Giorgia Meloni, Fisco deve essere amico delle imprese. Stop comportamenti vessatori

Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha partecipato attraverso un video-messaggio all’Assemblea dell’Ance ( associazione nazionale costruttori edili) che si è tenuta a Roma. Diversi i punti toccati nel suo intervento, ma ha puntato soprattutto sulla necessità di un Fisco alleato delle imprese, obiettivo da realizzare con la riforma fiscale.

Giorgia Meloni ai costruttori edili: il fisco deve essere amico delle imprese

La partecipazione di Giorgia Meloni all’assemblea dell’Ance ha un importante significato, infatti la categoria dei costruttori edili è in allarme a causa delle difficoltà create dal blocco delle cessioni del credito e dai crediti incagliati. Non ha però toccato l’argomento. Ha invece concentrato l’attenzione sul disegno di legge di delega fiscale sottolineando che fin dalla prima stesura è stata chiesta la collaborazione dei professionisti che si occupano di fisco e in particolare dei commercialisti e che molti spunti da loro offerti sono entrati nel disegno di legge di delega.

Giorgia Meloni ha ribadito che è arrivato il momento di cambiare passo, non è giusto che le imprese siano sempre accompagnate dal pregiudizio di evasione fiscale, deve essere data loro fiducia perché sono il fulcro dell’economia, solo nel momento in cui effettivamente si scoprono comportamenti non leali con il Fisco è necessario prendere provvedimenti. Il fisco non deve più avere un atteggiamento vessatorio.

Interventi in favore delle imprese

Dal punto di vista pratico questo nuovo atteggiamento si sostanzia nella semplificazione burocratica, a cui si aggiungono sgravi per le aziende che assumono. Il principio deve essere che più si assume più si aiuta lo Stato e di conseguenza chi assume deve essere premiato. Il meccanismo di premialità dovrà tenere in considerazione il rapporto tra fatturato e spesa per il personale.

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Un altro principio base della riforma fiscale è la riduzione del carico fiscale e in questo caso Giorgia Meloni accenna nuovamente alla flat tax incrementale per i lavoratori dipendenti, ipotesi che sembrava accantonata nei giorni passati.

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Naturalmente anche la riduzione delle aliquote Irpef da tre a due e l’eliminazione delle microtasse, come il Superbollo contribuscono effettivamente a ridurre la pressione fiscale.

Un altro punto toccato riguarda le sanzioni tributarie che secondo il Presidente del Consiglio devono essere proporzionate in modo da non mettere in eccessiva difficoltà le imprese.

Giorgia Meloni ha sottolineato che il cambio di passo del Governo verso le imprese è molto evidente, infatti già nei mesi scorsi vi sono stati provvedimenti come la sospensione dell’invio di avvisi di accertamento nel mese di agosto e lo spostamento dei termini di versamento che ricadono nel periodo feriale.

Pressione fiscale sempre più su

Ci risiamo. Ogni volta che escono i dati sulla pressione fiscale in Italia, è un pianto greco per tutti. Questa volta i numeri sono quelli elaborati dal Centro studi di Unimpresa nel rapporto “Pressione fiscale e conti pubblici nel confronto internazionale”, che certificano ancora una volta come il nostro Paese abbia in record europeo di tasse e una pressione fiscale tra le più elevate dei Paesi industrializzati.

Unimpresa rileva infatti che la pressione fiscale è salita dal 39% del 2005 al 43,5% del Pil nel 2015. Questo il dato assoluto, ancora più impietoso se comparato a quello degli altri Paesi avanzati. La pressione fiscale media nell’area Euro, nello stesso periodo è passata dal 39,4% al 41% del Pil, in Germania dal 38,4% al 39,6%, nel Regno Unito dal 35,7% al 34,8%, negli Usa dal 26,3% al 26,4%.

E il dato italiano rilevato da Unimpresa non tiene conto dell’incidenza del sommerso, che nel nostro Paese è fortissima e fa lievitare la pressione fiscale reale di alcuni punti percentuali.

Ciò che più rammarica, però, è il fatto che alla crescita delle entrate, nel decennio preso in esame non ha fatto seguito un miglioramento del debito pubblico. Se, infatti, la pressione fiscale era al 39,1% del Pil nel 2005 ed è salita fino 43,5% nel 2015, sono cresciute contemporaneamente le entrate per l’erario (dal 42,5% del Pil al 47,6%) ma lo stesso ha fatto il debito pubblico, anzi, peggio: dal 101,9% del 2005 al 132,7% del 2015.

