Risarcimenti Libero mail e Virgilio mail, le associazioni non demordono

Nel mese di gennaio gli utenti di Virgilio mail e Libero mail hanno purtroppo subito un blocco dell’accesso alla casella di posta elettronica durato per giorni, alcuni utenti hanno avuto l’accesso prima di altri. Le associazioni dei consumatori fin da subito hanno sollecitato gli utenti a proporre ricorso per ottenere un risarcimento. Ora qualcosa sembra smuoversi, ecco chi riceverà Libero mail e Virgilio mail per i disservizi legati al blocco all’accesso alla casella di posta elettronica e in cosa consiste?

Perché ci sono i risarcimenti Libero mail e Virgilio mail?

Il blocco delle caselle di posta elettronica è iniziato tra il 22 e il 23 gennaio 2023 e si è protratto per alcuni giorni. Molti professionisti hanno avuto difficoltà che hanno causato ritardi nel lavoro. Si è anticipato che le associazioni dei consumatori avevano sollecitato gli utenti che non erano riusciti ad avere l’accesso alla casella di posta elettronica libero mail e virgilio mail a proporre un ricorso per ottenere un risarcimento a fronte del disservizio. Allo stesso tempo ItaliaOnline, società che gestisce i due domini di posta elettronica, aveva reso noto che vi era l’intenzione di procedere d’ufficio a un ristoro per gli utenti. Ora sono arrivate le risposte definitive e molti utenti si chiedono: in cosa consiste il risarcimento per il blocco di virgilio mail e libero mail? Ecco la risposta.

Ecco in cosa consistono i risarcimenti Libero mail e Virgilio mail

Il risarcimento previsto per molti è una sorta di beffa, infatti si tratta semplicemente del 20% di spazio in più nella casella di posta elettronica. A questo vantaggio si aggiunge il fatto che l’attivazione dello spazio in più è automatica. A dare la notizia di questo risarcimento è stata proprio ItaliaOnline che ha inviato agli utenti una e-mail in cui comunicava tale notizia. Naturalmente molti consumatori sono perplessi in quanto, a fronte di intere giornate senza poter accedere alla posta elettronica, ormai diventato un mezzo di comunicazione ufficiale e istituzionale, questa agevolazione sembra quasi una presa in giro ed è questo il motivo per cui le associazioni dei consumatori ancora non hanno messo fine all’ipotesi di intentare una class action contro ItaliaOnline per ottenere risarcimenti collegati al blocco di Libero mail e Virgilio mail.

Leggi anche:

Risarcimento blocco Libero mail e Virgilio mail: come fare?

Redditometro: giudice non può limitarsi a una motivazione sintetica

Il redditometro è uno strumento che consente all’Amministrazione finanziaria di determinare la ricostruzione sintetica del reddito di una persona fisica attraverso la sua capacità di spesa. L’obiettivo è naturalmente scoprire redditi nascosti. Si tratta di uno strumento di determinazione del reddito considerato sintetico e naturalmente il contribuente ha la possibilità di presentare ricorso. In questo caso spetterà al giudice determinare chi tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente abbia ragione. In merito a questo punto è intervenuta l’Ordinanza della Corte di Cassazione 5504 del 21 febbraio 2022 che ha sottolineato numerosi punti in favore del contribuente.

Cos’è il redditometro?

Il redditometro è un metodo di ricostruzione sintetica del reddito partendo dalle spese effettuate dal contribuente persona fisica e comparando tali spese con le dichiarazioni dei redditi prodotte. Il redditometro tiene in considerazione l’incremento di patrimonio, le quote di risparmio e le spese riscontrabili. Per capire bene l’importanza dell’ordinanza in oggetto è bene sintetizzare le fasi attraverso cui si procede all’accertamento del reddito con il redditometro. La prima fase è quella di selezione del contribuente da sottoporre a controllo. Si parla in questo caso di controllo sulla famiglia fiscale partendo dal presupposto che anche altre persone appartenenti al nucleo possono concorrere a determinare il reddito e le spese (di solito si considerano coniuge e figli).

