Ripresa lenta per l’Italia e 2018 in calo

Se il 2017 era stato l’anno della ripresa, con un saldo positivo dell’1,5%, il 2018 non sarà in grado di ripetere né di aumentare questa performance.

La Cgia ha condotto un’indagine secondo cui il Pil italiano aumenterà dell’1,3% e che vedrà gli altri paesi Ue in rialzo rispetto a noi, Grecia compresa, che aumenterà la propria ricchezza del 2,5%, mentre la Francia segnerà il +1,7%, la Germania il +2,1% e la Spagna il +2,5%.
Aumenti quasi irrisori interesseranno anche le famiglie (+1,1%) e la Pubblica amministrazione (+0,3%). Note positive, invece, relative alle tasse, ma la situazione non è certamente delle più rosee.

Queste le parole di Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia: “Al netto di eventuali manovre correttive e degli effetti economici del cosiddetto bonus Renzi stimiamo che la pressione fiscale generale sia destinata a scendere al 42,1 per cento: 0,5 punti in meno rispetto al dato 2017. Prosegue, quindi, la discesa iniziata nel 2014. Il risultato del 2018, comunque, sarà ottenuto grazie al trend positivo del Pil nominale che aumenterà di oltre 3 punti percentuali e non a seguito di una contrazione del gettito fiscale che, invece, salirà del 2 per cento. Se il Governo Gentiloni non avesse fatto slittare sia l’introduzione dell’imposta sui redditi sulle società di persone e imprese individuali sia la cancellazione degli studi di settore, il carico fiscale generale avrebbe subito una contrazione decisamente superiore, soprattutto a vantaggio delle piccole e micro imprese”.

Considerando le previsioni attuali, per recuperare il livello di crescita antecedente alla crisi occorrerà aspettare fino al 2023. Per colmare i consumi delle famiglie e gli investimenti sia pubblici sia privati, bisognerà aspettare rispettivamente il 2019-20 e il 2030.

Sul fronte del lavoro, infine, la Commissione europea stima il tasso di disoccupazione in discesa al 10,9 per cento, mentre il numero degli occupati dovrebbe salire di 0,9 punti percentuali.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha dichiarato: “A differenza di quanto è successo in questi ultimi anni speriamo che il nuovo esecutivo che uscirà dalle urne torni ad occuparsi dei temi strategici per il futuro di un paese: come, ad esempio, creare lavoro di qualità, quali politiche industriali e formative sviluppare, come affrontare le sfide che l’economia internazionale ci sottopone. Abbiamo bisogno di affrontare queste tematiche, altrimenti rischiamo di veder aumentare lo scollamento già molto preoccupante tra il mondo della politica e il paese reale”.

Per quanto riguarda la situazione a livello regionale, sarà il Veneto, nell’anno in corso, a registrare il più alto aumento di Pil, che arriverà all’1,6%. Al secondo posto l’Emilia Romagna e la Lombardia (+1,5%) e in quarta posizione il Friuli Venezia Giulia (+1,4%).

Tra le regioni più in ritardo in termini di recupero ci sono la Calabria (-11,2%), la Liguria (-11,4), la Sicilia (-12,5), l’Umbria (-14,9) e il Molise (-16,9).

Vera MORETTI

Niente ripresa se la spesa delle famiglie non aumenta

Si potrà parlare di vera e propria ripresa solo quando la spesa delle famiglie sarà tornata ai livelli del 2007 in tutte le regioni. Per ora questi dati sono stati registrati solo in sei regioni, un po’ poco per poter dire effettivamente che la crisi è solo un ricordo.

Si tratta del Trentino-Alto Adige, della Liguria, della Basilicata, della Valle d’Aosta, dell’Emilia Romagna e della Toscana, ma comunque con differenti intensità, e con incrementi maggiori nelle province autonome di Trento e Bolzano, con una spesa media annuale in aumento di 2.493 euro sul 2007. Seguono le famiglie liguri, che nel 2016 hanno speso poco più di mille euro in più (1.026) rispetto a quanto al pre-crisi. Al terzo posto c’è la Basilicata, che registra una spesa media familiare in ascesa di 434 euro sul 2007, poco lontano dagli incrementi di Valle d’Aosta (+389 euro a famiglia) e Toscana (+377). Ripresa in atto, ma per un soffio, per i nuclei dell’Emilia Romagna, ora assestati su una spesa media di 35.705 euro, 89 euro in più rispetto al periodo pre-crisi.