Anche in questo caso, sul fronte del rapporto debito-Pil, siamo messi peggio degli altri. Nella media dell’area euro, Italia esclusa, nel 2015 questo rapporto si è attestato all’83,3%, a fronte di una pressione fiscale del 41% e di entrate pubbliche al 46,3%; nel Regno Unito le tasse erano al 34,8%, le entrate al 38,8% e il debito pubblico all’89,2%; negli Usa, 26,4% di tasse (dato però riferito al 2014), 33,1% di entrate (sempre 2014) e 111,7% di debito (nel 2015); in Germania tasse al 39,6% del Pil, entrate al 44,6% e debito al 71,2%; in Francia tasse al 47,8%, entrate al 53,2%, debito al 95,8%.

Inoltre, secondo lo studio di Unimpresa, la pressione fiscale in Italia colpisce a tutti i livelli: abbiamo la percentuale più alta per le imposte sui consumi (Iva, aliquota massima al 22%), per le imposte personali sul reddito (Irpef, aliquota massima al 48,9%), per le imposte sul reddito delle società (Ires, aliquota massima al 31,4%).

Amaro il commento di Claudio Pucci, vicepresidente di Unimpresa con delega al fisco e ai bilanci: “La pressione fiscale è il principale ostacolo alla crescita economica del nostro Paese. Un primo passo è stato attuato con le modifiche introdotte dal governo attualmente in carica, che ha abolito l’Irap sul costo del lavoro. Tuttavia, continua a permanere l’incidenza di una imposta che non ha nessuna ragione di esistere, se non quella di fare cassa”.

Le tasse calano? Balle

E meno male che tutti i governi, di destra o di sinistra, che si sono alternati negli ultimi anni al governo dell’Italia hanno sostenuto di voler abbassare le tasse. Peccato che sia successo esattamente il contrario, almeno stando a quanto emerge dai conteggi effettuati dall’Ufficio studi della Cgia.

Ebbene, stando a questi calcoli, negli ultimi 6 anni le imposte nazionali e locali hanno continuato ad aumentare. Le prime, al netto del bonus Renzi, sono salite del 6,1%, le tasse locali dell’8%.

Aumento invertito in termini di valore assoluto: +21,6 miliardi per le tasse nazionali, +7,7 miliardi per quelle locali. In termini netti, dal 2010 a oggi, nonostante la pesante crisi economica, imprese e famiglie hanno sostenuto uno sforzo fiscale aggiuntivo in tasse di 29,3 miliardi di euro.

La Cgia ha anche rilevato che la composizione del gettito per livello di Governo è rimasta sostanzialmente identica. Su un totale di entrate tributarie di 483,2 miliardi nel 2015, al netto del bonus Renzi, il 21,6% del gettito ha finanziato le casse di Regioni e Comuni (104,4 miliardi), mentre il 78,4% è andato all’erario (378,8 miliardi). Nel 2010 la situazione era pressoché identica.

La Cgia ha anche analizzato nel dettaglio l’andamento delle principali tasse locali dal 2010 al 2015 e ha rilevato che solo l’Irap è calata in modo sensibile: -4,2 miliardi (-13%). Tutte le altre tasse sono cresciute in maniera piuttosto marcata: l’addizionale regionale Irpef è cresciuta di 3,1 miliardi (+39%) e l’addizionale comunale di 1,4 miliardi (+51%).

Sul fronte dell’imposta sugli immobili, il fisco locale ha dato il meglio di sé. Se nel 2010 l’Ici ha fatto incamerare ai comuni 9,6 miliardi, nel 2015 Imu e Tasi hanno portato nelle casse locali 21,3 miliardi, +120%. E meno male che le tasse calano…

La Cgia: pressione fiscale reale al 50,2%

La pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie è uno dei fattori che, in Italia, ostacolano maggiormente una vera ripresa. Ciò che più dà fastidio è che la pressione fiscale reale è molto diversa da quella “ufficiale”, che emerge molto spesso dalle stime governative. Questo perché la pressione fiscale reale è influenzata dall’economia sommersa.

Quest’ultima tra il 2011 e il 2013 è cresciuta di 4,85 miliardi di euro, a quota 207,3 miliardi di euro, il 12,9% del Pil, mentre quella al netto dell’economia non osservata è calata di 36,8 miliardi, sotto quota 1.400 miliardi.

