Pensioni, cosa succede se la riforma parte dai coefficienti di trasformazione?

Se dovesse arrivare una vera e propria riforma delle pensioni per il dopo quota 100, quasi certamente andrebbe a modificare i criteri e i meccanismi che sono alla base del diritto alla pensione stessa. Ma non si agirebbe sui criteri di calcolo delle pensioni che possono indirizzare le scelte dei lavoratori, ovvero se uscire prima da lavoro oppure attendere ancora qualche anno.

Dalla riforma Dini alle riforme pensionistiche più recenti

Agire sul calcolo della pensione equivale a dire modificare i coefficienti di trasformazione. Ne è convinto il professor Sandro Gronchi che, in un articolo scritto per Il Sole 24 Ore, analizza il sistema italiano dei coefficienti rispetto a quelli applicati in alcuni Paesi nordici, soprattutto in Svezia. Il punto di partenza è la riforma Dini del 1995 per i pensionamenti che sarebbero maturati nel 1996, l’anno che fa da spartiacque tra sistema retributivo, misto e contributivo.

Coefficienti di trasformazione, la mancanza di una vera riforma delle pensioni

Il risultato, dalla riforma Dini a quelle più recenti, è stato di un sistema pensionistico italiano basato su criteri di uscita che creano dubbi, disparità di trattamento previdenziale e un’età pensionistica in crescita. Ma non l’età media effettiva di uscita. L’introduzione dei coefficienti di trasformazione nel 1996 in Italia è stata superficiale, “non furono legiferate né la formula, né le fonti cui attingere i molti dati contenuti nei coefficienti”. E furono trascurate riforme previdenziali che  avrebbero dovuto intervenire sull’invalidità, sul meccanismo di perequazione, sulla reversibilità e sui requisiti anagrafici stessi della pensione.

Pensioni, come funziona il coefficiente di trasformazione?

Il calcolo della pensione si basa essenzialmente sul montante contributivo e sul coefficiente di trasformazione. Quest’ultimo è un indice che va moltiplicato al montante per ottenere l’assegno di pensione. L’analisi va fatta, dunque, sui coefficienti che caratterizzano ogni anno di uscita per la pensione e la differenza tra essi. Il coefficiente è tanto più alto quanto più si ritarda la pensione. Ma di coefficienti, aggiornati ogni due anni (e sempre al ribasso), ve n’è uno per ogni anno in cui il lavoratore può accedere alla pensione. Attualmente, vi sono coefficienti corrispondenti alle età dai 57 anni ai 71 anni.

Perché più si va in pensione tardi e più è alto il coefficiente di trasformazione?

Tra i fattori che incidono sul coefficiente di trasformazione vi è la speranza di vita. Al crescere dell’età di pensionamento, la durata degli anni “da pensionato” è più bassa. Di conseguenza il coefficiente non può che aumentare. Ciò implica che, a parità di contributi versati, chi esce dopo ha una pensione più alta. In qualche modo deve essere “premiato”. Ma questo meccanismo presenta tre anomalie per il professor Gronchi. La prima è che se la pensione è reversibile, allora la speranza di vita non dovrebbe riguardare il solo pensionato, ma anche il coniuge superstite.

Come cambiano i coefficienti di trasformazione per la pensione

La seconda anomalia che presenta il coefficiente di trasformazione è che l’indice è applicato indipendentemente dall’anno di nascita. Ovvero, il coefficiente corrispondente all’età di pensione di 65 anni dell’attuale biennio, viene applicato nel 202i ai nati nel 1956 e nel 2022 sarà applicato ai nati nel 1957. Anche a distanza di un anno, l’applicazione dello stesso coefficiente potrebbe determinare elementi di obsolescenza nel calcolo della pensione.

Pensioni, il fattore obsolescenza dei coefficienti di trasformazione

La terza anomalia si riscontra nella differenza tra pensioni di vecchiaia a 67 anni e pensioni anticipate (o anzianità contributive). Le seconde possono essere raggiunte già dai 57 anni di età e maturare lungo un lasso di tempo ampio. Ad esempio, una lavoratrice nata nel 1964 potrebbe andare in pensione dai 57 anni ai 67 anni (dal 2021 al 2031). Nel frattempo cambieranno 6 volte i coefficienti di trasformazione, una volta per biennio.

Coefficienti di trasformazione e speranza di vita

Con la speranza di vita in aumento, la rinuncia a uscire a un’età più bassa determina l’erosione della pensione, dal momento che l’assegno dovrà essere spalmato su un numero di anni superiore. Questo meccanismo di obsolescenza dei coefficienti può essere più chiaro confrontandosi con un collega che, a parità di contributi, ha deciso di andare in pensione prima.

