Save the Children: nel PNRR maggiore impegno per l’infanzia

Save The Children ha lanciato l’allarme sulle condizioni di vita dei più piccoli in Italia e ha sottolineato anche la necessità di inserire nel PNRR misure che possano aiutare a superare le differenze e quindi richiede un maggiore impegno per l’infanzia a rischio povertà.

Allarme sulla condizione dell’infanzia in Italia: divario eccessivo con l’Unione Europea

Save The Children da anni lancia l’allarme sulla condizione dell’infanzia in Italia, questo perché già prima della pandemia c’era un’elevata fascia di bambini in stato di povertà assoluta e senza accesso ai servizi essenziali come nutrizione, cure e scuola.

Il report sottolinea che nel 2020, prima della pandemia,  oltre 1 milione e 300 mila bambini erano in condizione di povertà, questi rappresentano il 13,1% della popolazione infantile. Tale povertà non è solo economica, ma anche educativa infatti proprio tra questa fascia di bambini e adolescenti c’è il più elevato tasso di abbandono delle scuole. Ne consegue la crescente difficoltà a collocarsi nel mondo del lavoro in modo soddisfacente in quanto mancano anche delle competenze di base. Ciò è dovuto agli scarsi investimenti dell’Italia nel sistema scolastico, questi sono molto inferiori rispetto alla media europea.

Carenza educativa/formativa e povertà richiedono un maggiore impegno per l’infanzia

Dalle ricerche condotte emerge che in Italia anche i nativi digitali hanno competenze digitali molto basse e questo incide in modo negativo sulla possibilità di una reale partecipazione civica, visto che si va verso una sempre maggiore digitalizzazione di molte funzioni e si parla sempre più spesso di cittadinanza digitale. A questa povertà formativa si deve aggiungere una povertà materiale, purtroppo ci sono molti minori in Italia che non riescono neanche ad accedere a un pasto adeguato al giorno e la pandemia non ha facilitato la cosa, perché molti studenti riuscivano ad avere un solo pasto completo al giorno ed era quello della mensa scolastica a cui per lungo tempo non hanno avuto accesso.

I dati dicono che il 6% dei ragazzi da 0 a 15 anni non ha un’alimentazione adeguata e con la pandemia 160.000 bambini hanno perso anche il pasto della mensa scolastica. A ciò deve aggiungersi che non tutte le scuole hanno le mense (il 44% degli allunni della primaria non vi ha accesso, su 40.000 istituti solo 10.000 ne sono dotati) e in alcune Regioni questi dati sono particolarmente allarmanti. Ecco perché è necessario puntare sul PNRR per riuscire a migliorare le infrastrutture e la condizione dell’infanzia.

PNRR: maggiore impegno per l’infanzia e incremento nidi

Il PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è stato approvato dal Parlamento nel mese di luglio del 2021 e in precedenza era stato già approvato anche dalla Commissione Europea e prevede un piano di uso delle risorse provenienti dall’Unione Europea che sembra andare nella direzione auspicata da Save The Children.

In totale per istruzione e università sono stati stanziati 19,44 miliardi da spendere in questa prima fase di rilancio. Gli stessi andranno a finanziare un aumento importante dell’offerta formativa con un incremento del numero di posti disponibili negli asili nido pubblici. Oggi solo il 25,5% dei bambini in questa fascia d’età ha un posto disponibile in nidi pubblici, l’obiettivo è raggiungere il 33%, percentuale inferiore comunque alla media europea del 36%. I nidi accolgono i bambini da 0 a 3 anni di età ed è previsto un aumento di posti disponibili di 228.000 unità. Il piano asili nido prevede uno stanziamento di 4,6 miliardi di euro.

Sport e mense scolastiche: piano infrastrutture

Importanti investimenti saranno fatti anche per migliorare le infrastrutture e tra queste vi sono 0,30 miliardi di euro destinati alle palestre che dovrebbero contribuire, in base ai costi stimati attraverso interventi precedenti, a intervenire su circa 400 palestre, naturalmente pubbliche. L’obiettivo è favorire lo sport come strumento per lo sviluppo sano ed equilibrato dei giovani che devono avere spazi “sani” per un inserimento sociale adeguato.