Partendo da questi dati, l’Ufficio studi della Cgia ha stimato, in via molto prudenziale, che l’incidenza percentuale dell’economia non osservata sul Pil è rimasta la stessa anche dal 2013 al 2015, ed è arrivato a calcolare in quasi 211 miliardi di euro il peso dell’economia sommersa sul Pil nazionale lo scorso anno 2015, con rilevanti ricadute dal punto di vista fiscale.

Come ha commentato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 al lordo dell’operazione bonus Renzi, la pressione fiscale ufficiale in Italia è stata pari al 43,7%. Tuttavia, il peso complessivo che il contribuente onesto sopporta è di fatto superiore ed è arrivato a toccare la quota record del 50,2%”.

Secondo gli artigiani mestrini, la progressione della pressione fiscale ufficiale e ufficiosa negli ultimi 4 anni è stata costante: nel 2011 erano pari al 41,6% e al 47,4%, nel 2012 al 43,6% e al 49,9%, nel 2013 al 43,5% e al 49,9%, nel 2014 al 43,6% e al 50,0%, nel 2015 al 43,7% e al 50,2% (per il 2014 e il 2015 si tratta di stime).

Per avere un quadro di riferimento chiaro, la Cgia ricorda che “la pressione fiscale è data dal rapporto tra l’ammontare complessivo del prelievo (imposte, tasse, tributi e contributi previdenziali) e il Prodotto interno lordo (Pil) che si riferisce non solo alla ricchezza prodotta in un anno dalle attività regolari, ma anche da quella “generata” dalle attività sommerse (cioè non in regola con il fisco) e da quelle illegali che consistono in uno scambio volontario tra soggetti economici (contrabbando, prostituzione, traffico di sostanze stupefacenti)”.

Lapidario il commento del segretario della Cgia, Renato Mason: “E’ evidente che con un peso fiscale simile sarà difficile trovare lo slancio per ridare fiato all’economia del Paese in una fase dove la crescita rimane ancora molto debole e incerta”.

Pressione fiscale, l’allarme di Confcommercio

Quando non ci pensa la Cgia a far i conti della pressione fiscale invereconda cui è sottoposto il nostro Paese, ecco venire in soccorso della verità la Confcommercio. E lo fa con una denuncia senza appello: secondo l’ultima ricerca Confcommercio-Cer su finanza pubblica e tasse locali, dal 1995 al 2015, la pressione fiscale in Italia è passata dal 40,3% al 43,7% e le tasse locali sono passate da 30 miliardi a 103 miliardi di euro, +248%, mentre le tasse centrali sono balzate da 228 miliardi a 393 miliardi, +72%. Roba da terzo mondo.

Il dettaglio della ricerca dice poi che le imposte sugli immobili sono aumentate del 143%, passando da 9,8 miliardi a 23,9 miliardi di euro, mentre dal 2011 al 2015 la tassa sui rifiuti è aumentata del 50%.

E non è finita qui, perché anche per quest’anno la pressione fiscale è destinata ad aumentare, poiché Confcommercio stima che nel 2016 le imposte sugli immobili e sui rifiuti faranno registrare un aumento complessivo dell’80% rispetto al 2011, da 15,4 a 27,8 miliardi.

Il commento a questi dati del presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, è impietoso: “Il 2016 sarà un anno difficile, di sfida, perché ci entriamo con un dato inaspettato e deludente sul Pil dell’ultimo trimestre 2015, ma l’Italia ha le carte in regola per crescere in modo soddisfacente, le condizioni sono: abbattimento della spesa pubblica improduttiva per ridurre le tasse a famiglie e imprese e che la legge di stabilità esplichi tutti i suoi effetti competitivi“.

E non è tutto. “Anche se la spesa pubblica corrente si è finalmente ridotta nel 2015 – ha poi aggiunto Sangalli -, gli sforzi fatti non sono sufficienti. La crescita della pressione fiscale indebolisce il nostro sistema produttivo, già stremato da una crisi durissima. Ridurre il carico fiscale su imprese e famiglie è prioritario. Le nostre imprese, quelle del commercio, del turismo, dei servizi e dei trasporti non vogliono e non possono più pagare il conto di enti pubblici inefficienti. E soprattutto non vogliono subire trattamenti discriminatori e penalizzanti nel pagamento delle tasse locali”.