Il modello Svezia per i coefficienti di trasformazione

La Svezia ha adottato un sistema di coefficienti di trasformazione diverso da quello italiano. Innanzitutto per il diverso meccanismo di pensionamento riconosciuto dai 65 ai 68 anni. La scelta all’interno della fascia è libera e flessibile, e non sono richiesti anni minimi di contribuzione. E, di conseguenza, gli indici sono calcolati per i soli 4 anni di uscita per limitare l’obsolescenza. A ciascuna età è assegnato un coefficiente di trasformazione legato all’anno di nascita. Dunque, vi è un coefficiente fisso per il 2021 assegnato al 65enne nato nel 1956 che voglia andare in pensione. Coefficiente che è stato ricalcolato rispetto a quello applicato al 65enne che è andato in pensione nel 2020 essendo nato nel 1955.

Come si potrebbero calcolare le pensioni con pochi anni di coefficienti di trasformazione?

Un sistema come quello svedese in Italia rivoluzionerebbe tutto il meccanismo dei coefficienti, proprio per l’ampia fascia di età (dai 57 ai 71 anni) in cui è possibile andare in pensione. Applicare il modello svedese vorrebbe dire avere fin da subito un coefficiente da assegnare al lavoratore nato nel 1964 che volesse andare in pensione con l’anzianità contributiva nel 2021. Diversamente lo stesso lavoratore dovrebbe attendere il 2031 per avere il coefficiente della pensione di vecchiaia dei 67 anni. Ciò spiega perché l’adozione di pochi coefficienti di trasformazione richiedere un numero di anni di calcolo (e di uscita) contenuto. In Italia una riforma ragionevole potrebbe essere dai 64 ai 67 anni, in linea con i requisiti della Fornero.

Pensioni anticipate in Svezia: l’anticipo viene scalato dal montante dei contributi

Ma un meccanismo del genere comporterebbe anche l’abbandono di varie formule di pensionamento anticipato vigenti in Italia. Nel modello pensionistico svedese esiste una possibilità di uscita anticipata dai 62 anni. Si tratta di assegni mensili configurati come “prestiti” garantiti dal montante contributivo maturato. Alla maturazione della vecchiaia il debito viene rimborsato a valere sul montante stesso.

Previsioni di riforma delle pensioni in Italia: novità in arrivo sui requisiti di accesso

E dunque, la pensione si calcola moltiplicando il montante residuo con il coefficiente di trasformazione corrispondente ai 65, 66, 67 o 68 anni. Ma la formula anticipata è piuttosto snobbata dai lavoratori. Vi ricorre un terzo dei pensionati, molti dei quali rimasti senza lavoro. L’esempio svedese potrebbe essere un ottimo sistema per il riordino delle pensioni italiane e per il ricalcolo dei coefficienti di trasformazione. Tuttavia, le indiscrezioni sulla riforma italiana anticipano provvedimenti che si limiteranno ad agire sui requisiti di accesso alla pensione.

I Consulenti: sgravi fiscali per rilanciare l’occupazione

Dopo le proposte dei Consulenti del lavoro che abbiamo illustrato ieri per rilanciare il mercato dell’occupazione in Italia, ecco altri punti che, per l’associazione, sono imprescindibili.

Oltre a diversi interventi nell’ambito della responsabilità solidale, del documento unico di regolarità contributiva e del contributo di fine rapporto necessario a finanziare l’Aspi, secondo i Consulenti del lavoro sarebbe opportuno introdurre uno sgravio fiscale di cinque anni per i lavoratori under 30 o over 50 e dei contributi ridotti per 3 anni qualora un’azienda stabilizzi un dipendente a termine; gli sgravi fiscali dovrebbero essere totali per retribuzioni fino a 40mila euro e del 50% per retribuzioni fino a 80mila euro).

Secondo i Consulenti, poi, sarebbe necessario razionalizzare il Fondo di tesoreria, ridurre del 5% il costo del lavoro a tempo indeterminato (attraverso 12,2 miliardi di euro che verrebbero recuperati rivedendo le tariffe Inail), ridurre la spesa pubblica improduttiva  e utilizzare il 50% delle risorse recuperate dalla lotta all’evasione fiscale.

Come si vede, si tratta di un mix di suggerimenti tecnici e di misure di buon senso che, se attuato, potrebbero con tutta probabilità ridare fiato a un mercato del lavoro ormai sull’orlo del collasso.