Il miglioramento delle infrastrutture mira ad aumentare anche l’accesso alle mense scolastiche soprattutto nelle Regioni in cui vi è una maggiore richiesta, come Piemonte e Lazio. Per l’estensione del tempo pieno e per la realizzazione di mense lo stanziamento è di 0,96 miliardi di euro.

Maggiore impegno per l’infanzia nel contrasto all’abbandono scolastico

Il PNRR sottolinea che in Italia i ragazzi di 15 anni hanno una preparazione molto inferiore rispetto alla media OCSE (Oraganizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico), difficoltà si incontrano soprattutto in lettura, matematica e scienze. Andando ad analizzare nel dettaglio questi dati emerge che la povertà conoscitiva è molto più grave nelle regioni del Sud, rispetto a quelle del Nord, in genere comunque il tasso di abbandono scolastico è strettamente correlato alla povertà.

In Italia il 14,5% dei ragazzi di età compresa tra 18 e 24 anni non ha un titolo di scuola superiore di secondo grado e solo il 24% dei ragazzi tra 24 e 34 anni ha un titolo di studio terziario (laurea), nel resto dell’OCSE è del 44%. A questo divario contribuisce anche la carenza di strutture residenziali per accogliere gli studenti che di conseguenza si trovano a dover far fronte a spese di locazione spesso molto elevate e a cui non sono in grado di provvedere. Per questo obiettivo attualmente sono stanziati 0,96 miliardi di euro. Infine, 0,50 miliardi di euro sono previsti per un aumento delle borse di studio.

Tra gli obiettivi del PNRR c’è anche quello di incrementare il numero degli iscritti presso gli ITS modificandone la missione e quindi incrementando la collaborazione tra scuola e impresa. Per questo obiettivo sono stanziati 1,50 miliardi di euro.

Tra gli obiettivi c’è il miglioramento del sistema di reclutamento degli insegnanti di ogni ordine e grado anche perché il PNRR con le misure previste per l’infanzia dovrebbe aiutare le donne nella conciliazione tra i tempi di lavoro e la famiglia e dovrebbe aumentare l’occupazione femminile.

Certo non è facile immaginare oggi l’impatto reale di queste misure sulle condizioni dei minori, ma di sicuro si tratta di un primo passo.

Non cala il disagio sociale in Italia

Se alcuni degli indicatori economici italiani hanno cominciato a virare in positivo nel 2015, confermando la svolta nei primi mesi di quest’anno, c’è un indice che, purtroppo, è rimasto invariato a inizio 2016: l’indice del disagio sociale elaborato da Confcommercio.

Secondo una nota della confederazione dei commercianti, l’indice del disagio sociale a gennaio è risultato stabile a 19,5 punti. Pur non trattandosi di un indice dalla scientificità assoluta, è comunque un dato che fa tenuto in considerazione.

A fronte di un tasso di disoccupazione esteso (disoccupati in senso stretto + cassintegrati a zero ore + scoraggiati) che resta stabile al 15,4%, “la moderata tendenza all’ampliamento dell’area del disagio sociale rilevata nell’ultimo bimestre – recita la nota di Confcommercioriflette le difficoltà dell’economia a instradarsi su un sentiero di ripresa sostenuta, atta a garantire miglioramenti significativi dei livelli occupazionali e reddituali delle famiglie”.

Il quadro economico interno – prosegue la nota sul disagio socialeè, infatti, ancora caratterizzato da alcuni elementi di discontinuità che impediscono, pur in un contesto di graduale miglioramento degli indicatori, di creare opportunità di lavoro adeguate a ridurre in modo significativo sia il numero di coloro che sono attivamente in cerca di un’occupazione (disoccupati ufficiali), sia di quanti per ‘scoraggiamento’ cercano un lavoro in modo più discontinuo”.

Partite Iva centrali per la ripresa? Balle

A volte non si sa se fa più male leggere certi numeri e certe statistiche relative alle partite Iva in senso assoluto o in comparazione con altri dati sempre riguardanti i lavoratori autonomi. Ciò che è certo è che le cosiddette serie storiche dei dati aiutano a riflettere e a fare considerazioni troppo spesso amare. Anche e soprattutto nei confronti delle partite Iva.