Le altre regioni, al contrario, ancora arrancano, con livelli di spesa nettamente inferiori a quelli del 2007, ma anche in questo caso le differenze territoriali sono notevoli.
Se, infatti, le famiglie lombarde si stanno avvicinando ai livelli pre-crisi (-163 euro l’anno), in altre Regioni si registrano picchi negativi molto preoccupanti, al Nord come nel Centro Italia e nel Mezzogiorno.
Le peggiori performance appartengono alle famiglie umbre, la cui spesa media annuale, nell’ultimo anno disponibile, è stata inferiore di -5.711 euro al dato registrato nel 2007. A poca distanza c’è la Calabria (-5.628 euro di spesa media) ed il Veneto, dove il buco del budget familiare si attesta a -4.881 euro. E, oltre al Veneto, tre altre Regioni hanno un deficit di spesa media superiore ai 4mila euro l’anno per nucleo familiare: Sardegna (-4.251 euro), Molise (-4.227 euro) e Marche (-4.037 euro).

Questa situazione ha decisamente contribuito a far aumentare il divario tra le regioni, perché, se nel 2007 la differenza annua tra Trentino e Calabria, rispettivamente la regione più ricca e più povera, era di 8.350 euro, oggi è di quasi 16.500, il 97% in più. Un aumento che porta la spesa meda delle famiglie calabre ad essere poco più di della metà (il 54%) di quella dei trentini.

Mauro Bussoni, Segretario Generale Confesercenti, ha dichiarato in proposito: “I segnali in arrivo da molti comparti dell’economia, turismo ed esportazioni, appaiono positivi come non mai. Dopo anni di difficoltà, la ripresa appare finalmente a portata di mano: un cambiamento che non può che avere che conseguenze positive sulla fiducia di cittadini e imprese. Ma se è vero che sono necessari tre indizi per fare una prova, dopo le buone performance della produzione industriale e dei flussi turistici, per confermare in pieno il ritorno alla crescita nostro Paese manca proprio la ripresa dei consumi delle famiglie. Che, come è evidente dai dati dell’indagine, non si è ancora materializzata nella maggior parte di Italia. Per questo riteniamo assolutamente necessario intervenire a favore delle famiglie e alle imprese che fanno riferimento alla domanda interna, dai negozi alle botteghe artigiane. La prossima legge di Bilancio, al netto di richieste draconiane da parte dell’Europa, potrebbe essere l’occasione per mettere in cantiere un intervento redistributivo che consolidi la ripartenza dei consumi. Ricordiamo, da questo punto di vista, che sono trascorsi dieci anni dall’ultima revisione delle aliquote Irpef”.

Vera MORETTI

Pmi italiane alla prova della ripresa

Il fatto che siano la vera forza del tessuto produttivo nazionale fa sì che le Pmi italiane costituiscano anche il più importante bacino occupazionale, anche e soprattutto in tempi di crisi.

Secondo un’elaborazione dell’Ufficio studi della Cgia, infatti sarebbero poco più di 250mila (253.500, per la precisione…) le nuove assunzioni non stagionali previste nei 6 mesi del 2015 nei settori dell’industria e dei servizi privati. Un aumento consistente, +25,6% rispetto allo stesso periodo del 2014. Segno che le Pmi italiane provano a rispondere alla crisi con i numeri.

Entrando nel dettaglio delle assunzioni delle Pmi italiane, poco più di 164mila (pari al 65%) sono state impiegate nel settore dei servizi, che si conferma un buon bacino per combattere la crisi: in particolare, 40.300 sono stati i nuovi assunti nel commercio, 29.710 in quello nei servizi alle persone e poco meno di 27mila (26.910) nel turismo e nella ristorazione.

Nell’industria, dove le Pmi italiane hanno una presenza più significativa, le previsioni sono invece di sapore un po’ meno dolce, visto che i neo assunti non stagionali dovrebbero essere poco meno di 89.500 (il 35% circa del totale).

Il segnale incoraggiante, in questo caso, per le Pmi italiane viene dal settore delle costruzioni dove, tra ingegneri, geometri, carpentieri, muratori, gruisti e lattonieri, i nuovi occupati sarebbero quasi 2mila, 1.930. Una cifra all’apparenza piccola, ma se si pensa che sono state le Pmi italiane di questo settore a soffrire di più (anche adesso) le sferzate della crisi, forse è il caso di provare a vedere positivo.