Occupazione, le proposte dei Consulenti del lavoro

Chi meglio dei Consulenti del lavoro può elaborare proposte utili al rilancio dell’occupazione in Italia.

È quello che hanno fatto con un documento nel quale analizzano cause della stagnazione attuale e propongono soluzioni per superare l’impasse.

Il documento parte con una bacchettata alla legge Fornero, la quale “non ha centrato gli obiettivi occupazionali che si prefiggeva, forse perché pensata per un modello di mercato del lavoro già in espansione”. Il suo effetto è stato invece quello di irrigidire la flessibilità in entrata. Ecco dunque le proposte dei Consulenti per incidere in maniera efficace sulla riduzione del costo del lavoro, per ammorbidire la rigidità in entrata e tornare a una situazione ante legge Fornero.

Cancellazione, per le partite Iva, dell’articolo 69 bis del Dlgs 276/2003, introdotto dalla riforma Fornero. Vale a dire togliere la possibilità di trasformare le prestazioni a partita Iva in collaborazione coordinata e continuativa purché siano soddisfatti due dei seguenti tre presupposti: rapporto superiore a otto mesi annui in due anni consecutivi; corrispettivo da partita Iva superiore all’80% dei corrispettivi annui complessivi del collaboratore in due anni consecutivi; postazione fissa in una sede del committente messa a disposizione del collaboratore a partita Iva.

I Consulenti auspicano anche un ritorno alla situazione precedente la riforma anche per il contratto di associazione in partecipazione, mentre per il contratto a tempo determinato chiedono la sospensione fino alla fine del 201, dell’obbligo di indicazione della causale e dei periodi di sospensione obbligatoria tra due contratti.

Importante levare vincoli anche all’apprendistato, con l’eliminazione dei nuovi obblighi di stabilizzazione da parte delle aziende e il mantenimento di quelli previsti dai contratti nazionali. Vi è poi una richiesta di omogeneizzazione dei percorsi di formazione, specialmente tra regione e regione.

Utile sarebbe, secondo i Consulenti, innalzare il tetto economico per lavoratore e per anno dagli attuali 5mila euro a 8mila per le imprese e gli studi professionali, così come accorpare giuridicamente questo tipo di contratto con quello dell’impiego intermittente.

Vedremo domani le altre proposte dei Consulenti del lavoro.

Occupazione? Su gli investimenti, giù il costo del lavoro

Come se non bastassero le mazzate che continuamente arrivano sul mercato del lavoro italiano dall’interno delle mura di casa nostra, adesso anche il resto del mondo ci ricorda come, nel nostro Paese, la situazione occupazionale sia preoccupante.

Arriva infatti dall’Ilo, l’International Labour Organization, l’organismo dell’Onu specializzato nelle tematiche del lavoro, l’ennesimo allarme: “All’Italia servono circa 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro per riportare il tasso di occupazione ai livelli pre-crisi”. È quanto si legge nel “Rapporto sul mondo del lavoro 2013”, il documento stilato dall’organizzazione che fa il punto sull’andamento occupazionale nel mondo. E questa è la triste figura dell’Italia, che deriva dalla somma dei posti persi negli ultimi anni con l’aumento della popolazione in età attiva rispetto al periodo ante-crisi.

L’Italia figura nella categoria di quei Paesi nei quali la disoccupazione continua ad aumentare (per citare un dato, era al 6,1% nel 2007) e dove sono cresciute le disparità di reddito a causa della recessione. Nel capitolo del rapporto dedicato al nostro Paese, si sottolinea come “la sfida della ricerca di un posto di lavoro è particolarmente difficile per i giovani tra 15 e 24 anni: il tasso di disoccupazione di questa fascia di età è salito di 15 punti percentuali e ha raggiunto il 35,2% nel quarto semestre 2012”.

Il rapporto punta anche l’attenzione sulla diffusione dell’occupazione precaria: infatti, a partire dal 2007 il numero dei precari è cresciuto del 5,7% e ha raggiunto il 32% degli occupati nel 2012. Secondo l’Ilo, la percentuale dei contratti a tempo determinato sul totale dei contratti precari è aumentata con tutta probabilità a causa della riforma Fornero. Ecco dunque che, per risollevare il mercato italiano dell’occupazione, il rapporto Ilo suggerisce di puntare sugli investimenti e sull’innovazione anziché sull’austerità e sulla riduzione del costo unitario del lavoro e, soprattutto, dice la sua su una delle “grandi trovate” che da qualche tempo gira in bocca ai soloni della politica e dell’occupazione, la cosiddetta “staffetta generazionale”. L’Ilo la approva con riserva, sottolineando come esistono modi più efficaci per rilanciare l’occupazione giovanile: dagli incentivi all’assunzione al miglioramento del sistema di formazione.

