Risorse Umane, risorse per la crescita

Come sarà il prossimo anno sul fronte dell’occupazione in Italia e nel mondo? Al di là delle cifre e dei proclami che arrivano da fonti governative, chi ha maggiormente in polso della situazione in questo ambito sono i direttori delle Risorse Umane delle aziende, piccole o grandi che siano.

Secondo l’ultimo HR Barometer stilato da Michael Page, società di ricerca e selezione di personale specializzato a livello mondiale nell’ambito del middle e top management, nei prossimi mesi si verificherà una crescita delle assunzioni. Lo prevede il 35% degli HR leader italiani e circa la metà (48%) di quelli presenti in tutto il mondo. In aumento anche la rilevanza delle Risorse Umane – ormai viste come sempre più strategiche per il successo del business – e il budget dedicato alla divisione HR.

Nel primo semestre 2015 Michael Page ha infatti realizzato uno studio nell’ambito delle Risorse Umane a livello mondiale su 2.500 HR manager appartenenti a un gruppo rappresentativo di industrie, dalle Pmi ai marchi blue chip, in 65 Paesi. In Italia sono stati interpellati 133 manager e dirigenti.

Dall’indagine emerge una tendenza generale legata alla ripresa della corsa ai talenti e soprattutto dell’occupazione: il 35% degli HR leader italiani prevede nei prossimi dodici mesi un aumento della forza lavoro (48% secondo il report globale). In più, il 24% delle organizzazioni aziendali ha incrementato il budget dedicato alla divisione Risorse Umane.

Per quanto riguarda le priorità delle Risorse Umane, in Italia risultano ai primi posti la gestione del cambiamento e i progetti di trasformazione (38%), alla pari con la formazione e sviluppo, seguite con un distacco minimo dalla gestione delle performance (37%) e del talento (32%). Parametri come le relazioni con i dipendenti e l’acquisizione di talenti o recruitment hanno un peso pari rispettivamente del 32% e del 29%.

Al di sotto della media globale si trova invece l’employer branding (4%). Sia in Italia sia nel mondo la gestione delle diversità e l0integrazione sono considerate fondamentali solo dai responsabili Risorse Umane nel 4% delle aziende.

L’indagine di Michael Page ha inoltre analizzato le modalità sulle quali le Risorse Umane misurano il successo. Al primo posto, per l’Italia, con il 65% delle risposte si posizionano le performance dei dipendenti, seguite dalle competenze (58%) e dalle performance manageriali (39%). Il coinvolgimento del dipendente, che nel mondo ha una rilevanza superiore anche rispetto alle competenze e occupa il terzo posto in ordine di importanza con il 46%, ottiene in Italia il 31% delle scelte.

Una differenza ancora più sostanziale tra l’Italia e gli altri Paesi riguarda il turnover del personale: su dimensione globale è il secondo fattore più misurato per valutare le prestazioni dei dipendenti, in Italia è decisivo solo per il 17% dei leader nell’ambito Risorse Umane.

Ciò che accomuna la tendenza del ruolo HR tra Italia e resto del mondo è la crescita della sua influenza, sempre più strategica soprattutto per attrarre, assumere e trattenere talenti. Un aspetto che, in Italia, è rilevante per il 62% dei manager, ma a livello globale conta ben l’86%. Rimanendo nei confini nazionali, l’influenza delle Risorse Umane è importante per le relazioni con i dipendenti (87%), la formazione e sviluppo (85%), l’Hr policy (83%), la gestione delle performance (77%), retribuzioni e benefits (75%).

Infine, un dato importante per misurare il peso delle Risorse Umane in azienda: il 73% degli HR leader italiani nel senior management riporta direttamente alle figure apicali dell’azienda, Ceo, Cfo, presidente, direttore generale.

Legno-arredo alla prova della ripresa

I segnali postivi di una timida ripresa nei diversi settori dell’economia italiana si estendono anche al settore legno-arredo, grazie a una crescita significativa dei mercati esteri ma anche ad un recupero del mercato interno.