Segue la fase istruttoria in cui sono determinati i redditi. In questa si prendono in considerazione le spese certe, cioè tracciate, le spese per elementi certi, cioè che devono essere per forza sostenute in conseguenza di fatti certi, ad esempio spese per la gestione dell’auto o della moto, spese legate alla casa. Si tengono in considerazione gli incrementi patrimoniali, cioè investimenti in beni immobili (acquisto di un terreno) o investimenti in titoli. Infine, si tiene in considerazione la quota di risparmio formatasi nell’anno.

Nel caso in cui tra i rilievi della fase istruttoria e le dichiarazioni ci sia uno scostamento superiore al 20%, parte l’accertamento fiscale. Per i lavoratori autonomi e titolari di ditta individuale i cui redditi dichiarati risultano conformi agli studi di settore, la percentuale che fa scattare l’accertamento è fissata al 33%.

Il contraddittorio con il contribuente

Nella fase dell’accertamento si instaura un contraddittorio con il contribuente che è invitato tramite questionario a giustificare tali spese. In questa fase il contribuente potrà dimostrare che parte delle spese non è riconducibile al suo reddito.

Il contribuente viene quindi invitato presso l’Agenzia delle Entrate e in questa fase potrà esporre le sue ragioni. L’Amministrazione finanziaria potrà archiviare o procedere ulteriormente. Contro un eventuale avviso di accertamento il contribuente potrà chiedere una mediazione, proporre ricorso oppure aderire alle richieste dell’Agenzia.

Fatta questa premessa possiamo passare all’analisi della questione affrontata dalla Corte di Cassazione nell’Ordinanza 5504 del 21 febbraio 2022.

Ordinanza 5504 della Corte di Cassazione: il giudice deve analizzare i documenti e motivare la sentenza

Nel caso concreto, in seguito ad un avviso di accertamento basato sul redditometro, il contribuente ha proposto ricorso, rigettato in primo grado. Il Giudice ha motivato il rigetto sul fatto che il contribuente non aveva dato prova della disponibilità di fondi che potessero giustificare le spese. Il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione adducendo che il Giudice non aveva sufficientemente analizzato la copiosa documentazione prodotta per giustificare le spese sostenute nell’anno sottoposto a controllo

La Corte di Cassazione ha ribadito che l’accertamento dell’Amministrazione finanziaria deve essere sintetico e che spetta al contribuente in sede endoprocedimentale difendersi dalle contestazioni adducendo prove certe circa la capacità di spesa oppure sull’inesistenza delle spese dedotte dal “controllore”.

Qualora l’ufficio ritenga di non dover tenere in considerazione i rilievi del contribuente deve però darne un’adeguata motivazione. In caso contrario l’accertamento è nullo.

Nell’Ordinanza 5504 la Cassazione va oltre e ribadisce che anche in caso di ricorso giurisdizionale vi deve essere la stessa attenzione, cioè il giudice deve analizzare in modo analitico la documentazione prodotta dal contribuente non potendosi limitare a giudizi sommari privi di riferimenti alla massa documentale prodotta dal contribuente. Nel caso in oggetto quindi la sentenza viene considerata nulla perché non è possibile ripercorrere il percorso logico giuridico che ha portato l’organo giudicante a ritenere non sufficiente la documentazione prodotta dal contribuente. Una motivazione siffatta, cioè che non analizza in modo analitico la documentazione prodotta dal contribuente, ma semplicemente sottolinea che la stessa è insufficiente a dimostrare le ragioni del soggetto, viene considerata dalla Corte di Cassazione apparente e quindi non valida.

Ricorso avverso sanzione obbligo vaccinale over 50: come presentarlo

Sta facendo molto discutere l’obbligo vaccinale applicato agli over 50 e previsto dal decreto legge 7 gennaio 2022 n°1 “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19”, ma naturalmente per ogni provvedimento che prevede un obbligo e una sanzione c’è la possibilità di ricorso, ora vedremo proprio come si può proporre ricorso avverso sanzione obbligo vaccinale e quali sono le motivazioni che possono essere poste alla base di esso.

Obbligo vaccinale: in cosa consiste?