Gaetano Stella chiede una revisione della Riforma del Lavoro

Il nuovo Governo ha annunciato, ormai lo sanno tutti, un vero e proprio restyling dei contratti a termine e dell’apprendistato, per contrastare la disoccupazione giovanile sempre in aumento.
Ma Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, sostiene che, per risolvere alla radice questo grave problema, occorra una revisione più profonda della Riforma del Lavoro in tutta la sua totalità.

Per Stella è sicuramente positivo che i contratti a termine vengano modificati e che siano ridotti gli stacchi temporali, ma vuole di più: “La riforma Fornero ha allungato i tempi di intervallo tra un contratto a termine e l’altro, senza però garantire la stabilizzazione dei lavoratori, aumentando al contrario fenomeni di turnover tra gli stessi, danneggiando proprio quei lavoratori che si volevano proteggere e quindi producendo fenomeni distorsivi rispetto agli obiettivi della norma. Fortunatamente, la legge ha stabilito che i contratti collettivi potessero prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione di tali intervalli di tempo e su questo fronte gli studi professionali sono al riparo”.

A questo proposito, il 28 novembre scorso Confprofessioni e i sindacati avevano stipulato un accordo che aveva già ridotto la riduzione dei termini per i lavoratori del comparto professionale, portandoli a 20 giorni in caso di contratti di durata inferiore a 6 mesi; 30 giorni in caso di contratti di durata superiore.

Ciò che a Gaetano Stella non piace della Riforma Fornero è che i provvedimenti relativi ai contratti a termine e di apprendistato sembrano studiati pensando soprattutto alle grandi aziende ma, al contrario, risultano sbilanciati se si pensa alle piccole imprese, come ad esempio gli studi professionali che occupano mediamente 2,7 dipendenti “dove le modifiche introdotte alla disciplina della reintegrazione nel rapporto di lavoro sono praticamente nulle”.

Vera MORETTI

Letta e Giovannini al lavoro per cambiare la Riforma Fornero

Il Governo Letta ha pochi giorni di vita ma le sue prime intenzioni sono già ben chiare: sia Enrico Letta sia Enrico Giovannini sono concordi nel dichiarare che la Riforma del Lavoro va cambiata al più presto.

Nonostante i tentativi operati dall’ex ministro Elsa Fornero, è necessaria maggior flessibilità, soprattutto quando si tratta di apprendistato e contratti a tempo determinato.
Tra i provvedimenti ai quali si sta pensando, c’è un’ulteriore riduzione delle pause tra un contratto a termine e l’altro, allungate dalla Riforma Fornero da 10 a 60 giorni per i contratti fino a sei mesi e da 20 a 90 giorni per gli altri, favorendo la proroga di contratti a termine.
Le pause dovrebbero essere ridotte anche per i contratti collettivi.

Giovannini vorrebbe intervenire anche sul causalone, che riguarda i contratti di durata superiore ad un anno, rendendo meno rigide le condizioni di applicabilità della causale, oppure sostituendola con un meccanismo diverso, ad esempio una soglia numerica di contratti a termine in azienda.

Neppure l’apprendistato rimarrà come Elsa Fornero l’aveva voluto, poiché si studia un modo per potenziarlo, magari rimuovendo i paletti per l’assunzione di nuovi apprendisti da sostituire con incentivi.
Ciò che spinge il Governo a modificare il provvedimento è il desiderio, e la necessità, di promuovere il lavoro giovanile.
I saggi propongono: miglior utilizzo dei fondi europei, credito d’imposta per i lavoratori a bassa retribuzione, da non limitare ai soli giovani, miglior alternanza dei periodo scuola-lavoro, introduzione di un apprendistato universitario, sul modello tedesco o austriaco, magari addirittura prevedendo corsi di laurea triennali sotto forma di apprendistato.

I temi del lavoro sono stati affrontati anche durante la tournèe che Enrico Letta ha effettuato spostandosi da Berlino a Parigi, fino ad arrivare a Bruxelles, durante la quale il neo presidente ha voluto rassicurare i partner europei sul rinnovato impegno dell’Italia nell’osservare i vincoli di bilancio ma senza dimenticare le riforme tanto annunciate.