Sono le prime evidenze contenute in una recente rilevazione effettuata dal Centro Studi FederlegnoArredo su un campione di oltre 600 aziende associate, che ha riguardato in particolare l’intenzione delle aziende del legno-arredo di effettuare nuovi inserimenti occupazionali entro il 2015.

Le aziende hanno comunicato una valutazione positiva delle aspettative di vendita per il 2015 soprattutto verso i Paesi extra-Ue, in particolare Usa, Medio Oriente, Centro America e Cina. Buoni segnali anche dal mercato interno del legno-arredo, che mostra una variazione positiva dopo un lungo periodo di calo.

La velocità di crescita resta differente tra i mercati, con un tasso di sviluppo del 6,9% dell’estero rispetto all’Italia che, con un +3,8%, inizia però a recuperare. I dati confermano un trend già rilevato durante il 2014 di una crescita delle esportazioni complessive del 2,9%, grazie in particolare alle vendite nel Regno Unito (+10,4%), Stati Uniti (+13%), Cina (+28,9%) e Arabia Saudita (+14,4%), mercati dove tradizionalmente il legno-arredo va alla grande.

Le previsioni sulle vendite nel 2015 sono alla base delle indicazioni fornite dalle aziende del legno-arredo su nuovi inserimenti lavorativi previsti nel 2015: il 37% di loro dichiara di voler introdurre nuove risorse in azienda. Per il 66% di essi si tratta di nuovi inserimenti in aggiunta all’organico, mentre solo il 14% dichiara trattarsi di una sostituzione e il restante 20% lascia aperta l’opzione tra le due scelte. La proiezione sul totale delle imprese associate determinerebbe un numero di inserimenti pari al 2,5% degli addetti attuali, al lordo di eventuali dimissioni o riduzioni nel settore.

Le figure ricercate dalle industrie del legno-arredo sono prevalentemente commerciali (oltre il 50%) e tecniche, legate al design e alla ricerca e sviluppo (il 30%): il 32% di loro richiede anche uno o più export manager a supporto delle strategie di internazionalizzazione (trend in sensibile aumento) e il 22% figure commerciali per l’Italia, destinate al presidio della rete e dei punti vendita; il 29% ricerca personale per ufficio tecnico e ricerca e sviluppo.

Visto che la domanda interna è tornata a crescere, per le aziende del settore legno-arredo è rilevante anche il peso attribuito alle risorse di produzione, con un 46% delle richieste, e agli acquisti e logistica con un 12% del totale. Il restante 20% dichiara di voler inserire risorse di gestione e amministrative.

Insomma, se la ripresa, per quanto lenta, è partita, il settore legno-arredo ci crede e sta facendo il possibile per agganciarla.

La ripresa (seppur flebile) delle Pmi italiane nel primo semestre 2015

La luce in fondo al tunnel inizia a farsi meno flebile. Se il quadro relativo alla situazione 2014 per l’Italia mostra ancora una leggera flessione per l’attività economica (0,4% l’interno lordo), dopo le drammatiche contrazioni delle due annate precedenti dove il Pil si ridusse del 2,8% nel 2012 e dell’1,9% nel 2013, ecco che le prospettive per il secondo semestre dell’anno e per i primi mesi del 2016 possono essere lette con un pizzico di ottimismo. Per quanto riguarda le piccole e medie imprese si intravede la ripresa e la necessità di assumere: 4 imprese su 5 (80%), secondo un’indagine su un campione di oltre mille imprese sul territorio nazionale, non necessitano di ridurre personale entro il 2016, mentre una su tre (32%, il 25% solo il mese scorso) intende aumentare il numero dei propri dipendenti entro i prossimi 12 mesi.