Il decreto del 7 gennaio stabilisce l’obbligo vaccinale per gli over 50 dall’entrata in vigore del decreto stesso, cioè dall’8 gennaio, fino al 15 giugno 2022, alcune indiscrezioni affermano che si sta pensando di estenderlo anche agli over 45, ma per ora questa ipotesi non ci riguarda. La normativa dice che possono essere sottoposti a sanzione gli over 50 che non abbiano:

  • ancora iniziato il ciclo primario;
  • completato il ciclo primario (cioè hanno fatto la prima dose, ma non hanno fatto il richiamo);
  • fatto la dose di richiamo successiva al ciclo primario entro i termini di validità del green pass ( o certificazione verde).

Dobbiamo sottolineare che questa sanzione, somministrata dal Ministero della Salute, attraverso l’Agenzia delle Entrate, deve essere tenuta distinta dalla sanzione applicabile agli over 50 che siano trovati sul luogo di lavoro senza green pass rafforzato (cioè rilasciato in seguito a Covid o a ciclo vaccinale) e che ha un valore minimo di 600 euro e un valore massimo di 1.500 euro, inoltre i lavoratori che non hanno il green pass rafforzato sono considerati assenti ingiustificati dal lavoro e non percepiscono lo stipendio.

Come sarà applicata la sanzione per obbligo vaccinale

Non è ancora chiaro come si procederà alla somministrazione delle multe, da quanto emerge ci saranno controlli agli elenchi detenuti dalle Aziende Sanitarie Locali e in seguito a riscontri sarà l’Agenzia delle Entrate ad avvisare, prima in modo bonario, il contribuente e in secondo momento comminerà la sanzione. In seguito al primo avviso il soggetto con obbligo vaccinale dovrà comunicare entro 10 giorni i motivi della mancata adesione al piano vaccinale. La risposta dovrà essere inoltrata alla ASL e all’Agenzia delle Entrate con allegati eventuali certificati di esenzione dall’obbligo vaccinale. L’ASL a questo punto dovrà verificare, anche con eventuale contraddittorio, la posizione del soggetto. In caso di esito negativo, entro 180 giorni sarà comminata la sanzione di 100 euro Una Tantum. E’ esclusa l’applicazione di sanzioni in seguito ad altre tipologie di controlli, ad esempio da parte di carabinieri, polizia o altri corpi.

Ricorso avverso sanzione obbligo vaccinale

Ora che abbiamo sintetizzato la disciplina dell’obbligo vaccinale, chiariamo come è possibile fare ricorso contro sanzioni per obbligo vaccinale. Una volta notificata la sanzione il soggetto può entro 30 giorni proporre ricorso avverso sanzione obbligo vaccinale al giudice di pace territorialmente competente. Il soggetto deve dimostrare di essere esonerato dall’obbligo vaccinale e deve quindi presentare una relazione medica comprovante le condizioni di salute che ostano alla vaccinazione. Molto probabilmente anche il giudice di pace nominerà un CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) per confutare la tesi di parte. Naturalmente è possibile che siano a carico del ricorrente le spese di giudizio, mentre sicuramente dovrà versare il contributo unificato di 43 euro.

In quali casi si può essere senti dall’obbligo vaccinale?

I casi in cui si può ottenere un certificato di esenzione devono essere valutati singolarmente dal medico curante, in genere si tratta di grave compromissione del sistema immunitario, in presenza di malattie rare, malattie croniche, allergie particolari o ipersensibilità a componenti dei vaccini.

Quali e quanti sono i gradi di giudizio per un ricorso tributario

Quando il rapporto tra il Fisco ed il contribuente si incrina, spesso prima si viene a generare un contenzioso. E poi questo si risolve solo dinanzi ad un giudice. Precisamente, ricorrendo ad un giudice tributario che sarà chiamato a dirimere la lite. Ed allora, nell’ambito del contenzioso e delle controversie con il Fisco, vediamo quali sono e quanti sono i gradi di giudizio di merito per un ricorso tributario. E quali sono pure le procedure incluse quelle telematiche che non sono obbligatorie, ma alternative al fine di accelerare in ogni caso i tempi della giustizia.