Nei settori meccanico ed elettronico, invece, fiori all’occhiello della nostra impresa, i soggetti che avrebbero cominciato a lavorare nel primo semestre 2015 sarebbero 16.870.

Cerved: calano le società protestate e ritardi nei pagamenti

Tanto per rendere le cose più facili e aggiungere contraddizioni a contraddizioni, un ennesimo studio parla di segnali concreti di ripresa per le imprese. Questa volta tocca a Cerved che, analizzando il proprio database che monitora le esperienze di pagamento di 2,5 milioni di imprese italiane, rileva come, nel primo trimestre 2015, è calato del 18% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno il numero delle società protestate, fermo a circa 15mila.

Secondo Cerved, il calo dei protesti si accompagna a una riduzione dei tempi di liquidazione delle fatture e dei ritardi dei pagamenti; una tendenza che indica diffuso miglioramento delle abitudini di pagamento delle aziende italiane

Cerved rileva come, in media, nei primi tre mesi del 2015 le imprese italiane hanno pagato le proprie fatture in 76,5 giorni, un giorno in meno rispetto allo stesso periodo 2014, mentre i ritardi sono scesi a 17,2 giorni dai 18,4 dello stesso periodo del 2014: è il livello più basso dal 2012.

Altro segnale positivo individuato da Cerved riguarda la riduzione dello stock di fatture commerciali non pagate da parte della Pa, un calo registrato sia in termini numerici (49,8% al 31 marzo 2015, contro il 53,9% al 31 marzo 2014), sia in termini di valore (il 49,5% dal 60,1%). Rimane comunque alta la quota di mancati pagamenti sulle fatture di nuova emissione.

Secondo Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved, “i dati del primo trimestre confermano i segnali positivi emersi negli scorsi ed evidenziano che la crisi ha trasformato alcuni comportamenti delle imprese: le aziende, più attente nel concedere credito, ottengono pagamenti più rapidi e più puntuali. Nel Nord del Paese e nell’industria i protesti sono già tornati sotto i livelli pre-crisi e proseguono i pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione, anche se rimane alta la quota di mancati pagamenti sulle nuove fatture“.

Da Confesercenti doccia fredda sulla ripresa

Dall’assemblea annuale di Confesercenti a Genova, una doccia fredda sui numeri positivi e sulle speranze di ripresa per la nostra economia. Nel corso della sessione sono stati infatti presentati i risultati di un’indagine condotta da Confesercenti con Swg dalla quale emerge che il 71% degli italiani non vede in prospettiva una ripresa dei consumi.

Nel dettaglio, Confesercenti rileva che il 41% di chi non la ripresa nei prossimi mesi, prevede di mantenere i propri consumi invariati, mentre il 30% prevede di diminuirli e solo il 24 prevede di aumentarli.

Sempre dalla ricerca Confesercenti emerge come, per quanto riguarda il reddito mensile, il 61% degli italiani segnala una situazione difficile: di questa percentuale, il 47% afferma di riuscire appena a coprire le spese e il 14% di non avere reddito disponibile nemmeno per le necessità indispensabili della famiglia.

Non va certamente meglio sul fronte delle imprese. Confesercenti rileva che ben 8 imprenditori su 10 (l’82%) ancora non vedono la ripresa di non aver intercettato la tanto decantata inversione di tendenza. Il 51% non rileva miglioramenti rispetto allo scorso anno, il 31% dichiara di avere subito un nuovo calo e solo il 17% delle imprese vede rosa. A che cosa è dovuta questa ripresa mancata? Per gli imprenditori soprattutto al prelievo fiscale esagerato.

Come se non bastasse, il mercato del lavoro risulta ancora ingessato da alcune scelte fallimentari operate dai governi precedenti. Nello specifico, secondo uno studio Confesercenti Ref, l’introduzione della riforma Fornero nel 2012 ha portato a un rapido aumento dei lavoratori compresi tra i 55 e i 65 anni: rispetto al 2010 oggi ce ne sono quasi un milione in più, che fanno da tappo e da ostacolo all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

Doccia ghiacciata questa di Confesercenti. Vedremo se il governo recepirà.

Adiconsum contro gli 80 euro di Renzi

Bordata di Adiconsum contro gli 80 euro: non hanno rilanciato i consumi, meglio tassare le transazioni finanziarie, dice il presidente nazionale Pietro Giordano. “Ha ragione il Segretario Generale della Cisl, Anna Maria Furlan: altro che rilancio dei consumi. Con una recessione ancora imperante e una deflazione che rischia di far deflagrare il sistema economico nazionale, gli 80 euro del Governo Renzi sono stati assorbiti dalla tassazione locale e dall’aumento della tassazione attraverso le accise sui carburanti, che oramai superano il 60% del costo della benzina, visto che si continuano a mantenere tasse di scopo anacronistiche, come la guerra di Eritrea o il disastro del Vajont”.