Vera MORETTI

La riduzione della pressione fiscale può far ripartire l’Italia

Da più parti viene richiesto un intervento per ridurre la pressione fiscale, considerato il primo provvedimento utile per uscire dalla crisi.
E anche Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, è di questo avviso, suggerendo di proseguire nella spending review che era stata avviata dalla scorsa legislatura.
La riduzione delle spese delle pubbliche amministrazioni, oltre alla lotta all’evasione, potrebbero contribuire ad una lenta ripresa, quanto mai urgente.

Pitruzzella ha infatti dichiarato: “Ci troviamo in una situazione di grave recessione e per ricreare coesione sociale, per dare risposte ai disoccupati ed alle famiglie che si trovano sulla soglia della povertà bisogna rimettere in moto l’economia. Solo se si producono risorse si possono poi ridistribuire risorse. In questa prospettiva forse qualche aggiustamento della riforma Fornero nell’immediato si potrebbe fare, fermo restando che l’obiettivo finale deve essere la stabilità del rapporto di lavoro“.

Il presidente dell’Antitrust ha espresso il suo parere riguardo gli esodati, problematica che va risolta per garantire al Paese, oltre ad una crescita economica, anche un’equità sociale dalla quale è impossibile prescindere.

Per riuscire in tutto ciò ”il risanamento va coniugato insieme con politiche dirette a stimolare la crescita e sotto questo profilo vorrei osservare che è importante quello che il governo farà anche sul tavolo europeo. C’è una connessione strettissima tra le politiche dell’Europa e le attività ed i risultati dell’economia sul piano nazionale e, lo stesso quadro europeo consente qualche forma di flessibilità per esempio per finanziare spese per investimenti produttivi. Si avvia dunque una stagione di grande interesse, il ‘cantiere Europa’ è aperto e credo che il governo ed il parlamento italiano dovranno impegnarsi approfonditamente su questo campo“.

Vera MORETTI

Mini-ASPI per chi ha perso il lavoro nel 2012

E’ prevista, per i lavoratori che hanno perso il lavoro nel 2012, un’indennità di disoccupazione, purché il lavoratore abbia un’anzianità assicurativa di due anni con almeno 78 giornate di lavoro nell’anno 2012.

Il sussidio mini-ASPI sarà erogato esclusivamente nel 2013 al fine di indennizzare periodi di disoccupazione relativi al 2012.
Il tetto massimo per la mini-ASPI è pari al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi due anni, se questa è pari o inferiore ad € 1.180,00 oppure, qualora fosse superiore, al 75% di € 1.180,00 sommato al 25% della differenza tra la retribuzione media mensile imponibile e l’importo di € 1.180,00.

L’indennità vale per una durata pari alla metà delle settimane lavorate nel 2012, calcolata come sottrazione tra il numero massimo di settimane presenti in un anno, ovvero 52, e le settimane lavorate e le settimane non indennizzabili o già indennizzate ad altro titolo.

La domanda per la mini-ASPI dovrà essere presentata all’INPS utilizzando in via esclusiva il canale telematico, fino al 2 aprile 2013.
E’ possibile collegarsi al sito web, attraverso i relativi servizi telematica accessibili con il PIN dell’Istituto, oppure il Contac Center multicanale attraverso il numero telefonico 803164 gratuito da rete fissa o 06164164 da rete mobile a pagamento.
Il pagamento avverrà in un’unica soluzione con accredito su conto corrente bancario o postale o su libretto postale o tramite bonifico domiciliato presso Poste Italiane.

Vera MORETTI

Non spengiamo l’Italia!

 

Dall’era dei ‘professori’ a quella dell’ingovernabilità. Il quadro dell’Italia post elezioni fa tremare borse e elettori, restituendo l’immagine di un Paese frammentato, irrisolto, in cui la fame di futuro non sembra sufficiente a non farlo ripiegare sul suo passato.  Ma se l’Italia a detta di tutti, destra, sinistra e movimento (il centro non esiste più) rischia davvero l’ingovernabilità, qualcuno dovrà pur governarla.

Infoiva torna al tema scelto per questa settimana, le Associazioni di Categoria e il nuovo Governo, facendo tappa a Firenze, la città del convitato di pietra di queste elezioni 2013, Matteo Renzi.

Secondo un’indagine svolta da Confcommercio Firenze su oltre 200 imprese dell’area fiorentina, a 6 mesi dalla ‘Riforma Fornero’, più del 50% delle piccole e medie imprese non ha alcuna conoscenza del suo contenuto, percentuale che sale all’ 80% per le microimprese, quelle che contano meno di 5 dipendenti.