Seppur lento e in certi frangenti impercettibile, il lento miglioramento nelle condizioni del mercato del lavoro alimentato dalle Pmi nostrane si evidenzia nel confronto anno su anno. A sostenere i numeri e le percentuali raccolte ci sono, secondo le segnalazioni, “un giro d’affari tornato a crescere” e la percezione che “la ripresa appena iniziata possa consolidarsi nel tempo”.

Relativamente alla movimentazione aziendale, va rilevato che nel primo trimestre 2015, nonostante il Pil sia tornato a crescere dello 0,3%, sono nate 114.502 nuove iniziative economiche, 872 in meno dello stesso periodo dello scorso anno. Si tratta della quarta contrazione consecutiva del numero delle nuove imprese iscritte nei Registri delle Camere di Commercio, ma comunque inferiore a quella degli anni precedenti e che fa ben sperare in un segno positivo nei prossimi mesi.

I commercialisti: ma quale ripresa economica?

Ripresa economica. Parole pronunciate da tanti ma che, nel business quotidiano delle imprese, in pochi vedono. E a conferma di quella che non è solo una sensazione ma una buia realtà, arriva un sondaggio sulla politica economica del Governo svolto dalla Fondazione nazionale dei Commercialisti, dal quale emerge una grande preoccupazione per la situazione delle piccole imprese e del mondo del lavoro autonomo in generale, per i quali mancano anche minimi segni di ripartenza.

I commercialisti intervistati nel sondaggio apprezzano gli interventi del Governo a favore delle Pmi, come il taglio dell’Irap e la flessibilità sul mercato del lavoro, ma li giudicano insufficienti per garantire una solida ripresa economica. Relativamente al Jobs Act, la maggioranza dei commercialisti intervistati pensa che, pur essendo apprezzabili le misure prese sul piano della flessibilità e delle condizioni del mercato del lavoro italiano, la crisi della domanda proveniente dal mercato interno, le rende di fatto inefficaci per la ripresa economica.

Il punto è proprio questo. La quasi totalità dei commercialisti coinvolti nel sondaggio crede che, fino a quando non ci sarà una vera ripresa della domanda interna, il contratto a tutele crescenti darà luogo quasi esclusivamente a stabilizzazioni di posti di lavoro a termine o di altre forme di precariato anziché a nuove assunzioni.

Del resto, le conclusioni del sondaggio parlano chiaro. Le misure adottate dal Governo sono sostanzialmente dei palliativi perché non aggrediscono i veri problemi che, a detta dei commercialisti, sono d’intralcio alla ripresa economica dell’Italia: l’inefficienza della Pubblica amministrazione e l’assetto istituzionale del Paese.

Fallimenti aziendali, è ancora allarme rosso

Per quanto il premier Matteo Renzi ostenti ottimismo sulle possibilità di ripresa dell’Italia, le piccole e medie imprese sono ancora in grande sofferenza, come dimostra il dato sui fallimenti aziendali. Nel secondo trimestre 2014, i fallimenti aziendali sono stati 4.241, in aumento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. È quanto emerge dai dati del Cerved, società quotata specializzata nell’analisi del rischio di credito, analizzati dall’Ansa.

Nell’intero primo semestre 2014 i fallimenti aziendali hanno raggiunto quota 8.120 (+10,5%); si tratta del record assoluto dall’inizio della serie storica, risalente al 2001. L’analisi condotta dal Cerved mostra come i fallimenti aziendali riguardano tutta Italia: i tassi di crescita sono dappertutto in doppia cifra ad eccezione del Nord Est, dove l’incremento è del 5,5%.

In aumento del 14% rispetto al primo semestre 2013 sono invece i fallimenti aziendali al Sud e nelle Isole; il Nord Ovest fa registrare un +10,7%, il Centro un +10,4%. A causa dei recenti correttivi legislativi sono letteralmente collassate le domande di concordato in bianco (-52%) e diminuiti i concordati comprensivi di piano (-12,3%). Giù anche le liquidazioni che, con un -10,3% tra gennaio e giugno, segnano un’inversione di tendenza a livello semestrale dopo un lungo periodo di incremento.

