Apprendistato, un aiuto concreto per i giovani?

 

Garantisce un costo del lavoro più basso, perchè ne riduce il costo contributivo, ma è ancora troppo poco adottato dalla piccole e medie imprese per la sua complessità normativa e di gestione. Il contratto di apprendistato potrebbe rivelarsi un valido strumento per incentivare l’assunzione dei giovani in un momento in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto picchi storici e in cui la crisi economica non può più fungere da unico capro espiatorio.

Ma perchè le aziende faticano ancora a preferire il contratto di apprendistato? Oggi Infoiva ne discute con il Professor Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro presso l’Università Bocconi di Milano. Perchè per garantire un futuro a un’intera generazione che oggi viaggia ‘sul filo del rasoio’ della disoccupazione occorre agire adesso.

L’apprendistato avrebbe dovuto essere il canale d’ingresso principale dei giovani nel mercato del lavoro, ma a oggi pare fatichi ancora a decollare? Perché? Quali sono i suoi limiti?
Purtroppo l’apprendistato sconta una storia fatta di incertezze regolative, dove la indicazione del tipo di formazione – on the job o in aula – ed i suoi stessi contenuti sono rimasti appesi all’inerzia delle Regioni e della contrattazione collettiva nel regolare la materia. Il testo unico del 2011, rilanciato dalla riforma “Fornero”, dovrebbe spingere nel senso di un pieno completamento della disciplina, ma è necessario un maggiore impegno di Regioni e parti sociali.

La complessità normativa di questo tipo di contratto gioca a suo sfavore?
Il maggior ostacolo al ricorso all’apprendistato da parte delle imprese è proprio la complessità della disciplina e della gestione operativa degli apprendisti. Molto spesso i direttori del personale preferiscono rinunciare ai vantaggi del contratto di apprendistato, ritenuto troppo oneroso in termini di tempo e risorse organizzative da dedicare per ogni apprendista. Oltretutto, con il rischio di vedersi condannati a restituire gli sgravi contributivi nel caso si commetta qualche errore nella complicata gestione burocratica del contratto.

Perché un’azienda dovrebbe scegliere questo tipo di contratto piuttosto che un altro?
L’apprendistato potrebbe essere estremamente interessante per le imprese perché, da un lato, riduce significativamente il costo contributivo del lavoro e, dall’altro, garantisce la possibilità di formare il giovane neoassunto secondo le esigenze specifiche dell’organizzazione aziendale. Insomma un investimento nella qualità del lavoro ad un costo ragionevole. Nel panorama contrattuale a disposizione delle imprese non c’è nulla di altrettanto appetibile.

Ad oggi, alle piccole e medie imprese conviene stipulare contratti di apprendistato?
In teoria sì, ma la realtà ci dice che sono proprio le imprese meno strutturate ad essere maggiormente diffidenti nei confronti dell’apprendistato. Questo perché, vista la complessità di cui si è detto, all’interno delle piccole aziende non ci sono le risorse organizzative sufficienti per seguire gli apprendisti. Un’iniziativa importante, che dovrebbe essere estesa a tutto il territorio, è quella appena lanciata da Regione Lombardia, che finanzia le piccole e medie imprese che si avvalgano di operatori esterni accreditati per la gestione degli apprendisti.

Esistono, secondo lei, strumenti migliori per incentivare l’occupazione giovanile?
In questi tempi di grave congiuntura economica lo strumento più efficace per incentivare l’assunzione dei giovani sarebbe una decisa riduzione del costo del lavoro dovuto al carico fiscale/previdenziale. In attesa di vedere provvedimenti legislativi in questo senso, l’apprendistato garantisce un costo del lavoro più basso anche se, dobbiamo ricordarlo, un apprendista alterna il lavoro alla formazione e, dunque, nel breve periodo rende di meno di un lavoratore già formato.