Ecco quali e quanti sono i gradi di giudizio di merito per un ricorso tributario

Nel dettaglio, in Italia i gradi di giudizio di merito per le liti tributarie sono due. Ovverosia, il primo grado dinanzi alla Commissione tributaria provinciale competente per territorio. E l’appello che, invece, si tiene dinanzi alla Commissione tributaria regionale in accordo con quanto si legge sul sito Internet dell’Agenzia delle Entrate.

Inoltre, uscendo dai due gradi di giudizio di merito che sono previsti dall’ordinamento per il ricorso tributario, per le sentenze della Commissione tributaria regionale è possibile poi ricorrere alla Cassazione. In più, si può direttamente passare al ricorso alla Cassazione pure dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale. Ma in questo caso è richiesto l’accordo delle parti.

Attraverso i canali Entratel e Fisconline, inoltre, sui ricorsi tributari le parti in causa possono accedere pure ad una apposita procedura telematica che permette di acquisire informazioni non solo sulla composizione del collegio giudicante, ma anche sulla data fissata per le udienze e su quello che è lo stato di lavorazione del ricorso che è stato presentato.

Quali sono i vantaggi relativi all’adesione al Processo tributario telematico (PTT)

Come sopra accennato, per accelerare i tempi della giustizia, le parti possono aderire al Processo tributario telematico (PTT). Si tratta, nello specifico, di una modalità non obbligatoria ma alternativa rispetto alle modalità tradizionali cartacee. Sia per il deposito dei ricorsi e degli altri atti processuali presso le Commissioni tributarie.

Sia per accedere al fascicolo processuale informatico del processo. Nonché per consultare tutti gli atti e tutti i provvedimenti che sono stati emanati dal giudice sempre in accordo con quanto riporta l’Agenzia delle Entrate attraverso il proprio sito Internet.

Quali sono gli effetti giuridici dell’atto impugnato presentando un ricorso tributario

In linea generale la presentazione di un ricorso tributario non sospende gli effetti giuridici dell’atto che è stato impugnato. Pur tuttavia, il ricorrente può chiedere alla Commissione tributaria competente la sospensione presentando apposita istanza.

E questo quando il ricorrente ritiene che dall’atto possano derivare dei danni gravi e irreparabili. Nel caso in cui l’istanza viene accolta, la sospensione degli effetti giuridici dell’atto impugnato permane fino alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado.

Avviso di accertamento fiscale, cosa succede se il contribuente rinuncia al ricorso

Quando il Fisco rileva delle anomalie o delle irregolarità, ed anche quando viene riscontrato il mancato pagamento delle tasse nei termini previsti, in Italia l’Agenzia delle Entrate prima effettua delle verifiche e dei controlli. E poi può pure inoltrare al contribuente un avviso di accertamento.

Nella fattispecie, il contribuente ha sempre la possibilità non solo di far valere le proprie ragioni, ma anche di opporsi presentando un ricorso. Pur tuttavia, in caso di avvio di un accertamento fiscale, da parte dell’Agenzia delle Entrate, cosa succede se il contribuente rinuncia al ricorso? Ecco cosa accade in questo caso specifico. Quali sono i vantaggi e pure gli eventuali rischi se ce ne sono.

Cosa succede se il contribuente rinuncia al ricorso dopo un avviso di accertamento fiscale

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che per il contribuente che non ha pagato le tasse, con il Fisco che al riguardo ha emesso un avviso di accertamento, la presentazione di un ricorso è inutile. In quanto l’Agenzia delle Entrate vincerebbe facile nell’ambito dell’avvio di un contenzioso tributario.

In più, c’è da dire che il contribuente che riceve un avviso di accertamento, e che non si oppone, può comunque avvantaggiarsi di una riduzione delle sanzioni. A livello giuridico, infatti, si parla di acquiescenza quando il contribuente accetta l’atto del Fisco e, pagando, provvede a sanare la propria posizione senza opporsi. Inoltre in Italia, ai sensi di legge e della normativa fiscale vigente, con l’acquiescenza il contribuente ottiene una riduzione pari ad un terzo delle sanzioni amministrative irrogate.

Pure gli atti di contestazione, inoltre, possono essere definiti per acquiescenza quando per questi vengono irrogate solo sanzioni. E quindi anche nella fattispecie il contribuente potrà avvantaggiarsi della riduzione pari ad un terzo delle sanzioni amministrative irrogate.

