Come chiudere l’attività di agente di commercio?

La chiusura dell’attività di agente di commercio necessita di alcuni passaggi indispensabili per la cancellazione presso la Camera di Commercio e la relativa chiusura della propria posizione al Registro delle imprese.  Cessando completamente la propria attività, infatti, l’agente andrà a cancellare definitivamente l’impresa dalla CCIAA.

Cessazione alla Camera di Commercio e chiusura partita Iva

La chiusura dell’attività di agente di commercio, e la relativa cancellazione, necessita della pratica da avviare all’Agenzia delle Entrate relativa alla chiusura della partita Iva. Ovvero, si chiude dapprima la partita Iva per allegare alla pratica della Camera di Commercio la ricevuta dell’Agenzia delle Entrate riguardante la chiusura dell’attività.

Invio della pratica di chiusura al Registro Imprese

Pertanto, la chiusura dell’attività deve essere inoltrata in modalità telematica al Registro Imprese della competente Camera di Commercio, predisponendo la pratica di Comunicazione Unica che concerne:

  • il modello di Comunicazione Unica;
  • il modello per il Registro delle Imprese.

Cancellazione imprese individuali: comunicazione al Registro Imprese

Normalmente, la chiusura dell’attività di agente di commercio coinvolge anche altri Enti e, dunque, va integrata. Oltre al modello per l’Agenzia delle Entrate, si presenta il modello per l’Inps (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) e quello per l’Inail (Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro). Ulteriori comunicazioni interessano la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) per il SUAP (Sportello Unico delle Attività Produttive).

Documenti necessari per la cancellazione alla Camera di Commercio

I documenti e gli strumenti necessari per la cancellazione alla Camera di Commercio sono di tre tipologie. Vi rientrano:

  • il dispositivo di Firma digitale;
  • la casella di Posta elettronica;
  • il software di compilazione e invio.

In alternativo al software, possono essere utilizzati:

  • Dire, ovvero il servizio delle Camere di Commercio per compilare le pratiche telematicamente;
  • Comunica Starweb, ovvero il servizio per la compilazione della comunicazione unica;
  • Pratica semplice per Impresa individuale, che può essere utilizzato solo dal titolare dell’impresa;
  • altre soluzioni offerte dal mercato.

Utilizzo servizi del mercato per la cancellazione della CCIAA

Nel caso in cui si volesse utilizzare i servizi offerti da professionisti in soluzioni aziendali, è necessario presentare tutta la documentazione necessaria. In particolare servono:

  • la richiesta di cessazione dell’attività e la cancellazione dalla Camera di commercio, da inviare tramite fax o posta elettronica certificata. Il servizio normalmente ha un costo di 50 euro oltre Iva;
  • la copia della cessazione attività e chiusura della partita Iva all’Agenzia delle Entrate in Pdf con firma digitale. A questo documento può pensarci lo stesso professionista con un costo stimato di circa 70 euro oltre Iva;
  • i costi da anticipare alla Camera di Commercio tra bolli, diritti e tariffe sono di 36 euro.

Agenti, in caso di cessazione dell’attività come mantenere i requisiti professionali

Può capitare che i soggetti, ovvero le persone fisiche, che cessino di svolgere l’attività all’interno di un’impresa, vogliano mantenere i requisiti professionali. In questo caso è necessaria l’iscrizione nell’apposita sezione a regime. Ovvero, gli interessati hanno di tempo 90 giorni, a pena di decadenza, per iscriversi nell’apposita sezione del Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative (REA) per mantenere nel tempo il proprio requisito professionale.

Che cos’è il numero REA di un’impresa?

Presso l’Ufficio del Registro Imprese della Camera di Commercio competente, tutti gli iscritti, compresi i soggetti collettivi e le imprese, individuali o societarie, hanno un numero REA con il quale la Camera di Commercio stessa acquisisce e utilizza tutte le notizie riguardanti:

  • sia la natura economica;
  • sia la parte statistica e amministrativa.