Qual è il vero problema del mercato del lavoro in Italia? Pensa sia ancora troppo rigido, specialmente per quanto riguarda i vincoli di ingresso?
A mio avviso il vero problema è la bassa produttività del lavoro nel confronto con i paesi nostri diretti concorrenti. Mentre si profondevano fin troppo tempo ed energie in operazioni di ingegneria contrattuale e del mercato, il lavoro si andava drammaticamente assottigliando e quello che ancora resta è sempre meno produttivo. Il risultato è che stiamo scivolando verso un lavoro che produce minor valore aggiunto, rendendo le nostre imprese meno competitive nei mercati più ricchi e deprimendo ulteriormente i salari e la domanda interna. E’ un circolo vizioso che deve essere interrotto, pena un declino irreversibile del nostro sistema industriale nel mercato globalizzato.

Situazioni straordinarie come quella attuale per le imprese, l’economia e il lavoro, necessitano di iniziative e progetti straordinari: secondo lei il Paese e il governo stanno dando segnali positivi in tal senso?
Finora il governo si è concentrato nel ridurre la spesa per riportare i parametri del bilancio pubblico entro limiti accettabili dai mercati finanziari. Tuttavia senza l’impulso della spesa pubblica nessuna economia è mai riuscita ad uscire stabilmente da una fase di recessione economica grave come quella che stiamo attraversando. Dunque si pone un problema di dover sostenere la spesa pubblica in questa congiuntura straordinariamente negativa. Personalmente credo che non si possa più affrontare una disoccupazione che tocca ormai oltre un terzo dei giovani come se si trattasse di un semplice effetto collaterale della crisi. Quando raggiunge questa magnitudine, la disoccupazione diventa essa stessa causa della recessione. Per combatterla occorrono misure straordinarie, mettendo in campo risorse finanziarie straordinarie. Come ho già detto, la riduzione del cuneo fiscale è la prima e ormai indifferibile misura da prendere se si vuole produrre uno shock positivo sul mercato del lavoro. Dall’inizio della crisi sono state investite enormi risorse finanziarie per conservare i posti di lavoro già esistenti, ma pochissimo è stato speso per aiutare un’intera generazione di giovani che rischia di restare tagliata fuori anche dalla ripresa economica, quando finalmente ci sarà. Se si vuole scongiurare questo rischio occorre agire adesso.

Alessia CASIRAGHI

Non è un Paese per apprendisti

di Davide PASSONI

Uno strano destino quello dell’apprendistato in Italia. Mentre il ministro Fornero sigla un memorandum con la Germania per favorirne l’applicazione e annuncia il varo di una sezione all’interno del sito www.lavoro.gov.it e di un indirizzo mail (apprendistato@lavoro.gov.it) dove inviare osservazioni, suggerimenti, segnalazioni, le aziende continuano a nutrire diffidenza nei confronti di quella che dovrebbe essere la principale forma di ingresso nel mercato del lavoro.

Lo dicono i dati di fatto, ma lo dicono anche studi e analisi ad hoc. Una delle ultime a scattare una fotografia impietosa dell’impasse in cui si trova l’apprendistato viene dall’Ufficio Studi di Bachelor, network internazionale per la ricerca e selezione di neolaureati, ed è stata effettuata sugli annunci di lavoro destinati ai giovani laureati, relativamente al III trimestre 2012: solo il 4,6% di questi annunci offre, come forma contrattuale, un apprendistato. Raffrontando le percentuali anno su anno, si vede che, rispetto al terzo trimestre 2011 – in concomitanza con la definizione del testo unico sull’apprendistato – l’aumento è stato assai poco significativo (era al 3,7%).

Secondo i dati elaborati da Bachelor, il 66% degli annunci è rivolta a neolaureati (da 0 a 12 mesi dalla laurea), per i quali vengono proposti soprattutto stage: nel il 75,9% dei casi contro il 75,6% del III trimestre 2011. Un abisso, rispetto alle proposte di apprendistato, di cui abbiamo parlato sopra. Se invece ci spostiamo sulla fascia di coloro che stanno tra i 12 e i 24 mesi dalla data di laurea, le cifre dell’apprendistato peggiorano ulteriormente: 3,9% contro un miserrimo 0,8 del III trimestre dello scorso anno. Per la fascia 24-48 mesi, il nulla: 0,2%.