Queste analisi sui fallimenti aziendali hanno suscitato diversi commenti. Secondo Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved, “stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle Pmi italiane: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto sia al credit crunch sia a una domanda da troppo tempo stagnante“.

Sui fallimenti aziendali è ancora più dura ancora Confcommercio: “Il dato sui fallimenti aziendali conferma che la crisi continua a dispiegare i suoi effetti, costringendo molte imprese, che finora hanno resistito, a chiudere“. Secondo l’associazione delle imprese, “per il perdurare della stagnazione dei consumi, per una pressione fiscale che non accenna a diminuire, per l’impossibilità di far fronte ai fabbisogni finanziari, come della scarsa offerta del credito, e per il calo di fiducia, le imprese fronteggiano un quadro economico di crisi strutturale“.

Quale la soluzione per Confcommercio? “Le riforme economiche devono, pertanto, essere al centro dell’agenda di Governo perché se non si attua quella poderosa operazione di sottrazione, meno tasse e meno spesa pubblica, il Paese è destinato a rimare ancora fermo al palo“. Aspetta e spera…

Cala l’inflazione, adesso un biennio di moderata ripresa

Trainato soprattutto dalla solita domanda estera e dalla graduale ripresa degli investimenti, il prossimo biennio sarà caratterizzato da una moderata crescita. E’ questo il quadro che disegna il bollettino mensile (il primo del 2014) della Banca d’Italia. Secondo gli economisti di Via Nazionale, il Pil avrebbe interrotto la propria caduta nel terzo trimestre del 2013 e, sulla base dei sondaggi e dell’andamento della produzione industriale, la crescita del prodotto sarebbe stata appena positiva nel quarto trimestre. Gli indici di fiducia della imprese sono ancora migliorati, collocandosi – si legge nello studio – sui livelli osservati all’inizio del 2011.

Il bollettino della Banca d’Italia fotografa anche il calo dell’inflazione, giù dello 0,7% nell’ultimo mese del 2013 e proprio da quest’anno si registrerebbe una moderata ripresa dell’attività economia, che accelererebbe, seppure in misura contenuta, l’anno prossimo: dopo essersi ridotto dell’1,8% nel 2013, il Pil crescerebbe dello 0,7% quest’anno e dell’1,0% nel 2015. Meno positivo, invece, il tasso di disoccupazione che ha toccato il 12,3% nel terzo trimestre e sarebbe ulteriormente salito al 12,6% nel bimestre ottobre-novembre.

Jacopo MARCHESANO

Artigianato, il rilancio passa dai giovani

Quale sia la strada per valorizzare le manifatture artigiane in Italia lo ha mostrato all’inizio di novembre CNA Giovani Imprenditori della due giorni di dibattito “Manifatture, IV Festival dell’Intelligenza Collettiva”, che si è tenuta nella capitale italiana del bello e della creatività, Firenze.

Un incontro con protagonisti di vari settori, non solo di quello economico, per fare il punto sul Made in Italy e gli asset per il rilancio del sistema Paese: manifattura di qualità, cultura, bellezza, export. Due giorni di dibattito con al centro una domanda e, per fortuna, un sacco di risposte: come valorizzare il potenziale manifatturiero italiano per trasformarlo in opportunità di sviluppo ed esportazione?

Magari cominciando a investire sui giovani. In Italia ci sono 1.438,601 imprese artigiane (il 23,6% del totale delle imprese del Paese) che generano un fatturato di 150 miliardi di euro, il 12% del valore aggiunto italiano. Sul totale delle imprese italiane, quelle giovanili sono 675.053, ma solo il 3.2% (195.842) sono artigianali e solo il 7,6% delle nuove imprese create appartiene al settore manifatturiero. Perché non investire in questo settore dove si intravedono ampi spazi di crescita ed occupazione per i giovani?