Abbiamo scritto ieri dello studio della Cgia che ha evidenziato come, nel 2014, una famiglia su quattro il cui reddito è stato dipendente da partite Iva ha vissuto al di sotto della soglia di povertà. Un dato inquietante, che inquieta ancora di più se vediamo che cosa scrivevano gli artigiani mestrini un anno fa.

Sconcerta infatti constatare che la percentuale di partite Iva che, nel 2014, si sono trovate in questa condizione di permanente necessità sia rimasta invariata rispetto al 2013: 24,9% era, 24,9% è rimasta. Dove sono quindi, gli investimenti e le iniziative a favore della libera professione tanto pubblicizzate dall’attuale governo? Quelle che ci sono, evidentemente, non funzionano.

E non funzionano nemmeno quelle a sostegno dei dipendenti, che già di loro possono godere di una certezza del reddito (alto o basso che sia) e di misure a sostegno di quest’ultimo nel caso della perdita del lavoro. Nel 2013 erano il 14,4% delle famiglie di questa categoria a essere al di sotto della soglia di povertà, mentre nel 2014 sono cresciute al 14,6%. Si salvano per il rotto della cuffia i pensionati: il 20,9% era in povertà nel 2013 e tale è rimasto nel 2014.

Allo stesso modo, il paragone tra le cessazioni di attività delle partite Iva e il numero di lavoratori dipendenti che ha perso il posto dal 2008 al primo semestre 2014 e al primo semestre 2015 è impietoso nei confronti degli autonomi: 2014, -6,3% autonomi e -3,8% dipendenti; 2015, -4,8% autonomi e -2,4% dipendenti. Insomma, c’è qualcosa che non va. Sempre a danno delle partite Iva.

Tanto per rincarare la dose, poi, citiamo anche i dati del quarto rapporto Adepp (Associazione degli Enti Previdenziali Privati) sulla previdenza privata, secondo il quale dal 2005 al 2013 i redditi medi reali prodotti dalle partite Iva sono scesi del 13%, che significa -18% in termini di volume d’affari vicino al 18 per cento.

Solo prendendo ad esempio alcune tra le più rappresentative categorie di partite Iva, un architetto o un ingegnere under 40 hanno guadagnato in media 18.187 euro all’anno contro i 29.455 di un dipendente privato e i 35.157 di un dipendente pubblico. Più o meno quanto le partite Iva iscritte alla gestione separata dell’Inps (18.640 euro). Meglio è andata, si fa per dire, ai commercialisti (23.207) e agli avvocati (24.738).

Categoria, quest’ultima, con il 45% degli iscritti che ha un reddito inferiore a 10.300 euro all’anno e nella quale, nel 2013, oltre 2.500 iscritti hanno chiuso in perdita e oltre 22mila non hanno inviato alla Cassa forense il pagamento dei contributi legato al fatturato.

Partite Iva centrali per la ripresa economica del Paese? Ma di che cosa stiamo parlando se le partite Iva più fortunate riescono a farsi pagare a 90 giorni (quando vengono pagate…) e non possono fruire dell’Iva per cassa, per cui devono scegliere se pagare tasse e contributi o mettere in tavola un piatto di minestra per sé e la famiglia ogni sera? Ma andiamo!

Partite Iva, i nuovi poveri

Non è la prima volta e, temiamo, non sarà l’ultima che sentiamo dire, dati alla mano, che i nuovi poveri sono i professionisti, le partite Iva, gli autonomi. Questa volta l’analisi forte dei numeri (che, si sa, li puoi leggere dalla parte che vuoi ma non mentono) l’ha fatta l’Ufficio studi della Cgia.

Ebbene, secondo le elaborazioni degli artigiani mestrini, nel 2014 il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha vissuto con una disponibilità economica inferiore a quella che l’Istat considera la soglia di povertà: 9.455 euro annui.

Il divario tra le famiglie delle partite Iva in condizioni di indigenza e quello delle famiglie dei pensionati o dei lavoratori dipendenti è evidente: 20,9% tra i pensionati, 14,6% tra i lavoratori dipendenti.

Sempre secondo la Cgia, tra il 2010 e il 2014 il numero di famiglie del popolo delle partite Iva in condizioni di povertà è aumentato del 5,1% (invariato nel 2014), a fronte di un -1% tra i pensionati e di un +1% tra i dipendenti.