Pressione fiscale, zavorra per le imprese

Quando si tratta di parlare di impresa e fiscalità, il rischio di toccare un tasto dolente è sempre dietro l’angolo. E se questo tasto si chiama pressione fiscale, svoltare l’angolo non è nemmeno una manovra così difficile.

Lo sa benissimo Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza, che nei giorni scorsi a Milano, durante il convegno “Le novità fiscali per le imprese alla prova della loro attuazione” è tornato sull’argomento pressione fiscale con una valutazione secca ma anche con una proposta di collaborazione.

Dopo aver elogiato alcuni interventi positivi a favore delle imprese inseriti nell’ultima Legge di Stabilità, come il superammortamento e il nuovo welfare aziendale, positivi ”perché immediatamente utilizzabili dalle imprese”, Rocca si è poi tolto un sassolino dalla scarpa.

Non possiamo però dimenticare – ha affermato – che la fiscalità costituisce ancora una zavorra per il Paese. Basti pensare che la pressione fiscale effettiva per il 2015 è stimata al 49,4% del PIL dal Centro Studi di Confindustria e che non potrà diminuire finché non ridurremo la spesa corrente (al netto degli interessi è passata da 671 miliardi nel 2012 a 692 miliardi nel 2014)”.

In poche parole, le imprese fanno la loro parte, ma per la riduzione della pressione fiscale la leva principale da muovere è nelle mani della politica: “In sostanza – ha concluso Rocca -, abbiamo fatto passi in avanti, ma il percorso è ancora lungo e deve contare sull’impegno e la collaborazione per semplificare la vita delle imprese”.

Pressione fiscale sulle imprese? Cala sì, ma…

Quando si tratta di tasse, siano esse per le imprese o per i cittadini, dall’Italia non arrivano mai buone notizie. E se, secondo rapporto Paying taxes 2016 elaborato da Banca Mondiale e Pwc su 189 Paesi e riferito al 2014, la pressione fiscale complessiva sulle imprese italiane è sceso lo scorso anno al 64,8%, questa percentuale rimane la più alta in Europa, dove la media del cosiddetto total tax rate (tasse sulle imprese + costo del lavoro) è del 40,6%. Un abisso.

Analizzando nel dettaglio le due voci che compongono il total tax rate si scopre che sulla pressione fiscale complessiva delle imprese pesa di più il costo del lavoro delle tasse in senso stretto: 43,4%.

Questo stando alla banca mondiale. Il ministero dell’Economia prova invece a leggere il dato da un’altra prospettiva, ricordando come la pressione fiscale sulle imprese sia scesa del 12% in 10 anni, arrivando appunto al 64,8% del 2014 dal 76,8% del 2004. Secondo il Mef, il rapporto della Banca Mondiale non tiene conto di molte delle riforme messe in opera dall’attuale governo, i cui effetti si vedranno solo a partire da quest’anno; fatto che, secondo i tecnici del ministero, potrà incidere positivamente sul posizionamento dell’Italia sui prossimi rapporti della Banca Mondiale.

Quali sono queste misure, a detta del ministero, virtuose nei confronti della pressione fiscale? Il Mef cita i maxiammortamenti, il taglio dell’Ires, il credito d’imposta e l’eliminazione della componente Irap dal costo del lavoro (già introdotta). Senza dimenticare, naturalmente, gli sgravi sui contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato.

Oltre a mettere il dito nella piaga della pressione fiscale che grava sulle imprese italiane, il rapporto Paying taxes 2016 ha fatto il conto anche di quante ore, ogni anno, le imprese italiane e straniere devono impiegare per far fronte agli adempimenti fiscali. Anche in questo caso, come in quello della pressione fiscale, non ci facciamo una bella figura: 269 ore all’anno per pagare le tasse, contro una media mondiale poco più bassa (261) ma una media europea drammaticamente minore: 173 ore.

Se poi guardiamo al numero di pagamenti che le imprese devono effettuare annualmente, possiamo consolarci guardando i 25,6 di media mondiale, un po’ meno gli 11,5 europei. Ma fino a che non si abbassa la pressione fiscale, c’è poco da festeggiare…

Una, nessuna e… cento tasse

Che l’Italia sia un Paese di santi, poeti, navigatori e… tasse è cosa nota. Che ogni cittadino o impresa, tra imposte e tasse assortite, paghi ogni anno uno sproposito, altrettanto. Ma quante sono le tasse che paghiamo? Quali le più odiate? Quali le più strane? Quanto portano nelle tasche bucate dello Stato?