Un trend comprensibile, che si contrae mano a mano che il candidato invecchia (pur senza un’esperienza specifica, questo è il paradosso…) ma che non nasconde le difficoltà che questo tipo di inserimento affronta per diventare a tutti gli effetti uno strumento per accelerare l’ingresso dei più giovani al mercato del lavoro.

Stupisce, in questo contesto, che una delle associazioni in prima fila nella promozione dell’occupazione e dell’ingresso al mercato del lavoro come Assolavoro (l’Associazione Nazionale delle Agenzie per il Lavoro), risponda a Infoiva che “al momento non ritiene di suo interesse approfondire l’argomento“. Scusate, se non ora quando? Mah… Buon lavoro alle agenzie per il lavoro.

Comunque, tornando alla ricerca di Bachelor, è vero che questa prende in esame solo i soggetti laureati, ma l’avvio asfittico dell’apprendistato interessa anche diplomati e non, perché il problema è strutturale non contingente. Quali garanzie può offrire alle aziende, in un momento complesso come l’attuale, una forma di inserimento valida sulla carta ma che sconta una complessità della disciplina e della gestione operativa degli apprendisti, oltre a enormi incertezze regolative?

Apprendistato tra luci (poche) e ombre (molte)

di Davide PASSONI

Il lavoro, questo sconosciuto. In un’Italia che fatica più degli altri Paesi avanzati a trovare un filo logico cui attaccarsi per uscire dalla crisi bastarda che attanaglia lei e l’economia globale, quello del lavoro è un tema più che caldo: rovente. Un tema sul quale quelli del Governo si stanno rompendo la testa da un anno a questa parte, da quando sono subentrati all’Esecutivo Berlusconi. E sul quale hanno partorito una riforma, la cosiddetta Riforma Fornero, con più ombre che luci.

Prima c’era stato il testo unico sull’apprendistato, entrato definitivamente a regime 6 mesi fa, con il quale si era pensato di dare maggiore forza e competitività a questa tipologia di contratto di inserimento, per dare più opportunità di ingresso sul mercato del lavoro ai giovani. Ora, a oltre un anno dal varo del Testo Unico, si cominciano a trarre i primi bilanci che, pare, non sono del tutto positivi.

Da più parti si sottolineano le troppe rigidità in uscita (tra le quali i costi per recedere dal contratto e l’impossibilità di far passare di livello l’apprendista), alcune regole che penalizzano la diffusione dell’apprendistato, la durata massima della formazione (3 anni fissati dalla legge, che diventano 5 nel settore dell’artigianato e per determinate qualifiche professionali), le lacune attuative per il cosiddetto “apprendistato qualificante”, destinato ai ragazzi tra i 15 e i 25 anni. Non stupisce dunque se, secondo un’indagine effettuata dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro, solo un’azienda su cinque pensa più facile avviare l’apprendistato di mestiere o professionalizzante per assumere giovani tra i 18 e i 29 anni.

La cosa paradossale, però, è che molte delle associazioni professionali o d’impresa attribuiscono all’apprendistato un valore e un’importanza molto alti; quello di cui si lamentano sono la burocrazia, la farraginosità delle procedure per accedervi, l’incertezza sul ruolo delle regioni e i loro ritardi. Insomma, tutte carinerie che ricadono nell’ambito del legislatore più che in quello delle imprese. Per cui ci risiamo: per quale motivo, chiediamo, quando lo Stato cerca di avere buone idee, all’atto della loro messa in pratica rovina tutto? Cercheremo di scoprirlo ascoltando la voce degli interessati, lungo tutta la settimana.

Per il rinnovo dei contratti a termine serve un accordo tra le parti

La Riforma del Lavoro emanata da Elsa Fornero rischia di mettere a repentaglio 400mila posti di lavoro.

Questo è il numero dei contratti a termine in scadenza entro l’anno e che, invece di essere rinnovati, possono diventare cessazioni del rapporto, nel caso in cui la regola degli intervalli obbligatori fra contratti a termine venga applicata.
Ricordiamo che la Riforma Fornero prevede un lasso di tempo anche di 90 giorni tra un contratto e l’altro, e dunque ora c’è molta confusione al riguardo.