Iscrizione agenti che vogliano mantenere i requisiti professionali

La richiesta di iscrizione per mantenere i requisiti professionali si compila nella sezione “Iscrizione nell’apposita sezione (a regime)”, utilizzando il modello “ARC”. Nel modello deve essere indicato il motivo per il quale è cessato il rapporto con l’impresa di agenzia o di rappresentanza. Il modello va presentato utilizzando l’applicativo telematico “Comunica al Registro delle Imprese” di competenza nella residenza del richiedente.

Certezza della cessazione attività richiedente

La cessazione dell’attività dell’agente di commercio deve essere sempre certa e comprovata da documentazione. In particolare, alla domanda deve essere allegata, nell’apposita sezione, ad esempi0 la lettera di licenziamento. In alternativa, queste notizie devono essere desumibili dalla posizione del registro imprese o dal numero REA dell’impresa presso la quale l’agente svolgeva l’attività.

Cessazione attività, cosa deve fare l’agenzia preponente?

L’agenzia preponente presso la quale svolgeva l’attività l’agente di commercio dovrà comunicare entro 30 giorni la modifica, ovvero la cessazione dell’attività da parte dell’agente stesso. La comunicazione deve essere inoltrata tramite le sezioni “Anagrafica impresa” e “Modifiche” presenti sul modello ARC. Il modello ARC deve essere già sottoscritto e allegato alla pratica telematica (modello S5) da inoltrare al Registro delle Imprese.

Agente di commercio, cosa avviene se ricomincia l’attività?

Nel caso in cui l’agente, che alla cessazione della precedente attività aveva chiesto di mantenere i requisiti professionali, voglia ricominciare l’attività deve:

  • chiedere la cancellazione dalla sezione REA qualora intenda svolgere l’attività presso un’impresa societaria;
  • denunciare l’inizio dell’attività contenente l’autocertificazione dei requisiti se intende iniziare un’impresa individuale. In tal caso, nell’autocertificazione, è necessario chiedere il passaggio di iscrizione dal Rea al Registro Imprese.

Crowdfunding e impresa in Italia

Quando in Italia prende piede una nuova tendenza, specialmente se legata al web e specialmente se con un nome inglese, in molti si fanno prendere dalla smania della novità e cominciano a cavalcare la moda. Con il fenomeno del crowdfunding, per esempio, succede così.

Ricordiamo che con crowdfunding si indica una formula che, attraverso il web, consente di raccogliere piccoli finanziamenti da parte di soggetti potenzialmente sterminati, il cui totale consente poi a chi ne beneficia di realizzare progetti di varia natura (imprenditoriale, politica, sociale…), ricompensando i donatori con riconoscimenti vari, i più significativi dei quali sono parte dei profitti o azioni della società finanziata, qualora si tratti di progetti del cosiddetto equity crowdfunding.

La raccolta dei fondi sul web avviene attraverso apposite piattaforme cui aderiscono i soggetti che hanno progetti da finanziare in crowdfunding. Per fortuna, in Italia non è possibile svegliarsi al mattino e implementare una piattaforma a questo scopo; quelle che ci sono, e quelle che vorranno esserci, sono sottoposte a normativa Consob, la società che vigila sulle operazioni di Borsa.

C’è infatti in Consob un apposito registro nel quale, tra le altre cose, i soggetti che vogliono attivare piattaforme di crowdfunding devono certificare la propria affidabilità e la qualità del servizio da loro reso. Fanno parte di questo registro i soggetti che ne fanno richiesta (accettata…), le banche e le società di investimento (Sim).

Come si diceva, quindi, anche l’Italia sta scoprendo il fenomeno del crowdfunding anche se i numeri in gioco sono per forza di cose minori che in altre realtà mondiali. Un po’ per il fatto di essere arrivati dopo, un po’ per le dimensioni non esagerate dei progetti finanziati nel nostro Paese. Stando alle cifre attuali, negli ultimi 12 mesi le piattaforme nostrane hanno raccolto circa 11 milioni di euro su un totale di 23, a fronte degli 1,6 miliardi di dollari del Nord America.

Eppure, specialmente per le start-up innovative, le realtà maggiormente inclini a ricorrere al crowdfunding per il proprio finanziamento, l’occasione è di quelle ghiotte. A maggior ragione se si sceglie di utilizzare la formula dell’equity crowdfunding (di cui abbiamo detto sopra) anziché quelle più classiche del crowdfunding per prestito o per donazione.