Se nel mondo, come emerso dal dibattito fiorentino, stiamo assistendo a una nuova rivoluzione industriale che passa dal taylorismo al tailor made e molti Paesi stanno già attuando importanti politiche di investimento a sostegno della nascita di nuove piccole imprese manifatturiere, in Italia il tessuto di Pmi è già florido e rappresenta il 99% del tessuto produttivo. I nostri simboli del made in Italy: moda, design e alimentare, continuano a crescere, ad esportare e generare fatturato, un motivo in più per tutelare, sostenere e promuovere il Made in Italy va tutelato, sostenuto e promosso.

Secondo Andrea Di Benedetto, Presidente dei Giovani Imprenditori CNA, “il nostro potenziale sta proprio nella capacità manifatturiera che accomuna oltre 100mila Pmi italiane. Imprenditori che devono avere come obiettivo la penetrazione dei mercati esteri trovando linfa nell’innovazione. L’attuale incertezza economica deve diventare quindi lo stimolo per affermarci quali produttori di qualità, riempiendo sapientemente le nicchie del mondo”.

Secondo Di Benedetto, “qualità del prodotto e digitale sono le leve per consentire alle nostre imprese di internazionalizzarsi ed essere competitive nei mercati globali. Il tempo delle lauree come strumento di emancipazione sociale è finito. Oggi è emancipato chi è realizzato. E’ tornato il tempo del fare, del produrre, del creare con le mani e vendere in tutto il mondo grazie ad una comunicazione efficace e all’utilizzo del web per promuoversi e costruire, raccontandola, una nuova epica dell’artigianato”.

Parole sante. Ora aspettiamo i fatti, dalle imprese e da chi, a livello politico e fiscale, avrebbe il compito di sostenerle, non quello di affossarle.

L’Italia è una repubblica fondata sugli artigiani. Aiutiamoli

di Davide PASSONI

L’Italia è un Paese che ama i luoghi comuni, in qualsiasi ambito della vita quotidiana: dallo sport alla religione, dalla cultura all’economia. Purtroppo. Specialmente in ambito economico, infatti, i luoghi comuni andrebbero lasciati da parte, perché non fanno bene a nessuno. Uno dei più celebri è quello che vuole l’Italia patria dell’artigianato, tanto di quello di qualità quanto di quello, diciamo così, di largo consumo.

Come in tutti i luoghi comuni, un fondo di verità c’è, è inutile negarlo. La capacità e la maestria che abbiamo noi italiani in ogni tipo di produzione artigianale sono riconosciute e incontestabili, ma non è tutto oro quello che luccica. Le imprese artigiane soffrono tanto se non di più rispetto alle altre, in qualsiasi campo o regione esse operino. Basta dare un’occhiata alle statistiche di questi ultimi mesi per rendersene conto: in Sicilia, Sardegna Abruzzo, persino in regioni che con artigianato fanno rima – come Toscana e Marche – i trend di fatturato sono negativi, quelli relativi alle chiusure delle aziende positivi. Se poi ci mettiamo anche la sfiga di eventi catastrofici come quelli accaduti in Sardegna negli ultimi giorni, allora il quadro è completo.

Come sempre, dunque, è meglio darsi da fare per cercare delle soluzioni anziché piangersi addosso. Una di queste potrebbe essere, per una volta, riuscire a fare sistema, come imprese artigiane globalmente e come singole specificità produttive: andare in ordine sparso sul mercato interno e, soprattutto, su quello estero è una strategia perdente. Poi, cominciare a riconoscere la specificità di questo tipo di imprese e sostenerne la crescita con misure ordinarie e straordinarie sia sul lato degli incentivi economici sia, soprattutto, sul lato delle agevolazioni fiscali. Poi, sostenere una politica seria di inserimento di giovani in questo complesso tessuto produttivo, fornendo loro supporti e strumenti per proseguire nella realizzazione di prodotti eccellenti e apprezzati in tutto il mondo.