I risultati diventano ancor più scoraggianti se si sonda il terreno fra chi la Riforma l’ha recepita, rimanendone deluso: per 9 imprese su 10 infatti,  la Riforma Fornero non ha prodotto alcun cambiamento nei rapporti di lavoro, mentre la principale conseguenza che si è avuta sono i problemi con i lavoratori a chiamata.

Ma qual è la ragione di così tanta distanza fra politica delle riforme e politica reale? Infoiva lo ha chiesto Alessandra Signori, Presidente di Confcommercio Firenze.

“Dalla nostra ricerca emerge un dato preoccupante: le piccole e medio imprese non conoscono la Riforma Fornero e non hanno né il tempo né le risorse per aggiornarsi in materia di lavoro. Le conseguenze possono essere sia problemi per il mancato adeguamento delle imprese a quanto previsto dal legislatore, sia la perdita di opportunità provenienti da incentivi statali e regionali. Alle associazioni di categoria e alle autorità competenti spetta pertanto l’importante compito di stimolare i piccoli imprenditori ad informarsi: senza conoscenza e attenzione a queste tematiche, non ci può essere crescita e sviluppo”.

E mentre da Confocommercio arriva la testimonianza di una totale distanza tra politica e mondo del lavoro, da CNA Firenze, Confartigianato Firenze, Confcommercio Firenze e Confesercenti Firenze arriva il grido di appello “Non spengiamo Firenze!.

Le quattro associazioni si sono rivolte alla politica e alle istituzioni chiedendo misure e azioni in grado di aiutare artigiani, commercianti e piccole e medie imprese a superare la drammatica situazione che stanno attraversando: dal 2007 al 2011 il tasso di disoccupazione nella provincia di Firenze è passato dal 3,5% al 6,1% mentre, nel 2012, il prodotto interno lordo è diminuito del 2,3% e i consumi precipitati del 4,3%.

Nei primi 9 mesi del 2012 il commercio, che rappresenta il 24,8% del tessuto imprenditoriale fiorentino, contando 27.081 imprese, ha perso 355 attività. A queste si aggiungono le – 84 imprese nel settore servizi di alloggio e ristorazione ( che con 7.011 imprese complessive è pari al 6,4% ).

Non va meglio se si guarda all’artigianato (31,1% del tessuto imprenditoriale locale) che nel 2012 ha segnato – 117 imprese nel settore manifatturiero ( su totale di 16.460) e -268 nel comparto costruzioni ( su 17.440).

I problemi che piegano l’impresa non cambiano:  pressione fiscale ormai alle stelle, difficoltà di accesso al credito, contrazione della spesa pubblica, consumi in picchiata e naturalmente una burocrazia esasperante ed onerosa.

Non spengiamo l’Italia!

Alessia CASIRAGHI

Chiarimenti sull’ASPI da parte del Ministero del Lavoro

La Riforma del Lavoro ha introdotto, come ben sappiamo, l’ASPI, ovvero la nuova assicurazione per l’impiego che ha preso il posto dell’indennità di disoccupazione, ma forse non tutti sono al corrente che riguarda le sole imprese e non tutti i datori di lavoro.

Per fare un esempio concreto, in caso di licenziamento di collaboratori domestici, non è dovuto.
Il dubbio era nato con l’applicazione del versamento della nuova tassa all’INPS: il contributo prevede un versamento la cui somma viene calcolata in modo indipendente dalle ore di lavoro effettivamente previste dal contratto.
Un collaboratore domestico, che sia badante, colf o baby sitter, che lavora poche ore alla settimana costerebbe al proprio datore di lavoro la stessa cifra delle imprese con dipendenti impiegati per 40 ore settimanali.

Se però l’Inps chiedeva un decreto che modificasse la norma a seconda dei casi, il Ministero ha preferito chiarire semplicemente che i datori di lavoro che licenziano collaboratori domestici sono esonerati dal contributo ASPI.

Con riferimento all’introduzione di ASPI e Mini-ASPI, occorre dire che in caso di contratto a tempo indeterminato la tassa dovuta da parte del datore di lavoro che licenzia è pari al 41% del massimale mensile ASPI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni, come previsto dall’articolo 2 comma 31 della Riforma Fornero.

La tassa va pagata solo in caso di licenziamento e non quando il lavoratore dà le dimissioni o se il rapporto del lavoro viene interrotto consensualmente.

Vera MORETTI