Quando e come scatta l’acquiescenza dopo un accertamento fiscale

Dopo un accertamento fiscale, l’acquiescenza scatta a patto che, riporta altresì il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, vengano rispettate tre condizioni. Ovverosia, e prima di tutto, il contribuente rinuncia ad impugnare l’avviso di accertamento. Inoltre, il contribuente deve pure rinunciare a presentare istanza di accertamento con adesione.

In più, l’acquiescenza comporta, come sopra accennato, il pagamento delle somme complessivamente dovute tenendo conto della sopra citata riduzione delle sanzioni. Il versamento di quanto dovuto al Fisco, inoltre, deve avvenire entro il termine di proposizione del ricorso che di norma è pari a 60 giorni dalla notifica dell’atto.

Come versare le somme dovute al Fisco dopo un accertamento fiscale

In base al tipo di tassa da pagare, con l’acquiescenza, e quindi rinunciando al ricorso, il contribuente può sanare la propria posizione nei confronti del Fisco attraverso il versamento con il modello F24 oppure, a seconda dei casi, con l’F23.

Il Fisco al riguardo permette sia di saldare il tutto in un’unica soluzione, sia di pagare a rate. In quest’ultimo caso, sulle rate dopo la prima versata, scattano le maggiorazioni che sono rappresentate dagli interessi che, in particolare, si calcolano a partire dal giorno successivo al termine di versamento della prima rata.

Cassazione: valida la percentuale di ricarico

Con la sentenza 4952 del 28 marzo, la Cassazione ha stabilito che l’Amministrazione può avvalersi, nell’accertamento del reddito, di dati o notizie comunque raccolti, con la conseguenza che la percentuale di ricarico può essere legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso.

Il fatto
La vicenda giudiziale di una Srl che aveva fatto opposizione a un avviso di accertamento per Irpeg, Irap e Iva, si è risolta con l’annullamento dell’atto impositivo, trovando poi conferma anche in secondo grado.
Il ricorso proposto dalla soccombente Amministrazione finanziaria si articola in due motivi, con i quali la ricorrente lamenta, rispettivamente, violazione di legge (articolo 36 del Dlgs 546/1992) per mancata indicazione delle ragioni che sorreggono la decisione impugnata, e violazione dell’obbligo di motivazione, per motivazione insufficiente e illogica sul punto decisivo della controversia, atteso che, nella sentenza impugnata “non viene precisato quali ipotetici fattori impedirebbero di assumere per il 2003 la medesima percentuale applicata nel 2006“.

Prima di procedere oltre, ricordiamo che la percentuale di ricarico è il rapporto tra i ricavi dichiarati e gli acquisti registrati in contabilità, in relazione ai principali prodotti commercializzati, attribuendo, sovente, le medie ponderate di settore.
Normalmente, viene applicato, al costo del venduto (costo sostenuto dall’impresa per l’acquisto della merce ritenuta più rappresentativa, rivenduta durante l’anno), il coefficiente di ricarico medio ritenuto congruo sulla base spesso di medie teoriche (ricavate da quelle che pervengono da altri operatori del settore).
I valori percentuali medi del settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma soltanto il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa una regola di esperienza (Cassazione, nn. 7914/2007, 641/2006, 18038 e 26388 del 2005).

La decisione
La Corte suprema ha ritenuto infondata la prima censura, perché l’indicazione da parte del secondo giudice dei motivi di fatto e di diritto della decisione rendono possibile individuare sia il thema decidendum sia le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo.