Anche perché la normativa Consob che regola la prassi dell’equity crowfunding è decisamente all’avanguardia in Europa e nel mondo, essendo stata varata in anticipo persino rispetto a quella americana.

Inoltre, i margini di sviluppo dell’equity crowdfunding sono decisamente più ampi delle formule in prestito o donazione: basti pensare che, a livello globale, questo tipo di formula cuba circa 116 milioni di dollari (30% annuo), contro i 1,2 miliardi di dollari del crowdfunding su prestito (+111% annuo) e degli 1,4 miliardi di quello su donazione (+85%).

Il crowdfunding che spinge l’economia

Quanto abbiamo scritto nei giorni scorsi in merito all’equity crowdfunding, al peer-to-peer lending e al crescente interesse che riscuotono tra gli investitori istituzionali e i semplici “prestatori” di denaro non è un fatto isolato né casuale.

Si tratta infatti di tendenze che sono emerse anche il 29 e il 30 ottobre scorso durante la quarta conferenza annuale della Equity Crowdfunding Network Association (Ecn) tenutasi a Parigi.

All’appuntamento hanno partecipato decine di esperti di diversi Paesi Ue, membri della Commissione Ue e rappresentati di alcune delle più importanti authority europee di vigilanza sui mercati finanziare, tra cui l’italiana Consob. Al centro della due giorni, il futuro e gli sviluppi del mercato europeo del crowdfunding, con un particolare focus sulle normative e sulle leggi che disciplinano la materia, che sono in costante evoluzione.

Ciò che per noi è l’evidenza più interessante emersa dall’assemblea di Parigi è proprio l’interesse crescente e condiviso che suscitano l’equity crowdfunding e il peer-to-peer lending specialmente tra gli investitori professionali, tipicamente i venture capitalist, e gli investitori istituzionali come i grandi fondi privati e le banche.

Si tratta di realtà ampiamente strutturate per aderire a questo tipo di investimenti in crowdfunding, poiché hanno gli strumenti per valutare il bilanciamento tra rischio e opportunità di guadagno. Proprio per questo, dunque, se il loro applicarsi a questa nuova tipologia di investimento diventasse una costante per diversificare il loro portafoglio di business, è facile che l’imprenditoria innovativa e l’economia tutta ne avrebbero giovamento.

Proprio in questo senso vanno gli accordi già in essere tra alcune banche e le piattaforme di lending crowdfunding, in virtù dei quali gli istituti di credito che coinvestono nel crowd completano con un proprio intervento i finanziamenti versati alle Pmi o alle start-up. E spesso non si tratta di somme risibili, dato che la copertura data dalle banche può arrivare anche al 50% della somma totale.

Allo stesso modo, i player dell’equity crowdfunding possono contare su gruppi di venture capitalist e di investitori non istituzionali che, come nel caso delle banche, co-investono insieme agli investitori individuali.

Si tratta di sinergie importanti, che possono davvero aiutare le realtà operanti nel peer-to-peer lending e nel crowdfunding a dare un impulso significativo all’imprenditorialità che, sempre più spesso, è ricchissima di idee ma povera di mezzi.

Crowdfunding e peer-to-peer lending

All’interno dell’articolato mondo del crowdfunding c’è una realtà tutta particolare che, come è d’obbligo in questi casi, ha anch’essa un nome inglese. Si tratta del cosiddetto peer-to-peer lending che, a differenza del crowdfunding classico, è un’offerta di credito online diretta e senza intermediari.

Gli attori sono gli stessi del crowdfunding – imprese, persone o enti che vorrebbero ricevere finanziamenti e investitori interessati a darne – che si muovono però per contatto diretto. Una modalità di raccolta fondi che, nel 2014, ha fatto registrare uno scambio di risorse per 11 miliardi di dollari a livello globale, pari dunque a oltre il 60% del totale del crowdfunding mondiale.