L’Ufficio Studi della Cgia sottolinea poi un dato interessante. Dal 2008, anno di inizio della crisi, al primo semestre 2015 il numero dei lavoratori autonomi e della partite Iva in Italia è calato, in termini assoluti, molto meno rispetto a quello dei lavoratori dipendenti (-260mila contro -408mila), ma in percentuale esattamente del doppio: -2,4% contro -4,8%.

Se si prova a spacchettare il dato per aree geografiche, si nota che il calo più consistente di partite Iva tra il 2008 e il primo semestre 2015 ha interessato il Sud (-7,5%, pari a -120.700 unità,), seguito dal Nordest (-5,8%, pari a -67.800 unità), dal Nordovest (-5,3%, pari a -82.500 unità). In controtendenza il Centro: +1 per cento, pari a +11.300 unità.

Amara la riflessione del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Purtroppo questi dati dimostrano che la precarietà presente nel mondo del lavoro si concentra soprattutto tra il popolo delle partite Iva. Sia chiaro, la questione non va affrontata ipotizzando di togliere alcune garanzie ai lavoratori dipendenti per darle agli autonomi, ma allargando l’impiego di alcuni ammortizzatori sociali anche a questi ultimi che, almeno in parte, dovrebbero finanziarseli”.

Infatti, prosegue Zabeo, “quando un lavoratore dipendente perde momentaneamente il posto di lavoro può disporre di diverse misure di sostegno al reddito. E nel caso venga licenziato può contare anche su una indennità di disoccupazione. Un autonomo, invece, non ha alcun paracadute. Una volta chiusa l’attività è costretto a rimettersi in gioco affrontando una serie di sfide per molti versi impossibili. Oggigiorno è difficile trovare un’altra occupazione; l’età spesso non più giovanissima e le difficoltà congiunturali costituiscono un ostacolo insormontabile al reinserimento nel mondo del lavoro”.

Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.

Lavoratori a partita Iva, guerra tra poveri

Abbiamo visto ieri come, secondo la Cgia di Mestre, i lavoratori a partita Iva sono di fatto i nuovi poveri. Tra questa guerra di straccioni, però, c’è sempre chi è più povero degli altri: nello specifico, si tratta delle lavoratrici a partita Iva. In un recente convegno svoltosi a Roma, l’Associazione 20 Maggio ha fatto il punto su questa sconcertante realtà analizzando alcuni dati dell’Inps secondo i quali la media dei compensi di tutti i lavoratori a partita Iva 2013 è di 19mila euro lordi annui. Una miseria, ma se si considera che a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini, il dato appare ancora più scandaloso. Gli uomini percepiscono in media redditi di 23.874 euro, mentre le donne di 12.185.

A proposito di cifre, l’Associazione fa notare che con un compenso lordo medio di 18.640 euro, il reddito netto annuo dei lavoratori a partita Iva iscritti alla Gestione separata si riduce a 8.679 euro, pari a 723 euro mensili. Osservando poi la distribuzione per fasce di età, si nota che su 1 milione e 259mila lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48% del totale) e il 33% ne ha più di 50 anni.

È quindi evidente che il lavoro parasubordinato riguarda soprattutto lavoratori e lavoratrici adulte e con famiglia, queste ultime in maggioranza nella fascia under 39; dopo questa età, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali di cui godono i collaboratori, tendono a lasciare il lavoro in concomitanza con la nascita dei figli. Inoltre, le più colpite dalla disparità di trattamento economico sono le fasce d’età dai 40 a i 49 anni, ossia le lavoratrici all’apice della carriera.

Per non parlare dei giovani lavoratori a partita Iva: tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230mila unità, con un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% nella fascia 25-29 anni. Attenzione alla soglia di povertà…

Lavoratori autonomi, i nuovi poveri

Quando ci sono di mezzo studi e ricerche della Cgia sui lavoratori autonomi, spesso i temi vengono affrontati in maniera volutamente provocatoria e “sopra le righe”, ma in questo caso la tematica è brutalmente cruda nel suo essere semplice ed evidente: secondo l’Ufficio Studi dell’associazione, tra i lavoratori autonomi 1 su 4 è a rischio povertà.