L’allungamento della pausa obbligatoria fra contratti a termine è stata introdotta dalla Riforma del Lavoro – comma 9, lettera g, dell’articolo 1: 90 giorni di pausa fra contratti a termine (dai precedenti 20 giorni), 60 giorni (da 10) in caso di contratti fino a sei mesi.

Intervalli ridotti (30 e 20 giorni) sono ammessi per contratti legati a: avvio di una nuova attività, lancio di prodotti e servizi innovativi, implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, rinnovo o proroga di una commessa consistente.
Inoltre, i termini ridotti a 30 o 20 giorni trovano applicazione anche “in ogni altro caso previsto dai contratti collettivi stipulati ad ogni livello dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale“, per citare la circolare ministeriale appena emanata.

Il ministero è quindi tenuto ad intervenire qualora non ci siano accordi collettivi, per precisare i diversi casi di esigenze organizzative che possono comportare la riduzione della pause.
Gli accordi collettivi possono anche prevedere di accorciare le pause, sempre a 30 o 20 giorni, senza che ci siano particolari esigenze organizzative, ma se questo non succederà non ci sarà alcun intervento specifico del ministero.

La circolare parla di contratti collettivi di qualsiasi livello, perciò questo non rende necessario attendere i rinnovi nazionali, ma sono sufficienti eventuali accordi territoriali o addirittura aziendali.
Sembra inoltre che, non essendoci scontri o incomprensioni con i sindacati, quello della riduzione delle pause fra contratti può essere una questione di facile soluzione, anche se servono accordi specifici tra le parti sociali.

Vera MORETTI

Il licenziamento collettivo nella riforma Fornero

La riforma Fornero ha toccato, tra le altre cose, anche la questione del licenziamento collettivo, che veniva ritenuto possibile, secondo quanto stabilito dalla legge del 23 luglio 1991 n.223, in casi di riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro e nella cessazione dell’attività.

Le imprese che possono ricorrervi sono quelle costituite almeno da 15 dipendenti che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, abbiano intenzione di effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco temporale di 120 giorni nell’unità produttiva oppure in più unità produttive dislocate nella stessa provincia.

La L. 223/1991 aveva anche previsto, in caso di mobilità, un significativo elemento innovativo rispetto al precedente assetto ordinamentale, consistente dal trasferimento dal controllo “ex post” giurisdizionale al controllo “partecipato” dell’iniziativa imprenditoriale devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatane di incisivi diritti di informazione, poteri di consultazione.

La legge diceva che: “La comunicazione da effettuarsi deve fornire compiuta indicazione delle modalità puntuali con cui sono applicati dal datore di lavoro i criteri di scelta, così da consentire a livello sindacale ed individuale la verifica sulla correttezza dei criteri di scelta adottati per l’individuazione dei dipendenti da licenziare. La comunicazione, altresì, deve essere “contestuale” al fine di assicurare la tempestiva verifica sia livello collettivo clic individuale della legittimità della scelta dei lavoratori da licenziare e della regolarità dell’intera procedura seguita“.

Ad essere modificati dalla recente L. 92/2012 sono stati gli artt. 4 e 5 della L. 223/1991, concernenti la procedura per la dichiarazione di mobilità dei lavoratori delle imprese.

In particolare viene specificato che la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, che l’impresa deve effettuare – comma 44 dell’art. 1 della L. 92/2012 – nei confronti di determinati soggetti pubblici, avvenga non contestualmente, bensì entro sette giorni dalla comunicazione dei licenziamenti a ciascuno dei lavoratori interessati.

Viene, quindi, previsto che gli eventuali vizi della comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria possono essere sanati nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della medesima procedura.

Vera MORETTI

In arrivo le pensioni per gli esodati?

Sembrava che fosse avvenuto un miracolo, ma, a dir la verità, non è accaduto nulla di così sorprendente.

Antonio Mastrapasqua, presidente dell’INPS, aveva infatti parlato di salvaguardia di 220mila lavoratori, coloro che erano rimasti senza pensioni né lavoro in seguito alla riforma Fornero sulle pensioni.
Ma ciò, almeno per ora, non trova fondamenti al Governo, oltre a fornire dati sbagliati.

