Il 2012 è stato… Speciale. Il 2013 lo sarà ancora di più (speriamo…)

di Davide PASSONI

Carissimi lettori di Infoiva, anche questo 2012 è arrivato alla fine. Lo so, ci avete seguito assiduamente durante tutto l’anno e in molti di voi lo hanno fatto fin da quando siamo nati, quasi tre anni fa. Ragion per cui, forse per molti di voi quello che abbiamo pensato per chiudere l’anno e aprire il 2013 con nuovo slancio è qualcosa di già visto… Ma noi parliamo a tutti, anche a chi in questo 2012 si è perso qualcosa delle nostre news. Ecco dunque qui sotto tutti i nostri speciali da luglio in poi. Buona lettura e buon anno.

LUGLIO 

Saldi estivi

Sicilia a rischio default

Le imprese turistiche si preparano all’estate

 

SETTEMBRE

Imprese turistiche, come’è andata l’estate

Filiera italiana dell’auto

Filiera italiana del tessile

Srl semplificata

 

OTTOBRE

Imprenditori suicidi

Filiera italiana della ceramica

Smau 2012

Buoni pasto

 

NOVEMBRE

Imprese funebri

Mediazione obbligatoria

Apprendistato

Franchising

 

DICEMBRE

Natale, previsioni sui consumi

Professioni non regolamentate

Filiera italiana dell’edilizia

Morire d’impresa, noi non ci stiamo


di Davide PASSONI

Morire d’impresa. Quando la crisi morde, gli imprenditori che restano senza impresa, i lavoratori che restano senza lavoro possono non essere in grado di sopportare il colpo. E possono compiere gesti estremi. Succede ed è successo spesso negli ultimi mesi e così qualcuno ha deciso di muoversi per affrontare il problema. La Confartigianato di Asolo-Montebelluna, la Caritas e la Uls 8 di Asolo hanno dato vita al progetto “Life Auxilium“, con un numero verde (800130131) e punti di ascolto sul territorio per avvicinare gli imprenditori in difficoltà e aiutarli a gestire la crisi. Prima che sia troppo tardi. Ci ha raccontato del progetto uno dei suoi ideatori, il presidente della Confartigianato di Asolo-Montebelluna Stefano Zanatta.

Come è nata la vostra iniziativa?
La nostra è una realtà ad alta densità imprenditoriale che ha arricchito il territorio con aziende nate soprattutto tra gli Anni ’70 e ’80. In questi ultimi anni di crisi, uno “stato di calamità innaturale” che dura da troppo tempo, abbiamo cercato di capire come questa crisi fosse percepita da parte degli imprenditori della zona. Volevamo sondare i loro stati d’animo, niente di più. Abbiamo preso a campione diversi titolari di impresa, senza andare a vedere il settore merceologico nel quale operavano. Il lavoro è stato fatto da due psicoterapeuti e i risultati ottenuti sono stati insoliti, per noi.

Ovvero?
C’era chi percepiva la crisi come un momento per ripensare l’intero sistema e ripartire con maggior slancio e coglieva l’aspetto positivo nella negatività del momento. Dall’altra parte c’era chi, non avendo mai avuto problemi nella propria azienda, si vedeva tutto a un tratto mancare il lavoro, le banche che non erogavano prestiti, i tempi dei pagamenti che si allungavano… In poche parole, queste persone si vedevano crollare il momdo addosso, senza essere preparate dal punto di vista psicologico a gestire il momento drammatico. E intanto che raccoglievamo tutti questi dati, aumentava il numero di imprenditori che si toglievano la vita. Per cui abbiamo pensato che fosse il momento di fare qualcosa.

Ed è nato…
Ecco dunque l’idea di “Life Auxilium”, un centro di ascolto che non chiamerei banalmente sportello anti-suicidi come è stato definito da più parti. In questo progetto abbiamo coinvolto la Caritas di Treviso, che aveva già intrapreso un progetto simile al nostro, ci siamo incontrati e confrontati e assieme a loro abbiamo presentato un progetto di supporto al territorio. Abbiamo coinvolto anche la Uls 8, la nostra Uls territoriale, perché vedevamo nel fenomeno la possibilità di aspetti patologici. Così è nato lo sportello che è attivo dal 2 marzo, che riceve circa un paio di chiamate al giorno da parte di imprenditori che lamentano la stretta creditizia delle banche, le pressioni di Equitalia, i mancati pagamenti da parte di clienti e fornitori. Ma riceviamo anche tante mail davvero strazianti.