Il dato emerge da una ricerca secondo la quale nel 2013 il 24,9% delle famiglie in cui i lavoratori autonomi portano a casa il reddito principale ha vissuto con un reddito disponibile inferiore a 9.456 euro annui, che è la soglia di povertà calcolata dall’Istat.

Per le famiglie con reddito da pensioni, il 20,9% ha percepito entro la fine dell’anno un reddito inferiore della soglia di povertà, mentre per quelle dei lavoratori dipendenti il tasso si è fermato al 14,4%, ossia quasi la metà rispetto al dato riferito alle famiglie dei lavoratori autonomi.

Secondo la Cgia, dal 2008 al primo semestre di quest’anno i lavoratori autonomi che hanno chiuso l’attività sono stati 348.400, pari a una contrazione del 6,3%. Il numero dei lavoratori dipendenti, invece, si è ridotto di 662.600 unità, in termini percentuali un -3,8%. Sempre paragonando lavoratori autonomi e dipendenti, la Cgia fa notare che il reddito delle famiglie dei primi ha subito in questi ultimi anni un taglio di oltre 2.800 euro (-6,9%), mentre quello dei dipendenti è rimasto pressoché identico.

I lavoratori autonomi hanno sofferto specialmente al Sud. Tra il 2008 e il primo semestre di quest’anno la riduzione delle partite Iva nel Mezzogiorno è stata del 9,9% (pari a -160.000 unità), nel Nord Ovest del 7,8% (-122.800 unità), nel Nord Est del 4,3% e nel Centro dell’1,3 per cento.

Allarmato il commento del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi: “A differenza dei lavoratori dipendenti quando un autonomo chiude definitivamente bottega non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassaintegrazione in deroga e/o ordinaria/straordinaria. Una volta chiusa l‘attività ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di un nuovo lavoro. Purtroppo non è facile trovarne un altro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento costituiscono una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero”.

È quindi evidente che, a quasi sette anni dallo scoppio della crisi, il cosiddetto ceto medio è sempre più in difficoltà: oggi, quello composto dai lavoratori autonomi è il corpo sociale che più degli altri è scivolato verso il baratro della povertà e dell’esclusione sociale.

Un terzo degli italiani è a rischio di povertà

Il dato reso noto da Istat non è certo passato inosservato, perché, nel terzo millennio, si sta assistendo ad un ritorno alle condizioni di mezzo secolo fa.

La crisi economica, infatti, ha dato una pericolosa battuta d’arresto al progresso, in particolare per quanto riguarda le famiglie italiane, ora per un terzo a rischio di povertà.
Rispetto al 2011, l’indicatore è cresciuto dell’1,7%, ed è elevato di 5,1 punti percentuali rispetto alla media europea.

L’indice prende in considerazione coloro che sperimentano almeno una tra queste tre condizioni: rischio di povertà (parametro in linea con il 2011 al 19,4%, dopo l’incremento vissuto tra il 2010 e il 2011), severa deprivazione materiale (aumentata dall’11,2% al 14,5%) e bassa intensità di lavoro (condizione rimasta stabile rispetto al 2010 al 10,3%).

Cil che allarma, tra queste voci, è l’impennata della “severa deprivazione”, ovvero di quegli individui che vivono in famiglie che non possono permettersi durante l’anno una settimana di ferie lontano da casa (dal 46,7% al 50,8%), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente la propria abitazione (dal 18% al 21,2%), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (dal 38,6% al 42,5%) o che, se volessero, non potrebbero permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 12,4% al 16,8%).

A livello geografico questa condizione si concentra soprattutto nel Mezzogiorno: +5,5 punti (dal 19,7% al 25,2%), contro +2 punti del Nord (dal 6,3% all’8,3%) e +2,6 punti del Centro (dal 7,4% al 10,1%). Si tratta soprattutto di famiglie numerose (39,5%) o monoreddito (48,3%).
Aumenti significativi si sono registrati soprattutto tra gli anziani soli (dal 34,8% al 38,0%), i monogenitori (dal 39,4% al 41,7%), le famiglie con tre o più figli (dal 39,8% al 48,3%), se in famiglia vi sono almeno tre minori.

Vera MORETTI