proprio periodo di comporto sul posto di lavoro.

Come si calcola la durata del periodo di comporto?

Oggi andremo ad addentrarci nell’ambito del lavoro, della malattia sul lavoro e quindi a scoprire come si calcola la durata del cosiddetto periodo di comporto.

Periodo di comporto, cosa vuol dire

In un periodo in cui il paese intero è nel pieno di una (rallentata) ripartenza e di un atteso ritorno alla (insperata) normalità, ma soprattutto in cui molti lavoratori sono sospesi ed altri sono volontariamente messisi in malattia, per non aderire all’obbligo di green pass, molti si interrogano su come calcolare il proprio periodo di comporto. Per coloro che hanno ancora un lavoro, al tempo d’oggi, si intende.

Innanzitutto, per iniziare ad avvicinarsi al ragionamento del calcolo, occorre sapere cosa vuol dire il termine periodo di comporto.

In breve possiamo dire che il periodo di comporto non è altro che il periodo massimo di assenze per malattia che un lavoratore dipendente può fare senza correre rischi. La durata massimadi assenza per malattia consentita, questo è il periodo cosiddetto di comporto, una volta superato il quale, il lavoratore subordinato può rischiare il licenziamento.
Ma, come si calcola, dunque tale limite massimo di periodo di comporto? Scopriamolo nei prossimi passi di questa rapida guida in merito.

Periodo di comporto, come calcolare la durata

Andiamo, dunque, nello specifico a scoprire come si calcola la durata massima del proprio periodo di comporto sul posto di lavoro. E, quindi a scoprire come si deve evitare di mettersi in pericolose possibilità di perdere il proprio posto di lavoro.
Possiamo dire che al fine del calcolo del periodo di comporto occorre tener conto anche dei giorni non lavorativi che cadono nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso e la presunzione di continuità opera sia per le festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella differente ipotesi di certificati in sequenza, di cui il primo attesti la malattia fino al tempo dell’ultimo giorno lavorativo che va a precedere il riposo domenicale (quindi fino al venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).
Per concludere il discorso, va aggiunto che la base annua cui va rapportato il periodo di comporto si identifica nell’anno solare e cioè dei 365 giorni decorrenti dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia, se continuativa, ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento. In sostanza, nel calcolo dei giorni ai fini del superamento del periodo di comporto la decorrenza non va fatta a partire dall’inizio della malattia, bensì dall’ultimo evento morboso, ovvero dal licenziamento.
Per dirla con un esempio ancora più pratico e tangibile, possiamo dire che il periodo di comporto può essere calcolato prendendo a riferimento un arco temporale pari sia all’ anno di calendario solare, quindi dal 1° gennaio al 31 dicembre sia come anno continuativo, da intendersi come un periodo di 365 giorni decorrenti dal primo evento di malattia.
Questo è quanto vi fosse, dunque, di più necessario e utile da sapere in merito al calcolo del periodo di comporto, alla possibilità di perdurare della malattia e/o dell’inattività dal proprio posto di lavoro, in un periodo sempre più incerto per il mondo del lavoro, oltre che per la salute pubblica.

Calcolo periodo di comporto: come funziona per festivi, giorni non lavorativi e non lavorati?

Il periodo di comporto nel mondo del lavoro è spesso motivo di polemica, di curiosità o di preoccupazione, per il calcolo della sua funzionalità. In questa rapida guida scopriremo come funziona il calcolo in merito ai giorni festivi, giorni non lavorativi e giorni non lavorati.

Periodo di comporto, cosa è e come si calcola

Il periodo di comporto non è altro che il tempo debito per la malattia del dipendente, insomma il periodo in cui il lavoratore è in pausa dal lavoro.

La breve premessa era doverosa, datosi che genericamente viene semplificato come “periodo di malattia”, ed è quella durata di tempo massimo che è consentita preventivamente, già in accordo tra titolare e dipendente e che non può essere superato. Ad esempio, il canonico tetto massimo di 180 giorni di malattia, che talvolta sono di meno. Da non confondere con i canonici 15/25 giorni di ferie in base al proprio lavoro.

Ma come si calcola e come funziona per i festivi e differenziandolo tra giorni non lavorativi e quelli non lavorati, lo scopriamo nei prossimi passaggi della nostra guida.

Come funziona il periodo di comporto per festivi

Innanzitutto, cosa si intende per giorni festivi. In pochi ancora non lo sanno.

Ovviamente, quando si parla di giorni festivi si fa espressamente riferimento a giorni in cui non si lavora, da calendario. Quindi le domeniche (a meno che non siate un’attività di beni primari, come farmacie o bar e ristoranti, per intenderci) e quelle date segnate in rosso sul calendario, come il primo gennaio e il 25 dicembre, per esempio.

In tal senso si parla, quindi, di giorni non lavorativi, nei quali appunto non si può e non si dovrebbe lavorare, da previsione di legislatura.

Nel caso dei giorni non lavorati, invece il riferimento è ai giorni in cui non ha lavorato il dipendente, ma nei quali avrebbe dovuto lavorare. E, quindi, a meno che non abbia usufruiti delle ferie, gli verrà decurtato dalla busta paga.

Ad esempio, in caso di paga mensile, è spesso presente la riga “Ore non lavorate” che ha lo scopo di decurtare dall’importo della paga mensile, indicata alla voce “Ore ordinarie”, le ore in cui il lavoratore é stato assente a causa di festività, maternità, ferie, congedo matrimoniale, malattia e infortunio.

Come si calcola il comporto in tali casi, distinguendo tra giorni festivi, non lavorativi e giorni non lavorati

Quindi, veniamo alla domanda cruciale della nostra guida, ovvero come calcolare il comporto tra festivi, giorni non lavorativi e non lavorati.

In sintesi, possiamo dire che al fine del calcolo del comporto occorre tener conto anche dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso e la presunzione di continuità va ad operare sia per le festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all’ultimo giorno lavorativo che precede il riposo domenicale (ossia fino al venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).

Ciò significa, per dirla in breve, che è necessario rientrare al lavoro non appena termina la malattia indicata sul certificato e che non è possibile prorogarla anche ai giorni festivi come il sabato e la domenica: l’interruzione della malattia utile ai fini del comporto si ha dal giorno in cui il lavoratore riprende concretamente servizio

Quanto letto fin qui era, dunque, quanto di più utile, esaustivo e necessario da appurare e scoprire in merito alla questione del calcolo del comporto, tenendo in considerazione il distinguo per i giorni festivi, con quelli non lavorativi e quelli effettivamente non lavorati dal dipendente, per eventuali casi di malattia.