Che servizi offre “Life Auxilium”?
Lo sportello offre un servizio di tipo psicologico e uno di tipo tecnico. Vogliamo dare alle persone le indicazioni per muoversi quando ci fanno domande pratiche, ma anche gli strumenti per affrontare il disagio da un punto di vista psicologico.

Oltre a voi, chi sostiene gli imprenditori in difficoltà?
Abbiamo notato che è importantissimo il sostegno della famiglia la quale, a volte, finge invece di non vedere. In alcuni casi estremi che ho conosciuto c’erano problemi familiari alle spalle che, una volta sopraggiunti anche quelli economici, hanno fatto esplodere le situazioni.

Perché si arriva a tanto, secondo lei?
Nel nostro contesto culturale, il fallimento imprenditoriale è visto come un fallimento personale. Un retaggio duro a morire, perché bisogna cambiare e capire che l’impresa è soprattutto un’infrastruttura sociale, non è una cosa personale, esclusiva: quando gestisco 3-400 persone, la mia azienda non si ferma a me, va oltre, investe il territorio e la società che mi circonda. Bisogna cambiare la testa della gente, un lavoro molto lungo e difficile da fare.

E poi c’è il fatto che, nella vostra zona, le piccole aziende sono davvero tante…
Viviamo sì in un territorio ad alta imprenditorialità, ma che è fatto di piccole aziende; oggi il mercato è globalizzato, per cui gli orizzonti sono cambiati e bisogna essere preparati ad affrontarlo in modo adeguato. In questo senso, è necessario fare squadra, sistema, aggregare imprese per sostenere il nostro tessuto sociale e produttivo.

Quanti imprenditori hanno deciso di farla finita in questi anni di crisi, nel vostro territorio?
Negli ultimi tre anni, sono oltre 50 i casi di imprenditori del Nord-est che si sono tolti la vita e alcuni di questi mi hanno toccato personalmente da vicino.

I familiari di alcuni imprenditori suicidi hanno accusato le istituzioni di essere stati lasciati soli. Che consa ne pensa?
Penso che vadano assolutamente aiutati, che lo Stato debba essere più vicino, non solo quando si tratta di spremere le aziende ma anche quando vanno sostenute. Il problema è che la burocrazia è sempre più forte e vince su una politica sempre più debole. E poi alla fine l’anello ancora più debole è quello che dovrebbe essere il più forte, ovvero l’impresa, l’imprenditore che dovrebbe lavorare tutti i giorni per portare ricchezza a sé e al territorio. E questo è un grave paradosso.

Imprese alla ricerca di Terraferma

 

Imprese che resistono, imprenditori che devono resistere. Di fronte alla crisi, al timore di doversi trovare nella situazione di licenziare i propri indipendenti o alla paura del fallimento, molti imprenditori decidono di togliersi la vita. Altri invece riescono, con l’aiuto e il supporto di chi sta loro attorno a risalire la china, e guardare al domani.

Infoiva ha intervistato Massimo Mazzucchelli, imprenditore e responsabile del progetto Terraferma, un’iniziativa nata in senso all’associazione Imprese che resistono, per offrire un supporto psicologico immediato (gli psicologi di Terraferma sono reperibili 24 ore su 24) a chi si trova, troppo spesso inconsapevolmente, ad attraversare il momento più buio.