Secondo Giordano e Adiconsum “per superare la crisi e rilanciare i consumi bisognerà passare da un’economia basata sulla finanza, che non produce occupazione, anzi la erode, e che spesso è invece paragonabile ad un ‘casinò finanziario’ che serve solo a far ‘ingrassare’ sempre di più i già ricchi, quando non produce titoli spazzatura e bolle finanziarie che fanno esplodere l’intero sistema economico e sociale del globo, ad un’economia reale”.

“Si vari finalmente – conclude Giordano, voce di Adiconsum – la tassa sulle transazioni finanziarie (0,05%) su ogni compravendita di strumenti finanziari, con particolare riferimento al mercato dei derivati, che hanno costi di transazione molto più ridotti sul mercato spot. Si genererebbe così un gettito annuale di 200 miliardi di euro su scala europea e di 650 miliardi di dollari su scala globale. Gettito che andrebbe destinato al welfare, alla cooperazione, allo sviluppo e alla lotta contro i cambiamenti climatici, senza colpire i piccoli risparmiatori o i fondi pensione”.

Attività commerciali: la ripresa dov’è?

Provate a parlare di ripresa a chi ha un’attività commerciale. Nella migliore delle ipotesi, vi risponderà con una sonora risata, nella peggiore vi tirerà addosso il mazzo di chiavi con il quale ha dovuto chiudere il proprio negozio.

Il recente meeting di Confesercenti che si è tenuto in Umbria ha infatti messo bene in chiaro una cosa: la crisi non allenta la presa sul commercio. Nonostante segnali di miglioramento rispetto al 2012, l’estate 2013 ha segnato un altro momento nero del settore. Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Confesercenti, tra luglio e agosto hanno aperto 2.656 nuove imprese commerciali in sede fissa e hanno cessato l’attività 5.574, per un saldo negativo di 2.918 unità.

Il risultato del IV bimestre 2013 è lievemente migliore (+332 imprese) di quello registrato lo scorso anno nello stesso periodo (-3.250 esercizi), ma si è annullata la “ripresina” messa a segno nel bimestre maggio-giugno 2013 quando hanno aperto 7.546 nuove imprese, 3.532 in più rispetto a marzo-aprile.

Complessivamente, nei primi otto mesi dell’anno si registra un saldo negativo di 14.246 imprese nel commercio al dettaglio (18.208 nuove aperture e 32.454 chiusure). Si tratta comunque di un miglioramento, anche se debole, rispetto al saldo dei primi otto mesi del 2012, negativo per 15.772 esercizi. Il risultato è dovuto principalmente all’aumento delle nuove iscrizioni (+2.015), dato che compensa il più lieve incremento delle chiusure (+489).

Il rapporto di Confesercenti sottolinea che la percentuale di imprenditori stranieri nel settore è arrivata al 67%: “un fenomeno socio-economico che meriterebbe un approfondimento”. Molto importante anche il ruolo delle imprese giovanili, il 38,2% delle nuove iscritte, e significativo il peso delle imprese femminili (30%) e di quelle straniere (22,1%). In termini di peso sul totale delle cessazioni, appare critica la situazione delle imprese femminili, che compongono la percentuale maggiore (35%). Male anche quelle giovanili, che rappresentano il 20% delle chiusure. Resistono meglio gli imprenditori stranieri (11,9%).

La recessione, tecnicamente, sta per finire. Purtroppo non si può dire altrettanto della crisi del commercio e di quella del turismo”, dice il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni. “Ormai è chiaro a tutti che le liberalizzazioni delle aperture non servono ad agganciare la ripresa: il miglioramento dei dati 2013 sul 2012 è così lieve da sembrare più che altro un rimbalzo”.

Secondo Bussoni è “particolarmente preoccupante” la situazione di donne e giovani: “Intraprendono l’avventura imprenditoriale per crearsi un lavoro, ma la domanda interna è ancora bassissima, e il mercato asfittico”.