Una crescita importante, visto che nel mondo i volumi del peer-to-peer lending sono più che raddoppiati rispetto al 2013, con casi come quello americano ed europeo (+140%) o quello asiatico (+300%) che impressionano. Per il 2015 si prevede che il peer-to-peer lending possa arrivare a toccare i 34 miliardi di dollari

E nel nostro Paese? Sul fenomeno ha provato a fare luce la ricerca “Peer-to-peer lending: mito o realtà?”, commissionata da CRIF a SDA Bocconi, la quale ha rilevato che, anche se il crowdfunding in Italia sta conoscendo uno sviluppo importante, la componente del peer-to-peer lending è ancora un po’ indietro, con un valore complessivo dei progetti finanziati di poco superiore a 23 milioni di euro.

Nello studio si rileva che, tra il 2007 e il 2014, i volumi del peer-to-peer lending sono aumentati di oltre 40 volte rispetto alla situazione del 2007, così come è cresciuta la percentuale di accettazione delle richieste, dal 10% al 15%.

Ma qual è, in Italia, il profilo del possibile utilizzatore del peer-to-peer lending? Lo studio ha provato a capire anche questo. Intanto, l’assenza di una piattaforma di intermediazione per la raccolta dei fondi fa sì che il grado di fiducia – di trust, come si dice – tra chi offre un progetto e chi è disposto a finanziarlo deve essere molto più alto del consueto. L’identikit del possibile utilizzatore è uomo, con grado di istruzione, alta propensione al rischio e scarso livello di fiducia verso il sistema delle banche.

Invece, il possibile finanziatore di progetti tramite peer-to-peer lending è sempre maschio ma di età medio-bassa, inserito in nuclei famigliari medio-ampi e con una minore propensione a investire se la persona in questione costituisce la fonte principale di reddito familiare. In sostanza, i figli sono più propensi dei padri a finanziare questi progetti.

Quello che è certo è che, anche in Italia, chi usa frequentemente il web ha meno problemi, almeno potenzialmente, ad accostarsi al peer-to-peer lending, specialmente coloro i quali acquistano o vendono frequentemente attraverso siti di e-commerce.

Chi ha paura della sharing economy?

Per tanti, purtroppo, l’espressione inglese sharing economy è ancora qualcosa di poco familiare. Diciamo purtroppo, perché in realtà, la cosiddetta economia della condivisione è un fenomeno sempre più importante e diffuso anche in Italia, Paese di solito più lento di altri a recepire simili cambiamenti.

A testimonianza di quanto la sharing economy sia ormai non più solo una moda è l’evento Sharitaly, che si è tenuto a Milano nei giorni scorsi e durante il quale sono stati presentati numeri e tendenze che rendono l’idea della portata del fenomeno.

Durante l’evento sono state infatti portate all’attenzione del pubblico due ricerche svolte su dati relativi a quest’anno: “Il crowdfunding in Italia. Report 2015: statistiche, piattaforme e trend”, realizzata dall’Università Cattolica in collaborazione con Tim e Starteed e “Sharing economy: la mappatura delle piattaforme italiane 2015”, curata da Collaboriamo.org in collaborazione con Phd Italia.

Dalle ricerche emerge che in Italia vi sono ben 187 piattaforme di sharing economy, +35,5% rispetto al 2014. Si tratta di 118 piattaforme di sharing (+21,6% sul 2014) e 69 di crowdfunding (+68,2%).

Spacchettando poi per settore merceologico i dati delle diverse piattaforme di sharing economy, si scopre che la parte del leone tra le aziende dell’economia collaborativa la fanno quelle dei trasporti (19%), seguite da turismo e scambio di beni (15%), alimentare e cultura (9%).

E a testimonianza del fatto che la sharing economy è qualcosa ormai non più relegato all’astratto mondo del digitale ma una realtà ben calata nel concreto dell’economia c’è il dato relativo alle piattaforme iscritte al registro imprese, che sono il 70% del totale, per la maggior parte Srl, (56%), seguite dalle start up innovative (26%). Lato crowdfunding abbiamo il 52,5% di Srl e il 17,5% di start up innovative.