Com’è nata l’idea di Terraferma?
Faccio parte del movimento Imprese che resistono (ICR) dal 2009, ossia da quando è nato, e da allora ci impegniamo a denunciare come la crisi economica sempre più forte aggredisca soprattutto le piccole imprese italiane: aumentano i casi di suicidio fra gli imprenditori che non ce la fanno più. L’idea di Terraferma è nata di conseguenza: mi ricordo che all’inizio del 2012 mi era capitato di ascoltare a qualche telegiornale le parole di un Ministro italiano che ‘giustificava’, mi passi il termine, come in una situazione di grave difficoltà come quella che stiamo attraversando, sia normale che aumentino i casi di gesti estremi, un po’ come è successo in Grecia. Di fronte a queste parole, la mia prima reazione è stata di forte rabbia: non mi sembrava possibile che nessun facesse niente. Era più che mai necessario offrire a tutti gli imprenditori un sostegno immediato, soprattutto del punto di vista psicologico, e specializzato: così ho contattato un’amica psicologa e nel giro di un paio di mesi è nato il progetto Terraferma. Oggi l’iniziativa conta 30 psicologi in tutta Italia, sempre reperibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Perché avete scelto questo nome, Terraferma?
Viviamo in una fase di cambiamento epocale, l’industria manifatturiera, un tempo cavallo di battaglia dell’italianità, viene ricollocata in altri Paesi, perchè la produzione costa meno. Ma come si crea lavoro e ricchezza allora nel nostro Paese? Se le situazioni di crisi hanno da sempre posto gli imprenditori di fronte ad una scelta, questa volta si tratta di trovarsi in un vicolo cieco, dove la piccola e media industria, da sola, non ha gli strumenti per salvarsi. Gli imprenditori vivono oggi in una situazione di tempesta, e volevamo trasmettere l’idea di una Terraferma, di un punto d’appiglio cui ancorarsi.

Qual è la sua storia da imprenditore?
Mi sono diplomato in ragioneria e sono un ingegnere mancato, nel senso che ho frequentato per un un paio d’anni il Politecnico, ma poi ho scelto di dedicarmi all’impresa di famiglia. Mio padre è mancato poco dopo, ma è da lui che ho appreso le conoscenze fondamentali per mandare avanti un’impresa: essere presenti 7 giorni su 7 in azienda e occuparsi esclusivamente dell’attività. La nostra azienda produce dispenser per nastri adesivi, si tratta di attrezzi che servono per l’imballaggio e sono quindi destinati alle aziende di produzione: l’Europa resta il nostro primo cliente, l’America secondo, mentre in Italia il nostro giro d’affari si aggira attorno al 5% del fatturato. A partire dal 2009 la nostra produzione ha subito una forte flessione, come conseguenza al calo della produzione nelle imprese di tutto il mondo. E’ proprio in quel periodo che ho capito che per un imprenditore è necessario investire almeno una parte del proprio tempo per conoscere e approfondire ciò che accade intorno alla propria azienda e nel mondo, interessarsi alla vita pubblica, alle scelte del governo, delle associazioni di categoria. la mia reazione immediata è stata quella di rimboccarmi le maniche: investire sulla produzione di nuovi articoli, produrre abbassando i i costi, creare brevetti su nuovi prodotti, affidarsi marketing on line, ma qualunque sforzo facessi di risultati sul fatturato non se ne vedevano. Nel momento più difficile mi sono avvicinato al movimento Imprese che resistono.

Quali sono le ragioni più frequenti per cui gli imprenditori si rivolgono a Terraferma?
Il problema fondamentale in Italia è la mancanza di lavoro: l’assenza di liquidità è un sintomo della mancanza di lavoro, che è la vera causa della crisi. Le ragioni per cui gli imprenditori si rivolgono a noi sono diverse: dalla banca che vuole il rientro dei Fidi, agli artigiani in difficoltà perché, per determinare quanto devono pagare di tasse, il fisco si basa ancora oggi sugli studi di settore, che non tengono conto dei momenti di crisi e del reale fatturato dell’azienda. Gli artigiani che non riescono a pagare si trovano così costretti a fare ricorso, che spesso non viene accolto, e se il pagamento non viene evaso a quel punto subentra Equitalia. Altre ragioni ancora riguardano la difficoltà a rientrare nei pagamenti con i clienti, e molto spesso il primo cliente a non pagare è lo Stato.

Perchè è importante offrire un supporto psicologico agli imprenditori che vivono sulla propria pelle l’esperienza della crisi?
L’imprenditore è abituato a fare da sé, ma in queste situazioni estreme è impensabile agire da soli. Sono spesso i famigliari a contattarci: il rischio è che l’imprenditore si chiuda in sè stesso, vuoi per la difficoltà del sentirsi chiamare tutti i giorni dalla Banca, il rischio che i fidi non vengano rinnovati, e la vergogna di sentirsi definiti evasori anche quando non si tratta di assolutamente di evasori, ma di imprenditori in ritardo con i pagamenti per mancanza di liquidità. Quello cerchiamo di fare in primis è riportare la persona a confrontarsi con la realtà, perché spesso di fronte alla tempesta si perde il contatto con chi ci sta attorno: il problema viene ingigantito e si perdono di vista le cose fondamentali, i rapporti con famiglie e i colleghi. In un secondo momento, superata la fase spiazzamento iniziale, il nostro compito è di fornire un supporto pratico alle imprese, per aiutarle a uscire dalle criticità con cui si trovano a fare i conti, mettendo a disposizione una rete di commercialisti, avvocati e consulenti finanziari.