A tutte queste risposte ha provato a rispondere la Cgia, che ha sfruculiato tra tasse, tributi, ritenuti, accise, addizionali, imposte e chi più ne ha più ne metta, per arrivare alla sconcertante conclusione che gli italiani pagano in totale un centinaio di tasse diverse, tra imprese e privati cittadini.

Se, da un lato, il sistema tributario italiano non ha eguali nel mondo per quanto riguarda la fantasia delle cose da tassare, dall’altro è anche furbo nel tassare ciò che maggiormente porta gettito, dal momento che, come ha rilevato la Cgia, le prime 10 tasse della classifica valgono tutte insieme 417,7 miliardi di euro, pari all’86% del gettito tributario complessivo annuo.

Spacchettando il dato tra imprese e cittadini, per le prime le imposte maggiormente pesanti sono l’Ires (31 miliardi di euro nel 2014) e l’Irap (30,4 miliardi di gettito lo scorso anno). Per i secondi le imposte più gravose sono l’Irpef e l’Iva, che da sole costituiscono oltre la metà del gettito (53,1%). L’Irpef porta nelle casse dello Stato oltre 161 miliardi di euro (il 33,2% del gettito), l’Iva quasi 97 miliardi (19,9% del gettito).

Secondo il coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 ciascun italiano pagherà mediamente 8mila euro di imposte e tasse, importo che sale a quasi 12mila euro considerando anche i contributi previdenziali. E la serie storica indica che negli ultimi 20 anni le entrate tributarie pro-capite sono aumentate di 76 punti percentuali, molto di più rispetto all’inflazione che, invece, è salita del 47%”.

E per provare a non incazzarsi troppo per il modo in cui spesso lo Stato sperpera i soldi che imprese e cittadini gli elargiscono, direttamente dal sito della Cgia ecco la classifica delle 10 curiosità o stranezze delle tasse italiane.

  1. La tassa più elevata: l’Irpef;
  2. La tassa che paghiamo tutti i giorni: l’Iva;
  3. La tassa più pagata dalle società: l’Ires;
  4. La tassa odiata dalle imprese: l’Irap;
  5. La tassa più singolare: quella applicata dalle regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili;
  6. La tassa più lunga (come dicitura): imposta sostitutiva imprenditori e lavoratori autonomi regime di vantaggio e regime forfetario agevolato;
  7. La tassa più corta (esclusi gli acronimi): bollo auto;
  8. L’ultima grande imposta introdotta: la Tasi;
  9. La tassa più odiata dalle famiglie (fino al 2015): l’Imu/Tasi;
  10. Le tasse più stravaganti: le imposte sugli spiriti (distillazione alcolici), sui gas incondensabili e sulle riserve matematiche di assicurazione (tasse su accantonamenti obbligatori delle assicurazioni), la tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili, le sovraimposte di confine applicate dalla dogana (sugli spiriti, sui fiammiferi, sui sacchetti di plastica non biodegradabili).

Assoedilizia su fisco e imposte locali

Dopo la relazione annuale del Consiglio di Stato nella quale è stato lanciato l’allarme sulla capacità degli enti locali di far fronte alla sempre maggiore tassazione degli ultimi anni, è intervenuto con una nota in merito il presidente di Assoedilizia Achille Colombo Clerici.

A quali conclusioni conduce il rilievo della Corte dei Conti nella sua relazione sulla finanza locale – ha scritto Colombo Clerici -, secondo il quale la tassazione in sede locale è aumentata in questi anni sino ‘ai limiti della compatibilità con le capacità locali’? La conclusione a prima vista dovrebbe essere: riduciamo la tassazione locale. Ma come? Togliendo l’Imu, come dice Renzi ? Ma l’Imu sulla prima casa è giò stata tolta nel 2014. Togliendo la Tasi? Togliere la Tasi significherebbe far pagare in più agli uni quello che non pagano gli altri. Non è così che va risolto il problema”.

La denuncia della Corte – prosegue il presidente di Assoediliziava contestualizzata con riferimento all’intero sistema fiscale ed al rapporto tra fisco erariale e fisco locale. Visto che l’aumento del carico fiscale locale è stato, come abbiamo sempre denunciato, la conseguenza della riduzione dei trasferimenti effettuati storicamente dallo stato ai comuni, il carico dei tributi erariali avrebbe dovuto esser proporzionalmente alleggerito”.