Il presidente INPS, a questo proposito, secondo quanto detto da Vera Lamonica, segretario confederale Cgil, ha inserito nei 220mila anche 80mila futuri pensionati che non sono stati colpiti dalla riforma e quindi non rientrano nella nuova schiera di salvaguardati.
Tolti questi, ne rimangono 140mila, di cui 120mila sono già salvaguardati da due decreti, uno per i primi 65mila, l’altro per 55mila, ai quali si aggiungono 10mila esodati che verranno salvaguardati con un ulteriore fondo, annunciato dalla stessa Elsa Fornero.

Mastrapasqua ha poi sciorinato una serie di dati che riguardano il 2012: -35,5% di lavoratori andati in pensione, per un’età media di uscita dal lavoro di 61,3 anni, contro i 60,3 del 2011. E le previsioni dicono che l’anno prossimo si arriverà a 61,7, come accade già in Germania.

E a proposito di conti, sembra che le casse dell’INPS godano di ottima salute, come anche il sistema, considerato “stabile ed in sicurezza”.

Speriamo bene.

Vera MORETTI

Le modifiche della riforma del lavoro sui contratti di lavoro

Tra le modifiche apportate dalla Riforma del lavoro ce n’è una relativa ai contratti di lavoro.
Per quanto riguarda, poi, i lavoratori a partita Iva, la riforma Fornero è intervenuta sulla tipologia contrattuale non solo per quelle prestazioni “classiche” rese da professionisti iscritti in Albi, ma anche per le collaborazioni generiche stabili che le parti hanno voluto sottrarre al regime del lavoro subordinato o delle collaborazioni a progetto.

La norma di riferimento dispone che al ricorrere di determinate condizioni, la collaborazione resa dalla persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, debba essere ricondotta nella fattispecie del contratto di collaborazione a progetto.
Il rapporto a partita IVA dovrà essere riqualificato in un contratto di collaborazione a progetto, a meno che non venga fornita, dal committente, prova contraria.

Vediamo nel dettaglio quali casi rientrano nella norma:

  • la durata complessiva della collaborazione è superiore al periodo di 8 mesi nell’arco dell’anno solare ;
  • il “lavoratore” ha a disposizione una postazione fissa di lavoro, presso la sede dello stesso committente;
  • il corrispettivo percepito (sempre dallo stesso committente) è superiore all’80% dei guadagni.

Se ci si trova in presenza di almeno due di queste condizioni, i prestatori di lavoro sono identificati quali subordinati e quindi devono essere trasformati in collaboratori a progetto oppure in dipendenti.

Questo significa che l’applicazione del contratto a progetto comporta l’obbligo di individuare un progetto specifico, focalizzato su un risultato concreto che non potrà coincidere con l’oggetto stesso dell’attività aziendale.
Su quanto deliberato dalla riforma è stato modificato l’arco temporale, che ora prevede che la presunzione introdotta dalla precedente riforma debba essere verificata su un arco temporale di due anni.

Vera MORETTI

Il decreto sviluppo è diventato legge

Il decreto sviluppo è legge: il 3 agosto, dunque, è stata data l’approvazione definitiva ed è stato ufficialmente pubblicato.

Sono state aggiunte modifiche alla Riforma Fornero sul lavoro e riguardano, in particolare un credito di imposta per le nuove assunzioni di profili altamente qualificati, pari al 35% della spesa fino a un massimo di 200 mila euro.
Vengono inoltre modificati i requisiti per le partite Iva, che saranno calcolati su due anni solari.

Importanti sono anche le agevolazioni fiscali, a favore soprattutto di professionisti ed imprese. In particolare, si tratta della possibilità di liquidare l’Iva per la cassa.
Per imprese e professionisti con volumi d’affari fino a 200 mila euro, ad esempio, il limite sale a 2 milioni di euro, e cambia anche la modalità: chi opta per tale sistema dovrà applicare il principio della cassa sia all’Iva a debito che all’Iva a credito e la scelta non influirà sul proprio cliente o fornitore che potrà detrarre l’Iva normalmente.
In questo modo, perde importanza l’indicazione sulla fattura dell’esigibilità differita dell’Iva.