Una fra le spinte più forti che conducono gli imprenditori a prendere la decisione più estrema, ovvero togliersi la vita, riguarda il peso di dover licenziare i propri dipendenti. Quali emozioni scatena?
Ogni imprenditore vive un senso di responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. Questo vale soprattutto per i piccoli imprenditori, perché c’è contatto diretto, si lavora insieme, mentre nelle grandi aziende queste decisioni vengono gestite dalle risorse umane. Di fronte a una persona che molto spesso è un’amico d’infanzia, oppure un dipendente che lavora nelle tua azienda da 30 anni, i cui figli lavorano lì, risulta impossibile per un impreditore dire ‘non sono più in grado di offrirti un lavoro’. L’imprenditore vive da un lato un forte senso di respinsabilità, perchè molto spesso conosce le storie singole di ciascuna famiglia, e dall’altra parte un senso di impotenza, perchè non riesce a far fronte alla crisi e a non aumentare la produzione.

Avete vissuto in prima persona casi di imprenditori che hanno tentato il suicidio? Perchè si arriva ad una decisione così estrema?
Qualche mese fa mi è capitato di ricevere la telefonata di una persona che ‘non ce la faceva più’, ma che fortunatamente è riuscita a superare il momento più buio. Hanno contattato Terraferma anche parenti e famigliari di persone che purtroppo si sono tolte la vita e avevano bisogno di capire che cosa fare dell’azienda, come agire. Siamo in contatto inoltre con la figlia di Mario Frasacco, l’imprenditore di Roma che si è suicidato lo scorso 4 aprile, che ha voluto denunciare allo Stato la disperazione che vivono sulla loro pelle ogni giorni i titolari di aziende.

Fare impresa oggi in Italia fa paura?
Fa paura a chi la sta facendo, sono sempre di meno i piccoli imprenditori che ‘mettono’ in azienda i propri figli perché non ne vale più la pena; preferiscono indirizzarli verso lo studio, l’università e un percorso formativo fuori dall’azienda di famiglia, che molto spesso coincide con un non-ritorno. Il capitale investito in un’azienda dovrebbe remunerare sia l’imprenditore che il rischio d’impresa, ma oggi non è più così. Non c’è la soddisfazione della crescita, diminuisce la domanda interna, si allarga lo spazio d’azione ma si riducono le quantità. Si lavora sul presente, e non si guarda al futuro, purtroppo.

Alessia CASIRAGHI

La perdita del lavoro è una perdita di sè?

 

La perdita del posto di lavoro o il fallimento della propria attività, il proprio percorso professionale che si è costruito e maturato nel tempo, non genera conseguenze negative solo a livello economico. Dietro la perdita dell’occupazione si nasconde un ‘male oscuro‘ che talvolta è difficilmente ravvisabile o che spontaneamente il soggetto coinvolto non riesce a portare alla luce. Quali sono le conseguenze a livello emotivo e psicologico di chi si trova ad affrontare una perdita professionale, che rappresenta una porzione fondamentale del nostro vissuto?

Infoiva ha chiesto a Pier Giovanni Bresciani, Presidente SIPLO, la Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, e docente delle Università di Bologna e di Genova, quali sono le reazioni più frequenti e i campanelli dall’allarme da non sottovalutare, e in che modo le persone vicine possono offrire una forma di supporto a chi ha subito la perdita del proprio lavoro.

A livello emotivo, quali sono le conseguenze generate dalla notizia della perdita del lavoro?
L’esperienza della disoccupazione, quanto più è involontaria, inaspettata e subìta, provoca generalmente, in chi ne è suo malgrado protagonista, emozioni e sentimenti di grande intensità e di segno ‘negativo’, che sono il risultato di un ‘lavoro cognitivo’ (in genere inconsapevole) che le persone fanno in relazione a sé stesse, giungendo in qualche modo ad attribuirsi la responsabilità principale, se non esclusiva, di ciò che è loro accaduto: possono così manifestarsi comportamenti riferibili a scarsa fiducia in sé stessi, ansia ed anche angoscia, a senso di colpa, vergogna.