Senza puntare sulla formazione dei nuovi imprenditori e sull’informatizzazione delle nuove imprese – dice ancora Bussoni – non si può più sperare che il commercio continui a rivestire il ruolo di shock absorber della disoccupazione. Non è tenendo aperto sempre che si aiuta il settore: c’è bisogno di un cambiamento di mentalità e di passo. Non ci si può più improvvisare imprenditori. Ora il governo dia risposte nuove e convincenti”.

Già, sempre il governo…

La ripresa: tutti ne parlano, pochi la toccano con mano

di Davide PASSONI

Tutti ne parlano, qualcuno dice di vederla, di toccarla con mano ma, alla prova dei fatti la tanto attesa ripresa sembra essere più un mantra e un auspicio che la realtà.

Ci sono segnali di ripresa ma sarà abbastanza lenta“, ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco al termine del recente Ecofin, precisando subito che “c’è incertezza e si riflette su imprese e attività produttiva” e che sulla ripresa dell’economia pesa in particolare un “ritardo non solo di natura ciclica ma anche strutturale“. “Ripresa entro fine anno. Una crisi di governo ora sarebbe irrazionale”, gli ha fatto eco il ministro dell’Economia Saccomanni.

E per chiudere, la Bce conferma “per i restanti mesi del 2013 e il prossimo anno un lento recupero del prodotto, sostenuto soprattutto dall’orientamento ‘accomodante’ della politica monetaria“.

Insomma, tutti a dire che, forse, il fondo lo abbiamo davvero toccato e adesso altro non si può fare che risalire. In realtà, però a guardare le cifre relative alla mortalità delle imprese italiane, al peso delle tasse che le schiacciano, alla difficoltà di ripresa della domanda interna (motore primo da accendere per poter ripartire), la fotografia che appare è ben diversa.

Questa settimana Infoiva cercherà di capire che cosa c’è di vero e che cosa di propagandistico in questi proclami e di verificare se, anche in questo quadro economico il momento che stiamo vivendo è come l’ora più buia della notte: quella che precede l’alba.

Fondazione Impresa analizza la situazione delle Pmi

L’Osservatorio congiunturale di Fondazione Impresa ha elaborato una nuova foto della situazione economica delle Pmi. Sono state analizzate quelle fino a 20 dipendenti al fine di valutare la capacità di crescita nel periodo post crisi. Ordini, fatturato ed export sembrano leggermente crescere nonostante i settori interessati siano limitati.

Sono soprattutto le pmi del nord- ovest a crescere (+0,6% rispetto a dicembre). Allarmante è ancora la situazione occupazionale(solo +0,1% rispetto al 2010). E’ l’export a trainare con un incremento del 2,1% rispetto al semestre precedente e del 4% su base annua. A fronte del buon andamento delle esportazioni si registra un aumento invece scarso delle produzioni, solo + 0,4% rispetto al precedente semestre e 0,9% sull’anno precedente.

La crescita di fatturato sale del 0,2% e 0,5% su 6 e 12 mesi. Il settore che sembra tenere di più è quello dei servizi mentre soffre ancora il commercio. Davide Nicolai, responsabile della ricerca di Fondazione Impresa sottolinea: “La leggera ripresa non è ancora in grado di riportare l’occupazione ai livelli del 2009, mentre il buon risultato dei servizi fa emergere come, durante la crisi, un discreto numero di persone si sia ricollocato nel terziario, prendendo la forma di liberi professionisti che hanno cambiato ambito di attività o di piccolissime imprese, formate al massimo da una o due persone. Sul commercio, invece, pesa la fase di contrazione dei consumi delle famiglie, che restano sempre deboli e concentrati soltanto sulle spese di prima necessità, come gli alimentari».

d.S.

Milàn l’è un gran… coworking

di Davide PASSONI

Insieme alla Camera di Commercio di Ferrara, anche il comune di Milano si è distinto per la grande attenzione dedicata al tema del coworking. L’assessore alle Politiche per il lavoro, Sviluppo economico, Università e ricerca del comune di Milano, Cristina Tajani, spiega a Infoiva il perché. 