Un dato confortante, perché sta a significare che il fenomeno della sharing economy ha ancora ampi margini di sviluppo, è quello relativo a utenti e donatori. Il 51% delle piattaforme di sharing ha meno di 5mila utenti e ben l’11% ne ha più di 100mila. Quasi la metà delle piattaforme di crowdfunding ha meno di 500 donatori (49%), solo in 9% più di 50mila.

Infine, due parole sulla profilazione per sesso ed età degli imprenditori della sharing economy: under 40, con laurea in materie ingegneristiche o economiche, 2/3 uomini. Di questi imprenditori, l’81% di coloro che hanno attivato piattaforme di sharing e il 65% di quelle degli ideatori di piattaforme di crowdfunding dichiara di aver messo in piedi la propria idea e il proprio servizio grazie a risparmi personali. L’augurio è che siano ben spesi…

Chiarimenti dal MISE per l’iscrizione delle startup al Registro Imprese

Sono stati divulgati dal Ministero dello Sviluppo Economico alcuni chiarimenti relativi al Registro delle Imprese da parte delle startup innovative.

Le precisazioni al riguardo sono due:

  • la richiesta di iscrizione alla sezione speciale del Registro Imprese da parte di una startup innovativa, oltre ad essere relativa all’attività di “ricerca e sviluppo”, deve essere sempre accompagnata anche dalla denuncia dell’avvio dell’attività di sviluppo, produzione e commercializzazione dei prodotti o servizi innovativi, nella quale deve essere specificata la natura di tali prodotti o servizi. Vanno inoltre allegate le previste autorizzazioni o comunicazioni richieste;
  • l’ufficio del Registro Imprese non è chiamato a valutare il merito delle dichiarazioni rese in sede di richiesta di iscrizione nella sezione speciale, ma solo a verificare che tutti i documenti e moduli siano correttamente compilati e allegati.

Questo significa che non può essere considerata startup innovativa una società la cui attività consista nella sola sperimentazione di servizi o beni innovativi.

Perciò, oltre alla richiesta d’iscrizione, va presentata anche apposita SCIA al competente SUAP, anche attraverso la procedura della “Comunicazione unica per la nascita dell’impresa”.

Vera MORETTI

Pec, l’INT: sulle sanzioni prevalga il buon senso

Come molti sanno, è scaduto ieri il termine per la comunicazione al registro imprese della casella di posta elettronica certificata. Una vicenda che, come spesso accade in Italia, pur se partita con buone intenzioni, rischia di creare più problemi che altro.

Sulla questione interviene l’Istituto Nazionale Tributaristi, secondo cui la vicenda della Pec obbligatoria per le società rischia di aprire un nuovo triste e negativo capitolo della burocrazia italiana. La difficoltà di questi giorni per ottenere le pec, sostiene l’Istituto, e il loro deposito entro la data del 29 hanno indotto il Ministero dello Sviluppo economico a diramare nei giorni scorsi una circolare che di fatto rinvia al 31 dicembre il termine per il deposito della pec al registro imprese con un sospiro di sollievo per le società ed i loro consulenti.

Neanche il tempo di prendere atto della nota del Ministero, dice l’INT, ed ecco la parte peggiore della burocrazia affiorare: le Delegazioni provinciali dell’Istituto Nazionale Tributaristi (INT) segnalano in Emilia Romagna due atteggiamenti opposti di due CCIAA. Bologna non applicherà sanzioni in ossequio alla circolare ministeriale, Forlì – Cesena invece dopo la data del 29 novembre, sanzionerà qualsiasi tardiva iscrizione di pec societarie.

Solo due casi ma che probabilmente non saranno i soli: se è pur vero che una circolare non fa legge, o meglio, non può modificare una norma, è altrettanto vero che la vicenda pec potrebbe invece creare costi e preoccupazioni ulteriori rispetto a quelli già creati.

Il presidente del’INT Riccardo Alemanno spera che prevalga il buon senso, ma nell’incertezza chiederà al Ministero dello Sviluppo di intervenire con un atto normativo che possa evitare ogni interpretazione a danno delle società.

d.S.

Commercio: entro fine settembre l’iscrizione al Registro Imprese

Hanno tempo fino alla fine di settembre mediatori d’affari, agenti e rappresentanti di commercio e mediatori marittimi o spedizionieri per aggiornare la loro posizione alla luce della soppressione dei vecchi Ruoli, come al D.lgs. 59/2010.