A lungo termine quali sono le reazioni più frequenti nei soggetti inoccupati?
Il senso di fallimento e di sconforto generale che si accompagna alla perdita del lavoro può condurre a un progressivo vissuto di impotenza e a una sorta di abbattimento generale, per cui diventa difficile sforzarsi di agire o anche solo pensare di dover reagire ‘in qualche modo’: come ha osservato già molto tempo fa il sociologo Lazarsfeld, il rischio è quello di un atteggiamento apatico. L’esperienza della disoccupazione può poi provocare anche comportamenti di aperto rifiuto e non accettazione, alimentando atteggiamenti di ostilità e aggressività: in certi casi si tratta di una strategia più o meno consapevole per ‘distogliere da sé’ il sospetto di essere il colpevole della situazione; in altri casi invece si tratta della ‘razionale’attribuzione ad altri (le persone più vicine e significative; le organizzazioni con cui si è in rapporto; le istituzioni di governo e tutela) della causa della disoccupazione, e quindi delle conseguenze negative che si stanno sperimentando.

La perdita del lavoro può provocare anche disturbi psicosomatici o alterare lo stato di salute? 
La disoccupazione, come altri eventi della vita particolarmente stressanti (life events),  quanto più sia prolungata nel tempo e venga affrontata con la percezione di non disporre di adeguate risorse e di adeguato supporto, può avere un impatto pesante anche sulla salute psicofisica. Le conseguenze più frequenti riguardano fenomeni di insonnia, di mancanza di appetito, fino a e vere e proprie sindromi psicosomatiche che possono anche sfociare in patologie gastriche o cardiovascolari, magari aggravate da comportamenti quali il fumo o l’assunzione di alcool, psicofarmaci o sostanze stupefacenti. Non vanno poi sottovalutati a livello familiare, i conflitti e le crisi di coppia e nei rapporti con i figli: tali atteggiamenti sono infatti l’effetto, da un lato del peggioramento della qualità di vita del disoccupato, ma dall’altro anche del clima di insicurezza, di preoccupazione e di conflitto che chi ha perso il lavoro vive quotidianamente.

Come possono intervenire le persone vicine al soggetto disoccupato?
Sono due i ‘circoli viziosi’ pericolosi e da evitare per chi perde il lavoro: da un lato quello ‘tutto interno’ auto-colpevolizzante, fatto di ‘ruminazione’ sulle proprie responsabilità, sfiducia in sé e negli altri, vergogna, isolamento sociale e chiusura relazionale, apatìa, mancanza di progettualità e di iniziativa, incapacità di ‘pensare il futuro’; e dall’altro, all’opposto, quello ‘tutto esterno’ deresponsabilizzante, fatto di ricerca di un capro espiatorio, lamentazioni continue, accuse e conflitti permanenti. Il compito delle persone vicine, dalla famiglia agli amici, riguarda proprio queste aree di intervento: dalla ricostruzione della fiducia in sé stessi,  all’offrire luoghi di ‘rielaborazione’ e di ‘contenimento’ dell’esperienza, far si che il disoccupato riconosca il problema della disoccupazione senza negarlo, ma anzi condividendolo con altri che vivono lo stesso tipo di esperienza. E’ importante stimolare il soggetti a  mantenersi informato sulle opportunità di lavoro fruibili, oltre che ad utilizzare tutte le risorse professionali e socio-istituzionali disponibili, ma anche intraprendere corsi d’azione che consentano di ricostruire e valorizzare le proprie esperienze, competenze e risorse.

Alessia CASIRAGHI

Ricomincio da me e divento imprenditrice

 

Nella lingua giapponese esiste un termine, Kiki, che letteralmente significa ‘rottura di equilibrio statico‘, ma che volgarmente viene tradotto con ‘crisi’. Una parola che rieccheggia sempre più spesso nei giornali e nelle conversazioni di chi, imprenditori e non, si trova a fare i conti con il lavoro che non c’è più, il rischio del fallimento o del licenziamento. Ma se il primo Ki esprime il concetto di ‘rischio’, il secondo Ki traduce l’idea di rottura in nuova ‘opportunità‘. Si può ricominciare davvero dopo aver attraversato l’esperienza della perdita?

Infoiva ha intervistato Giulia Buggea, ex responsabile amministrativa che oggi vive la sua ‘seconda vita’ da imprenditrice, a capo dell’azienda Studio Blu di Desio. Perchè ricominciare da capo, magari scoprendo un talento inaspettato, è sempre possibile.