Invece, coglie nel segno la seconda censura, atteso che effettivamente, nel caso concreto, la sentenza del riesame non risulta motivata in modo sufficiente e giuridicamente corretto, non essendo state esposte sufficientemente le rationes decidendi sull’argomentazione sollevata dall’ente impositore circa l’insussistenza, tra gli anni considerati, di eventi significativi che potessero avere condizionato le scelte commerciali della ditta in ordine all’ammontare del ricarico.
Riguardo all'”ultrattività” delle percentuali di ricarico nell’accertamento induttivo, sia il fondamentale principio dell’imposizione fiscale, che impone l’inerenza dei dati raccolti a un determinato e specifico periodo di imposta, attesa l’autonomia di ciascun periodo di imposta (articolo 1 del Dpr 600/1973), sia il principio della effettività della capacità contributiva, posto dall’articolo 53 della Costituzione a fondamento della legittimità di qualsiasi prelievo fiscale, escludono la validità della “supposizione della costanza del reddito” in anni diversi da quello per il quale è stata accertata la produzione di un determinato reddito, ma non escludono il potere dell’ufficio di avvalersi, nell’accertamento del reddito o del maggior reddito, di dati e notizie comunque raccolti. La percentuale di ricarico è quindi legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso come sono le rimanenze iniziali e finali di magazzino (Cassazione 5049/2011).

L’affermazione, peraltro, è una costante nella giurisprudenza di legittimità, considerato che in una similare occasione in materia di Iva, la Corte suprema ha affermato che la percentuale di incidenza di una determinata materia prima sul totale degli acquisti può essere utilizzata anche per la determinazione del volume d’affari relativo a diversi anni di imposta, tenuto conto della commercializzazione dei vari prodotti nell’anno precedente e della mancanza di mutamento delle condizioni della merce, come pure della sua tipologia (Cassazione 1647/2010).

D’altronde, è legittima la presunzione che quanto riscontrato in sede di accesso corrisponda all’andamento dell’attività anche in altri periodi solo se il contribuente non provi, in ipotesi anche per presunzioni – ovvero non risulti in punto di fatto -, che l’attività sottoposta ad accertamento va incontro a periodi disomogenei con riguardo all’andamento delle vendite e dei ricavi (Cassazione 12586/2011).

Fonte: fiscooggi.it

Avvocati: no alle multe, si ai ricorsi

La notizia arriva da Roma: l’avvocato Fabrizio Bruni, presidente dell’Associazione degli Avvocati Romani, si è rifiutato di pagare il cosiddetto “contributo unificato“, dopo aver presentato un ricorso nei confronti di una multa a lui notificata, per un’infrazione del Codice della strada.
Il “contributo unificato” consiste in una tassa di 38 euro che il ricorrente deve versare all’amministrazione per l’avvio della pratica di ricorso, il cui scopo è scoraggiare i frequenti ricorsi contro le sanzioni amministrative, istituito dall’art. 212 della Finanziaria 2010.

Il motivo addotto dall’avvocato? Contestare gli errori della pubblica amministrazione è un diritto del cittadino contribuente e non deve certo essere scoraggiato, quanto piuttosto tutelato. “Ho scelto di non versare il contributo unificato – ha dichiarato il presidente dell’Associazione degli Avvocati Romani – per poter sollevare innanzi alla Commissione Tributaria la questione di costituzionalità della norma che ha introdotto il tributo anche per la cause di opposizione a sanzioni amministrative, necessità fatta rilevare da due ordinanze della Corte Costituzionale (numeri 143 e 195 del 2011) che avevano dichiarato l’inammissibilità delle questioni di costituzionalità sollevate dai Giudici di Pace, in particolare per carenza di interesse in caso di avvenuto pagamento del contributo. Ciò vale anche per i ricorsi contro le multe per infrazioni al codice della strada”.

A sostenerlo un gruppo di avvocati dell’ Ordine di Roma che sono intervenuti per fare in modo che questo principio venga rispettato. “E’ necessario che gli avvocati mostrino ai cittadini che si battono per loro contro leggi ingiuste e vessatorie, rischiando propri denari e provvedimenti sanzionatori” ha ribadito l’avvocato Bruni.

A confermare la sua posizione anche l’avvocato Mauro Vaglio, consigliere più votato dell’Ordine degli Avvocati di Roma: “Anche se il Consiglio dell’Ordine non può esprimersi come istituzione su una questione all’esame dei Giudici, – ha precisato Vaglio – come rappresentante degli Avvocati ho a cuore i diritti costituzionali dei cittadini.” L’iniziativa dell’avvocato Bruni mira a ripristinare, a suo dire, “il diritto di chi viene ingiustamente colpito da una sanzione amministrativa di modico valore”.

Alessia Casiraghi