Sono solo alcuni piccoli passi, altri e più utili e intelligenti ci saranno di sicuro. Quello che è certo è che in un momento di crisi come questo e in un periodo dell’anno, quello che precede le festività natalizie, la spesa degli italiani si orienta ancora di più su produzioni artigianali, non tanto per spendere meno, quanto per spendere meglio. Se le imprese artigiane potessero sfruttare questa onda lunga anche per restanti mesi dell’anno, forse qualche segno di vera ripresa potrà cominciare a vedersi davvero. Non solo sulla carta o nella sfera di cristallo di burocrati ed economisti.

Confcommercio: “La crisi rischia di trasformarsi in crisi sociale”

Il 2014 da più parti è visto come l’anno della ripresa. Negli scorsi giorni il presidente della Commissione europea, il portoghese José Manuel Barroso, ha indicato il prossimo anno come decisivo per la crescita economica: “L’economia dell’Ue e’ giunta a una svolta e gli sforzi cominciano a dare risultati, la crescita sta lentamente ripartendo, per il 2014 siamo finalmente fiduciosi per una crescita durature”.

Ma a smorzare gli entusiasmi per il nostro Paese, arriva la denuncia del presidente della Confcommercio, Carlo Sangalli, convinto che senza un’adeguata riduzione fiscale sia impossibile giungere alla tanto agognata ripresa economica: “Nel 2014 il calo ci sarà, ma appena dello 0,1%. Se le cose stanno in questo modo – aggiunge  il presidente dell’organismo di rappresentanza delle imprese che sono impegnate nel commercio, nel turismo e nel terziario – il 2014 non sarà certo l’anno della ripresa, con il rischio che la crisi economica si trasformi in crisi sociale se si continuerà a far quadrare i conti dello Stato usando la leva fiscale”.

Secondo una ricerca Confcommercio-Cer presentata a Venezia e basata sugli ultimi dati forniti dal governo, il peso fiscale su famiglie e imprese viaggerà infatti a quota 44% almeno fino ai prossimi tre anni, per calare (soltanto di qualche decimale…) nel 2017.

Niente ripresa se il mercato interno è out

In questi ultimi giorni, da più parti si sente dire che è in atto una ripresa economica che, seppur lieve, dovrebbe contribuire a cambiare la situazione nei prossimi mesi.

Nicola Rossi, presidente di Confesercenti Padova, non è però ottimista al riguarda, perché ancora il nostro mercato interno non ha risentito di questo cambio di rotta.
Le attività commerciali, ma anche quelle che offrono servizi alla persona, l’artigianato di servizio e la ristorazione sono rimaste molti indietro rispetto ad altri settori, più reattivi, ma finché in questi ambiti non si vedranno miglioramenti, sarà impossibile parlare di ripresa.

Finora, infatti, le buone notizie arrivano dall’export, che ha fatto da traino ad un mercato interno ridotto all’osso. E neppure i saldi estivi e il turismo hanno contribuito a risollevare la sorte dei commercianti.

Ma il mercato interno è fondamentale anche per l’occupazione giovanile, rimasta al palo, ma le aziende, quelle rimaste aperte, non assumono e, anzi, tagliano su tutto, personale compreso.
Gli incentivi sulle assunzioni ci sono, ma non bastano a ricoprire la domanda, perciò, fa sapere Rossi, è necessaria una politica di rilancio della domanda interna, che si traduce in meno tasse per famiglie ed imprese, maggiori investimenti pubblici ma anche privati, e soprattutto non aumentare l’Iva, che rappresenta il nodo da sciogliere in queste ore.

A livello locale, il presidente di Confesercenti Padova chiede il rilancio dei consumi con l’applicazione al minimo l’aliquota IRPEF, l’alleggerimento, da parte dei comuni, dei costi dei servizi attraverso accorpamenti, fusioni ed unioni, riducendo da subito IMU e TARES ed altre i poste a carico delle imprese.

Vera MORETTI