Qual era la sua professione prima di diventare imprenditrice?
Sono stata responsabile amministrativa in una Sgr per circa 8 anni, poi nel 2009 ho deciso di approdare in uno studio notarile milanese. Avevo avuto da poco il secondo figlio e la prospettiva di una riduzione di orario mi faceva comodo; quindi quando mi è stato offerto un contratto di 6 ore, pur mantenendo lo stesso stipendio del posto precedente, non ho avuto esitazioni. Sono stata assunta, pur maturando qualche perplessità circa la scelta della mia assunzione perchè la contabilità in uno studio notarile è molto semplice, non richiede competenze particolari come invece una Sgr. Dopo circa un anno, è arrivato il licenziamento, preceduto da un periodo di mobbing.

Come ha reagito alla notizia del licenziamento?
Mi era già capitato di cambiare lavoro, non sono mai stata una professionista particolarmente sedentaria, ho sempre cercato di arricchire il mio curriculum a 360 gradi. Quindi il primo impatto non è stato così preoccupante, certo non mi era mai capitato prima di allora di venire licenziata, però ho incassato il colpo. La fase problematica è arrivata dopo: non avevo ancora ‘toccato con mano’ il momento socio economico di crisi che stavamo e stiamo vivendo, e mi sono sentita come schiaffeggiata. Ho pensato più volte ‘oddio il mio curriculum non interessa più a nessuno’: non capivo per quale ragione, ma, al termine di molti colloqui, seppur il ruolo che mi si richiedeva di ricoprire rispecchiava a pieno la mia professionalità, non venivo scelta perchè ero ‘troppo’. Quindi ho cercato di alleggerire il curriculum, di modificarlo, nella speranza di poter trovare un nuovo impiego.

Quale è stato invece l’impatto psicologico?
Per natura non sono una persona che si abbatte, ho un carattere piuttosto reattivo. Quello che più mi lasciava perplessa erano le cause del licenziamento, la loro futilità. Benchè mi fosse stata offerta una liquidazione di un’annualità lavorativa, ho deciso di non accettare: perchè se non sussiste una ragione valida per venire licenziata, non vedo perchè io debba accettare.

Quanto tempo è trascorso dal licenziamento all’avvio della nuova impresa?
Circa un anno di inattività.

E dopo, come si ricomincia e si decide di ‘diventare imprenditori’?
Non avrei mai e poi mai pensato di mettermi in proprio: ho sempre vissuto l’attività lavorativa, da dipendente, in modo oserei dire ‘assillante’. Pensi che la mia secondo figlia è nata il 3 gennaio, e dopo aver preso congedo per la maternità il 23 dicembre (ma solo perchè c’erano di mezzo le Vacanze di Natale!), a una settimana dal parto sono tornata al lavoro. Il mio senso del dovere nei confronti del lavoro era ossessivo. Quindi mi sono detta: se l’azienda è mia rischio di non vivere più!

Come ha mosso i primi passi da imprenditrice?
Ho deciso di prendere parte allo Start, un’iniziativa della Camera di Commercio di Monza e Brianza, che ha lo scopo di formare i nuovi imprenditori, fornendo loro attraverso corsi ad hoc le conoscenze amministrative, di marketing, di comunicazione, che sono la base per chi vuole lanciare una nuova attività. Inoltre a chi presentava il business plan più completo e convincente veniva erogato un finanziamento a fondo perduto per l’apertura della nuova attività. E sono stata fortunata, perchè l’ho vinto.

Di che cosa si occupa la sua azienda?
La mia azienda si chiama Studio Blu e si occupa della gestione del risarcimento dei sinistri assicurativi. Il mio è un ruolo da mediatore, di filtro, tra la vittima del sinistro e la compagnia assicurativa, per quanto concerne qualunque evento che genera un danno e che può essere risarcito da un’assicurazione; quindi si va dagli incidenti stradali, alle responsabilità professionali, responsabilità civile, infortuni, malattie. Tecnicamente il mediatore viene definito ‘patrocinatore stragiudiziale’, perchè se l’avvocato opera in giudizio, il patrocinatore opera in via stragiudiziale, quindi avendo un contatto diretto con il liquidatore, con il vantaggio di poter dimostrare immediatamente e direttamente gli elementi in suo possesso. Diversamente, quando ci si reca davanti ad un giudice per mezzo di un avvocato, si consegnano delle pratiche su cui il giudice delibererà in seguito. Viene da sè che la prassi in via stragiudiziale risulta molto più snella, vanta tempi più rapidi e soprattutto dal punto di vista economico è molto meno dispendiosa che affidare il sinistro ad un avvocato.