L’Iva differita ha comunque una “scadenza annuale”: trascorso questo lasso di tempo l’Iva sia a debito che a credito dovrà concorrere alla liquidazione dell’imposta e diventare quindi definitiva. L’eccezione riguarderà il cliente assoggettato a procedure concorsuali o esecutive.

Le agevolazioni riguardano anche l’edilizia e il risparmio energetico, con un aumento dal 36% al 50% per i lavori di ristrutturazione edilizia i cui bonifici saranno eseguiti entro il 30 giugno 2013 con aumento del limite di 48.000 euro per immobile a 96.000 euro.
Per quanto riguarda la detrazione del 55% per il risparmio energetico, è stata prorogata, dal 31 dicembre 2012, fino al 30 giugno 2013.

Ad approfittare di questa proroga saranno soprattutto i soggetti Ires, mentre le persone fisiche si avvarranno della detrazione del 50%, che prevede procedure più semplici e snelle.

Alcune modifiche riguardano anche le società a responsabilità semplificata e la possibilità di costituire la srl con un capitale sociale di un euro non solo per i giovani fino a 35 anni, ma anche ai meno giovani, per favorire una ripresa a chiunque si trovi in difficoltà, indipendentemente dall’età.

Novità anche per la deducibilità delle perdite su crediti. L’art. 33 del decreto sviluppo modifica l’art. 101 del Tuir prevedendo la possibilità di dedurre fiscalmente le perdite su crediti di modesto ammontare.
Viene pertanto stabilito che i crediti che non superano 2500 euro elevato a 5 mila per le imprese di grandi dimensioni e che sono scaduti da oltre sei mesi,possono essere considerati certi.

Vera MORETTI

‘Falsa’ partita Iva: non basta la monocommittenza

Con la riforma Fornero sono in arrivo nuove regole per chi lavora con la partita Iva, un esercito composito e sempre più numeroso. In Italia sono infatti circa 6,5 mln le partite Iva attive, di queste un milione sono di società di capitale, più di un milione di professionisti, oltre un milione di artigiani e commercianti e tre milioni e mezzo di professionisti non regolamentati con attività individuale. Ogni anno si aprono circa 200 mila nuove partite Iva mentre, secondo l’Isfol, le false partite Iva sono attorno alle 400 mila unità.

In questo universo convivono, dunque, sotto lo stesso regime fiscale, il giovane designer e il fotografo, l’organizzatore di eventi e il musicista, l’autotrasportatore e l’odontotecnico.

“Anche per questo -dice a LABITALIA Gabriele Rotini, coordinatore nazionale di Cna Professioni, che si occupa delle attività non ordinistiche- per individuare una falsa partita Iva occorre distinguere il discorso sulla monocommittenza da quello che riguarda l’aspetto legato a un’attività più prettamente imprenditoriale piuttosto che professionale”. Insomma, per Rotini, quello che distingue una vera da una falsa partita Iva “è anche la natura del committente: il professionista ha un rapporto diretto con il cliente, la falsa partita Iva sta dentro una ‘triangolazione’, in cui il rapporto tra fornitore e cliente passa attraverso il datore di lavoro”.

Rotini ha una lunga esperienza nel settore perché per oltre 10 anni è stato componente della commissione regionale del Lazio sull’artigianato.”Quando dovevamo valutare un caso -ricorda- la base che prendevamo in considerazione era quella dell’autonomia imprenditoriale e cioè vedere se il lavoratore in oggetto veramente era autonomo nel decidere i tempi di lavoro, mentre se i tempi di lavoro venivano fissati e decisi da altri, cioè dal committente, quello poteva essere lavoro subordinato”.

Insomma, dice Rotini, “la monocommittenza non può essere il solo indicatore che ci dice che il lavoro è subordinato, è un ragionamento piuttosto complicato”. “Come Cna professioni -conclude- difendiamo la sopravvivenza delle partite Iva, necessarie in un sistema economico dove il 96% delle aziende è fatto da piccole imprese sotto i 10 addetti”.

Fonte: adnkronos.com