Invece – chiosa Colombo Clericiè avvenuto esattamente l’opposto: lo Stato, non solo non ha ridotto il carico delle proprie imposte, ma lo ha addirittura aggravato, aumentando il peso dell’imposizione sui redditi con le addizionali e, dove ha potuto, con le riduzioni delle deduzioni, come è avvenuto nel campo delle locazioni. L’alleggerimento del carico fiscale andrebbe praticato soprattutto dove è intervenuto l’inasprimento del prelievo, come è avvenuto nel campo immobiliare”.

L’Imu andrebbe ritoccata, riducendola alla metà sugli immobili locati – dice ancora il presidente di Assoedilizia -, riprendendo con ciò l’orientamento della legge sul federalismo fiscale del 2011; e questo costerebbe alle finanze pubbliche uno scarso sacrificio, perché la relativa riduzione del gettito verrebbe in parte compensata da un recupero a tassazione Imu e Irpef di molti immobili, in quanto si incrementerebbe l’investimento in alloggi in locazione. E poi dovrebbe ritoccarsi il regime generale delle deduzioni e andrebbe introdotta una esenzione dall’imposta sui redditi locativi per tutte le nuove costruzioni”.

Solo in questo modo – conclude il presidente di Assoediliziala ‘torta’ del carico fiscale complessivo potrebbe cominciare a ribilanciarsi. Adesso c’è una fetta aggiuntiva: è rappresentata da quello che paghiamo ai comuni, o meglio, che paghiamo allo Stato e che questo ha tolto ai comuni, costringendo gli stessi a riprenderselo con tasse proprie”.

Italiani tartassati, i conti della Cgia

Mentre dal governo, nella persona del premier Matteo Renzi, arrivano annunci di tagli e abolizioni di tasse e imposte a partire dal 2016, c’è qualcuno che i conti su quante tasse pagano gli italiani li ha fatti in maniera seria, la Cgia. E, come spesso accade quanto la confederazione degli artigiani snocciola le sue cifre, le notizie non sono delle più rassicuranti.

Secondo la Cgia, infatti, gli italiani pagano in media ogni anno oltre 900 euro in più rispetto agli altri europei, 904 per la precisione. Siamo tra i più tartassati. L’Ufficio studi della Cgia ha confrontato la pressione fiscale dei principali Paesi Ue registrata nel 2014 e ha poi definito il differenziale di tassazione degli italiani rispetto ai contribuenti degli altri Paesi.

I dati elaborati dall’Ufficio studi della Cgia dicono che tra i principali Paesi dell’Unione presi in esame, la pressione fiscale più elevata è quella della Francia, dove il peso complessivo di imposte, tasse, tributi e contributi assomma al 47,8% del Pil. Dopo i cugini vengono i belgi con il 47,1%, gli svedesi (44,5%), gli austriaci (43,7%) e poi noi. Lo scorso anno la pressione fiscale in Italia è arrivata al 43,4% del Pil, quasi 3,5 punti in più rispetto alla media della Ue a 28 Paesi, dove era al 40%.

Nella propria comparazione, l’Ufficio studi della Cgia ha calcolato anche i maggiori o minori versamenti che ogni italiano sconta rispetto agli altri europei. Proprio da questo ha dedotto che, se la tassazione in Italia fosse nella media europea, ogni contribuente nel 2014 avrebbe risparmiato in media i 904 euro di cui sopra. Si tratta appunto di una media: in Italia, infatti, paghiamo mediamente 1.037 euro in più rispetto ai tedeschi, 1.409 euro rispetto agli olandesi, 1.701 euro in più rispetto ai portoghesi, 2.313 euro in più degli inglesi, 2.499 euro in più rispetto agli spagnoli e 3.323 euro in più rispetto agli irlandesi.

Un calcolo sulla pressione fiscale, quello elaborato dalla Cgia, che non tiene conto dell’effetto portato del cosiddetto “Bonus Renzi”. Se nel 2014 gli 80 euro destinati ai redditi medio-bassi dei lavoratori dipendenti sono costati alle casse dello Stato 6,6 miliardi, l’importo è stato contabilizzato come spesa aggiuntiva. Ragion per cui, se si ricalcola la pressione fiscale considerando anche questi 6,6 miliardi, la pressione fiscale cala al 43%. Un dato ancora del tutto “fuori mercato”.