Come ha scelto di cimentarsi in questo settore?
L’ho scoperto navigando in rete, e poi è un lavoro che mi si veste addosso. E’ una professione che mi piace definire ‘utile’ e che a mio avviso non conosce crisi. Si tratta di un’attività in franchising, non è una novità assoluta per l’Italia, però sono poche le persone che ad ora si sono cimentate.

Ora che fa l’imprenditrice, teme che in futuro possa trovarsi nella situazione di dover licenziare un dipendente?
Assolutamente si. Al momento non ho dipendenti, siamo in 3 soci, ma mi piacerebbe in futuro poter offrire lavoro a qualcuno e allargare la mia attività, ma so anche che lo farò solo quando avrò la certezza di poter assumere un nuovo dipendente. Forse perché sono passata attraverso l’esperienza della perdita del lavoro, ma sono sempre più convinta che un dipendente sia la risorsa più importante di qualsiasi azienda. Un dipendente felice rende la tua azienda più florida. Dall’altra parte, le cronache dei giornali ci riportano situazioni gravi in cui gli imprenditori si trovano costretti a licenziare, e credo che in quei casi si tratti di una sofferenza da entrambe le parti, sia per chi perde il lavoro, sia per chi è obbligato a licenziare. Sono situazioni di disperazione.

Secondo lei, è corretto dire che in un momento di crisi ‘il miglior welfare è il lavoro’?
Sicuramente si. Il Governo dovrebbe incentivare le assunzioni. Da parte mia in questo momento, trattandosi di una start up, non mi trovo nella condizione di poter assumere; dall’altra parte esistono invece aziende più grandi che potrebbe assumere ma non lo fanno a causa della profonda incertezza del mercato. Se lo Stato intervenisse con sgravi sui contributi o agevolazioni sulle assunzioni, questo potrebbe essere senza dubbio un buon mordente.

Alessia CASIRAGHI

Imprenditori suicidi, non abbassiamo la guardia

di Davide PASSONI

Negli ultimi mesi, complice forse l’estate, sono stati meno i casi di imprenditori che si sono tolti la vita a causa della crisi. Anche se, durante la settimana appena trascorsa, specialmente nel Veneto la cronaca nera in questo senso è tornata a farsi leggere. Eppure la situazione economica non è migliorata, anzi, è andata peggiorando; fallimenti, aziende che chiudono, imprese in bilico ci sono ancora ma forse, ora che si legge sempre meno di gente che si appende a una trave per farla finita, la crisi fa meno notizia.

Noi di Infoiva, però, non molliamo la presa, non vogliamo che si abbassi la guardia su un fenomeno che, seppur scemato, temiamo possa riesplodere in tutta la sua amarezza dall’oggi al domani. Per questo abbiamo bussato alla porta di Adiconsum, che nell’aprile scorso, all’apice del fenomeno degli imprenditori suicidi, ha dato vita all’associazione “Speranza al lavoro” insieme a Filca-Cisl, con diversi obiettivi: creare una rete nel territorio che possa dare sostegno al mondo del lavoro e offrire sostegno psicologico e fiscale a imprenditori e famiglie duramente colpite dalla crisi. Ecco che cosa ci ha detto Pietro Giordano, Segretario Generale Adiconsum Cisl Nazionale e consigliere di “Speranza al lavoro“.

Ci sono meno imprenditori suicidi e l’attenzione dei media sul fenomeno cala. Ma i problemi rimangono aperti, vero?
I mass media classici cavalcano il caso quando scoppia, ma se poi l’interesse scema tendono a dimenticarsene. Speriamo che il fenomeno non si riaccenda in modo clamoroso, ma la situazione resta grave. Lo dico perché, dal momento che gestiamo anche un centro antiusura, abbiamo i dati reali di una crescita dell’indebitamento rispetto al fabbisogno di sostegno economico. E questo non solo tra i lavoratori dipendenti o i pensionati, ma anche tra gli artigiani e i commercianti, che si trovano in condizioni di estrema difficoltà.