Che si tratti di società o imprese individuali, infatti, viene richiesta l’iscrizione al Registro Imprese o Rea (Repertorio Economico Amministrativo) e la comunicazione dell’avvenuta iscrizione dovrà essere comunicata al Registro delle Imprese o alla Camera di Commercio territorialmente competente entro il prossimo 30 settembre, quando scadrà la proroga concessa con il D.M. 24.04.2013.

Qualora ciò non avvenisse, le società e le imprese individuali si vedranno interdetto l’esercizio della propria attività. Se si tratta di persone fisiche inattive, se non invieranno ,l’istanza di “iscrizione” nell’apposita sezione del REA non potranno mantenere il requisito abilitante per l’esercizio dell’attività.

Occorre anche ricordare che l’iscrizione nel soppresso Ruolo per i primi quattro anni successivi all’entrata in vigore del decreto costituisce requisito professionale abilitante per l’avvio dell’attività. Coloro che smetteranno di svolgere l’attività all’interno di un’impresa potranno richiedere di essere iscritti nell’apposita sezione del REA “a regime”, l’istanza va inviata per via telematica entro 90 giorni.

Vera MORETTI

PEC obbligatoria, i suggerimenti di Infocamere

Resta una settimana di tempo alle imprese individuali italiane per la comunicazione dell’indirizzo di Posta Elettronica Certificata al Registro Imprese. Il 30 giugno scade infatti il termine indicato dal decreto legge sviluppo bis che ha esteso anche a questo insieme di imprese l’obbligo, già previsto per le società, di munirsi di una casella PEC.

A metà giugno solo il 17% le ditte individuali attive in Italia si era dotato di un indirizzo telematico. Proprio per questo Infocamere si sta spendendo molto su questo fronte. La società consortile di informatica delle Camere di Commercio Italiane ha infatti predisposto sul portale delle Camere di Commercio Italiane www.registroimprese.it il servizio ”Pratica Semplice” che consente di assolvere in pochi minuti, per i titolari d’impresa provvisti di dispositivo di firma digitale, all’iscrizione della propria casella di posta elettronica certificata al Registro Imprese.

Il servizio offerto da Infocamere non richiede registrazione ed è totalmente gratuito ed è un passaggio successivo all’apertura della casella di posta elettronica certificata La casella di PEC può infatti essere acquistata online rivolgendosi a uno dei Gestori autorizzati (il cui elenco pubblico può essere consultato all’indirizzo www.digitpa.gov.it) e deve essere poi iscritta al Registro delle Imprese.

PEC obbligatoria per imprese individuali. Per noi è sì, ma occhio!

di Davide PASSONI

C’è chi vive e vede questo obbligo come l’ennesimo aggravio burocratico, chi come un male necessario, chi come un passo verso una digitalizzazione delle comunicazioni tra imprese e tra imprese e PA che può aiutare a far uscire l’Italia dal medioevo delle carte.

Parliamo dell’obbligo per le imprese individuali di dotarsi, entro il 30 giugno, di una casella di posta elettronica certificata, o PEC. Per chi non lo sapesse, la posta elettronica certificata che realizza una sorta di sede legale “elettronica” dell’impresa, accessibile da chiunque per scambiare messaggi con la massima sicurezza e, cosa importante, con lo stesso valore legale della Raccomandata con Ricevuta di ritorno. In questo modo, le comunicazioni possono passare con rapidità e senza dispendio di carta e tempo tra una azienda e l’altra o tra l’azienda e la pubblica amministrazione.

L’obbligo interessa circa 3 milioni di imprese e, come era lecito aspettarsi, ci sono già voci critiche nei confronti di una misura che, lo diciamo subito, noi di Infoiva riteniamo utile e necessaria. Ma come funziona la PEC? Chi di deve adeguare e averla? Per chi è un affare e per chi no? A questi e ad altri dubbi cercheremo di dare una risposta questa settimana qui, su Infoiva. Per arrivare al 30 giugno almeno minimamente preparati.