Come comune siete tra i primi in Italia a intuire le potenzialità del coworking: perché?
Il coworking è un ottimo strumento non solo per abbassare i costi del lavoro autonomo ma soprattutto per fare networking tra professionisti, cosa che permette, soprattutto ai giovani, di rafforzare competenze e spazi sul mercato. Milano è la città italiana con maggiore presenza di lavoratori autonomi e del terziario avanzato in cui si registra anche un numero significativo di imprese promosse da under 35. Sono soprattutto queste tipologie di professionisti ad avanzare la richiesta di spazi di lavoro condivisi. Abbiamo quindi avviato un monitoraggio delle realtà milanesi dove si pratica il coworking: realtà che, sulla base di una prima ricognizione abbiamo modo di ritenere siano già molte, almeno una trentina. Si tratta di luoghi creati proprio con lo scopo del coworking oppure di studi professionali medio-piccoli che vengono condivisi per abbassare le spese di affitto e i costi fissi. Anche sollecitati da questi operatori abbiamo quindi deciso di promuovere, in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano, un intervento che stimoli i giovani a sperimentare il lavoro condiviso. Il bando partirà entro la primavera 2013 e prevede uno stanziamento di 200 mila euro da parte del Comune, che saranno assegnati tramite voucher da 1.500 euro destinati a giovani che intendono lavorare negli spazi della rete di coworking accreditati con il Comune.

Spesso questa formula di lavoro è associata a un’imprenditoria giovane: qual è, sul vostro territorio, la situazione dell’ occupazione giovanile? E dell’imprenditoria giovanile?
Il dato sulla disoccupazione giovanile a Milano al 20%: un dato preoccupante se confrontato con quello degli anni precedenti la crisi economica (nel 2007 era 18,6% e nel 2008 15,6%), ma è migliore rispetto al dato nazionale che si assesta oltre il 30%. Pur nelle difficoltà generali del momento Milano offre maggiori occasioni per i giovani e stiamo lavorando ad ampliarle con progetti come quelli degli incubatori di impresa destinati specificatamente ai giovani. È positivo, inoltre, constatare che il tasso di occupazione dei giovani uomini e delle giovani donne non è significativamente differente. Nelle nuove generazioni milanesi le opportunità di accesso al lavoro sono simili i tassi si divaricano intorno all’età della maternità quando molte giovani donne abbandonano il posto di lavoro e fanno fatica a ritrovarlo. Come già detto, la situazione dell’imprenditoria giovane a Milano è piuttosto dinamica anche se, per via della crisi, ha subito un certo rallentamento.

Non pensate che restringere i destinatari di questo tipo di finanziamenti, come tanti fanno, agli under 35 sia limitante? La crisi ha espulso dal mercato del lavoro molti over 40 che con il coworking potrebbero rimettersi in pista più facilmente…
Siamo impegnati ad aiutare le fasce più fragili dei lavoratori, di cui i giovani fanno parte, ma sicuramente dopo questo primo “esperimento” intendiamo allargare le possibilità di accesso al coworking anche ad altre categorie di lavoratori.

Pensa che in una tessuto produttivo come quello di Milano, dove già il coworking è una realtà da tempo, questo si possa sviluppare ed espandere in maniera convincente nei prossimi anni?
Sicuramente il coworking è destinato ad espandersi nella nostra città, perché tutti quelli che già lo stanno sperimentando ne sono entusiasti, non solo, ovviamente, per l’abbassamento di costi fissi delle loro attività ma perché grazie alla condivisione degli spazi si creano anche nuove sinergie e quindi nuovi progetti di lavoro. L’assessorato alle Politiche per il Lavoro, Sviluppo economico e Università e ricerca ha tra i suoi primi obiettivi proprio quello di sostenere le giovani imprese attraverso molti progetti, ne possiamo citare alcuni. Ne abbiamo appena avviato uno in via del tutto sperimentale, volto al recupero di spazi inutilizzati nelle periferie.

Il coworking diminuisce i costi e aumenta le idee: come comune, quali altri strumenti mettere a disposizione di imprese e professionisti per ottimizzare tempo, risorse e creatività?
Finanziando la nascita di nuove imprese e mettendo a disposizione gli spazi, lo scopo è duplice, da una parte creare lavoro e dall’altra provare a innescare positivi processi di integrazione sociale: ne sono nate, ad esempio, imprese di ristorazione artigianale prodotta da persone con disabilità, servizi di animazione per bambini, realtà di telemarketing svolto da donne sole con percorsi di disagio alle spalle. Sempre per sostenere i giovani attraverso il bando ‘Welcome Talent Business’ si sono premiati otto talenti rientrati dall’estero per aprire a Milano una nuova impresa: tra questi si sono distinti progetti legati alla sostenibilità e alle energie rinnovabili e alla valorizzazione e commercializzazione di prodotti enogastronomici di qualità del nostro territorio. Inoltre, proprio in questi giorni, è partito un altro bando dedicato al rientro di ricercatori e imprenditori nel settore agroalimentare, strategico per Milano anche in vista di Expo.