Quindi le “grida di aiuto” delle imprese e delle famiglie vi arrivano ancora numerose?
A “Speranza al lavoro” continuano a pervenire decine di richieste di sostegno, sia economico – anche se non è questa la nostra mission – sia di tipo psicologico. Sono spesso famiglie nella più completa solitudine, che quando sono in difficoltà non possono più contare sul supporto di parenti e amici, che scompaiono all’orizzonte. La richiesta è quella di avere un punto di vista stabile a cui aggrapparsi. Sono famiglie e imprenditori con risorse economiche ormai scarse o nulle, che devono sostenere spese, magari schiacciate dal peso delle cartelle esattoriali. Per questo abbiamo a loro disposizione anche dei tributaristi gratuiti.

Come far sì che l’attenzione non cali?
Vorremmo realizzare un grande convegno e una serie di iniziative di sensibilizzazione in tutta Italia, nelle piazze, rispetto a un fenomeno che ora è sotto traccia, ma non è di certo sparito.

Da che zone proviene chi si rivolge a “Speranza al lavoro”?
Provengono per la maggior parte dal Centro-Nord, dove ci sono aree a maggiore produttività: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia… Le segnalazioni però stanno diventando man mano sempre più uniformi sul territorio nazionale, segno che la crisi è dura e moltissimi sono i default. La maggior parte delle piccole aziende coincide infatti con la famiglia, per cui il default non è solo dell’impresa ma di un intero sistema familiare: un fallimento non solo imprenditoriale ma anche personale. O meglio, lo si vive come un fallimento personale, ma a tutto c’è rimedio. Il messaggio che parte dagli operatori di “Speranza al lavoro” è che c’è sempre una possibilità di risalire, bisogna reagire. Che poi è quello che vuol sentirsi dire chi si rivolge a noi.

Spesso molte imprese falliscono perché lo Stato insolvente è il loro primo creditore? Come giudicate questi episodi?
Li giudichiamo molto male. Lo Stato è lontano dal cittadino e dalle imprese e un aspetto del dramma è proprio quello del ritardo nei pagamenti della PA, che mettono in difficoltà tante piccole imprese. Sulle quali poi, magari, interviene Equitalia e le manda in default per poche migliaia di euro, senza pensare che sta dando il colpo di grazia a una famiglia ormai moribonda. L’ennesima dimostrazione che lo Stato non è vicino alle imprese.

Che cosa serve per cambiare la rotta?
Uscire dalla spirale. Abbiamo avuto grande speranza nel governo Monti nella sua prima fase, ma con il passare dei mesi ci siamo resi conto che le caste che bloccano lo sviluppo del Paese sono troppo potenti. Tutti si dicono liberali, ma con gli altri, non con se stessi. Da noi vengono imprenditori che magari per 2000 euro di scoperto con lo Stato si vedono tagliato il fido e buttati letteralmente in mezzo alla strada. Ci dovrebbero essere delle normative che equiparano lo Stato al cittadino: tra i due attori non ci deve essere uno più forte e uno più debole, altrimenti si continuerà a viaggiare a due velocità, come nel caso degli interessi pagati dal cittadino rispetto a quelli da lui vantati nei confronti dello Stato.

Perché è così forte la tendenza a sovrapporre il fallimento professionale a quello personale?
Perché, soprattutto negli Anni ’80, è stato equiparato il successo personale a quello aziendale o professionale, una equazione che è diventata una maledizione per tante persone. Da quegli anni in poi il successo personale non è più coinciso con la ricchezza interiore o la vita familaire serena, ma si è sovrapposto a quello economico. Un tempo la famiglia era il porto sicuro che salvava le persone, ora spesso, come già detto, il default economico coincide con il default familiare: non è una parte della tua vita che finisce, ma tutta la vita, ecco perché la gente si uccide. Un dramma figlio di una cultura che porta a credere che l’opulenza economica sia sinonimo di felicità.

Un appello agli imprenditori in difficoltà.
Mai abbandonare la speranza, non aspettare mai l’ultimo momento per chiedere aiuto a qualcuno. Spesso situazioni tragiche sono tracollate perché sono arrivate a noi all’ultimo minuto, se prese prima sarebbero state sanate o si sarebbero evolute diversamente. Il fallimento di un’azienda non è mai un fallimento personale, la ricchezza dei rapporti è quella che sostiene l’uomo, lì bisogna puntare.